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IL DIRITTO: LEGES
La ricchezza delle fonti giuridiche, che avevano caratterizzato l’epoca repubblicana, di inaridì, non è causale, quindi, che
le costituzioni imperiali furono l’unica fonte autoritaria del nuovo diritto; esse furono definite, leges.
Editti, decreti, rescritti, mandati, ovvero le forme degli interventi normativi imperiali, non conservarono nel tempo lo
stesso valore ed efficacia. I mandati scomparvero o si proposero con altro nome; i rescritti o si confusero con i decreti , o
mantennero la loro fisionomia di pareri vincolanti i giudici.
Di notevole portata, tuttavia, fu una costituzione del 315 dC di Costantino, che tolse valore ai rescritti, negando ad essi
efficacia generale, soprattutto quando contenevano principi contrari al diritto vigente. In conseguenza di ciò, questo
imperatore e i suoi successori esercitarono la loro attività normativa mediante gli editti.
IL DIRITTO: IURA E LEGGI DELLE CITAZIONI
Con il termine iura si intense tutto il diritto precedente all’età del Dominato, in quanto non modificato dalle costituzioni
imperiali, e poiché nell’uso delle scuole giuridiche e nei tribunali non si risaliva più alle fonti antiche vere e proprie, ma la
conoscenza del diritto civile ed onorario si attingeva esclusivamente dalle opere dei giuristi classici, il termine iura servì
nella nuova epoca come denominazione tecnica degli scritti superstiti della giurisprudenza.
Nelle cause civili gli avvocati difensori delle parti in conflitto usavano produrre e recitare, a sostegno delle ragioni dei loro
clienti, costituzioni imperiali e/o responsi dei giuristi antichi, donde il nome di prassi della recitazione. Le opere dei giuristi
del principato apparvero retrospettivamente come lo strumento o il veicolo della volontà del principe. Spettava
all’imperatore decidere della possibilità di utilizzazione nei processi di un’opera giurisprudenziale. Nel 426 l’imperatore
Valentiniano III emanò una terza costituzione, considerata una legge delle citazioni, incorporata nel 438 del Codex
Theodosianus, a noi nota attraverso la mediazione della lex romana visogothorum in cui confermò gli scritti di Papiniano,
Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino, riconoscendