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IL PRINCIPE E I GIURISTI: IL IUS RESPONDENDI EX AUCTORITATE PRINCIPIS

Augusto aveva in gran conto la competenza tecnica dei giuristi. Cercò, pertanto, il loro favore, promuovendo Trebazio al

rango equestre e offrendogli il consolato; la stessa offerta fu fatta ad Aulo Cascellio e a Marco Antistio Labeone, che la

rifiutarono con garbata fermezza.

Dalla scienza giuridica il principe percepiva anche l’importanza fondamentale nello sviluppo dell’esistente giuridico, sì da

ritenere di non potersi permettere di lasciarla fuori del suo controllo. A tal fine, istituì il ius publice respondendi ex

auctoritate principis, il diritto cioè di dare pareri in forza dell’autorità del principe.

Enchridion, Pomponio: […[, prima del tempo di Augusto il diritto di dare pubblicamente responsi non era dato dai principi;

coloro che avevano fiducia nei propri studi rispondevano a quelli che li consultavano. […]. Per primo il divino Augusto per

accrescere l’autorevolezza iuris consultorum stabilì che essi dessero pareri in base alla sua actoritas. Da quel tempo si

cominciò a chiedere questa facoltà di dare responsi alla stregua di un beneficio. […]

Nell’intervento augusteo si intendeva accrescere l’auctoritas iuris, l’autorità del diritto. Pomponio direbbe che con lo ius

respondendi Augusto intendeva accrescere l’autorità dei giuristi, iuris consultorum. L’inserimento di consultorum è

fondato per 3 ragioni sostanziali:

• Pomponio, nella sua opera, trattava dei giuristi e della loro attività respondente, non del diritto generale.

Secondo lui, Augusto avrebbe voluto “legalizzare” la separatezza e la superiorità di un diritto prprio dei giuristi,

la cui ragione di esistere era nel rapporto continuo e costante con le altre formazioni giuridiche, senza e quali

non avrebbe potuto esistere;

• Il termine auctoritas era normalmente riferito agli uomini , più che a cose o ad oggetti astratti;

• Il riferirsi all’auctoritas iuris consultorum era in linea con la politica augustea di restaurazione e garanzia delle

più nobili tradizioni repubblicane e quella del respondere era certamente tra quelle.

Essendo invalsa la prassi di considerare i diritto di dare pareri come beneficium, cioè come una concessione da parte

dell’imperatore, gli ex pretori chiesero ad Adriana di concedere loro di dare responsi. Nello scrivere loro che lo ius

respondendi non soleva essere chiesto, ma dato, questi disconosceva nei fatto il carattere del beneficium dell’istituzione

augustea, quasi certamente gestita dai successori di Augusto, sottolineando la necessità, per chi voleva vedersi

attribuito dal principe il diritto di dare pareri, di attendere a studi giuridici seri e rigorosi. Con ciò Adriana sarebbe ritornato

all’origine dell’istituzione, nel pieno rispetto del requisito della competenza giuridica; egli lasciò scivolare nell’ombra la

antica istituzione augustea, preferendo legare a sé la scienza giuridica, inserendo cioè i giuristi più prestigiosi negli uffici

della burocrazia e nel concilium principis da lui considerato come la vera e propria camera di consiglio dell’impero.

Tutti i giuristi potevano dare responsi, ma che quelli dati dai giuristi insigniti dal principe avessero nei confronti dei

magistrati e dei giudici valore vincolante, in quanto all’autorevolezza personale del respondente si sommava quella

determinate del principe, era ben noto.

Augusto e Adriano rappresentavano due modi diversi di interpretare il rapporto con la scienza giuridica. Il primo, dovendo

fare in conti con una tradizione giurisprudenziale libera, i cui protagonisti appartavano ancora al vecchio ceto dirigente

senatorio, non poteva non improntare la sua azione che alla massima cautela. Il secondo aveva a che fare con i giuristi

la cui provenienza e la cui fisionomia sociale era profondamente mutata.

IL CONSILIUM PRINCIPIS

I funzionari di grado più elevato, i magistrati maggiori, gli amici del principe e alcuni giuristi più rinomati facevano parte

del consilium imperiale, un organo che ripeteva l‘antica prassi dei magistrati repubblicani di circondarsi di consiglieri

fidati che li assistessero nelle decisioni più importanti. Quest’organo dipendeva in tutto e per tutto dalla volontà del

principe, libero di convocare o di estromettere chi avesse voluto. È molto probabile che esso sia stato riformato e

istituzionalizzato dall’imperatore Adriano; il consilium si occupava di problemi politici, legali e giudiziari.

Istituzioni di Giustiniano: è noto che prima di Augusto non vi fosse una disciplina giuridica dei codicilli. Fu Lucio Lentulo a

introdurgli per primo, in Africa, dove morì, redasse dei codicilli confermati nel testamento, con i quali pregò Augusto di

compiere un qualche atto. Avendo Augusto dato corso alla sua volontà, gli altri adempirono ai fedecommessi e la stessa

figlia onorò i legati, pur non essendo giuridicamente tenuta. Si dice che Augusto abbia convocato i giuristi, tra i quali

Trebazio, e abbia loro chiesto se quella pratica potesse essere accolta e se l’impiego di codicilli non fosse dissonante dal

fondamento razionale del diritto. si dice che Trebazio persuase il principe col dire che l’impiego era utilissimo e

necessario ai cittadini, nell’impossibilità di fare testamento era possibile redigere dei codicilli

I codicilli erano atti di ultima volontà, privi delle formalità necessarie per la redazione di un testamento, con i quali si

potevano disporre lasciti a titolo particolare in forma di legato, se confermati in un testamento, in forma di preghiera,

fedecommessi, se non confermati. Nei codicilli non si potevano istituire eredi, a meno che il disponente non fosse un

militare in carriera. Nel brano, nelle prime battute, si dice che prima di Augusto non esisteva il ius codicillo rum, però

questo non è sicuro, in quanto atti privi di formalità proprie dei testamenti si confezionassero anche prima di Lucio

Lentulo; dall’età augustea fu legalizzata la prassi, già esistente, di redigere codicilli.

Dato interessate è la relazione tra il parere tecnico richiesto da Augusto e la risposta di Trebazio. Il parere del giurista fu

alquanto ambiguo , perché una risposta diretta, se negativa, avrebbe costituito una grande offesa alla dignità di Augusto,

se positiva, avrebbe finito con il legittimare il principe a fondare e a tutelare con i suoi interventi la razionalità di un

esistente giuridico, di cui i giuristi ritenevano di essere i soli interpreti.

Fu un dato costante nella letteratura giuridica di epoca classica etichettare gli interventi imperiali come fondati su valori

etico­politici, aequitas, liberalitas, benignitas, humanitas, mai sulla ratio iuris, sulla coerenza con l’ordinamento giuridico.

Esempio è contenuto in un frammento dei Digesti del giurista Ulpio Marcello, che registrava una controversia giudiziaria

in materia successoria.

Per comprendere i termini della controversia è importante sottolineare alcuni dati:

• Che il testamento romano era un documento scritte su tavole cerate sigillate da sette testimoni e accompagnate

da una formale dichiarazione del testatore, detta nuncupativo, con la quale sostanzialmente affermava, che a

ua volontà corrispondeva al contenuto delle tavolette;

• Che per essere valido ed efficace il testamento doveva contenere, a pena di nullità, l’istituzione di uno o più

eredi, solo eventualmente disposizioni con cui si onoravano di lasciti particolari, legati, soggetti, definiti legatari,

o si concedeva la libertà agli schiavi;

• Che fino all’ultimo moment di vita il testatore poteva mutare le sue volontà, o confezionando un altro

testamento, o revocando quello redatto, togliendo i sigilli dei testimoni e, come nel frammento dei Digesti,

cancellando i nomi degli eredi;

• In caso di indegnità degli eredi testamentari, se non vi fossero stati eredi legittimi, i beni ereditari erano

considerati, caduchi e rivendicati ed annessi dal Fisco.

Valerio Nepote dissuggellò il testamento e cancellò i nomi degli eredi; i beni ereditari, in quanto caduchi, furono annessi

al Fisco. Contro questa annessione ricorsero i legatari, ritenendosi lesi nei loro diritti, adendo i competenti giuridici.

Questi ultimi dovevano aver respinto, in primo grado, l’azione, sì che i soccombenti proposero appello al principe, quale

suprema istanza di secondo grado.

L’imperatore sembrava voler confermare la sentenza di primo grado, in forza del principio giuridico per cui un testamento

privo di erede non era valido ed efficace. Senonchè, uno degli avvocati, conoscendo il particolare favore che Marco

Aurelio accordava alle manomissioni di schiavi, con un colpo di genio gli fece presente che se dichiarava nullo il

testamento, anche la manomissioni degli schiavi de testatore sarebbero state inefficaci.

L’imperatore, ascoltati i suoi consiglieri, decise che erano valide ed efficaci le disposizioni non cancellate.

Non vi è dubbio che l’humanitas, che costituì il fondamento della decisione imperiale si poneva al di fuori e contro la

regola giuridica consolidata per cui un testamento, per essere valido, doveva contenere una valida istituzione di erede.

Ciò è tanto vero che il decreto di Marco Aurelio rimase un unicum, non fu in seguito applicato a casi analoghi.

IL PRINCIPE E IL PROCESSO CIVILE: LA COGNITIO EXTRA­ORDINEM

Nel 17 Augusto varò due leggi di riforma del processo civile e di quello penale, le leges Iuliae iudiciorum privatorum e

publicorum. Il nucleo fondamentale della prima legge è dato dall’abolizione formale del processo per legis actiones e

dalla estensione obbligatoria ai cittadini romani del procedimento formulare nel tribunale del pretore urbano.

Accanto alla procedura ordinaria sorse un nuovo tipo di procedimento definito cognitio extra­ordinem. Può essere che si

ricollegasse ad esperienze processuali della tarda repubblica, ad un’attività di autotutela dell’amministrazione pubblica,

rappresentata dal magistrato.

Di fatto, la cognitio fu introdotta per consentire al principe di giudicare in materia civile e penale, dapprima in grado di

appello, poi anche in primo grado.

Le caratteristiche salienti del nuovo processo sono da individuarsi nella natura pubblica, non più privata, del

procedimento, che ora si teneva dinanzi ad un organo dello Stato. In secondo luogo, nella circostanza per cui scomparve

la divisione tra le due fasi del procedimento formulare, ma tutto si svolgeva sub uno iudice, dinanzi ad un giudice. In

terzo luogo, mentre nel prece demente ordinamento processuale era necessaria per lì istaurarsi della controversia la

collaborazione del convenuto, nella cognizione fu possibile che la lite si svolgesse in assenza del convenuto, in

contumacia.

Infine, mentre le sentenze del g

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A.A. 2013-2014
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SSD Scienze giuridiche IUS/18 Diritto romano e diritti dell'antichità

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher esco.montanaro di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del diritto romano e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bari o del prof Arnese Aurelio.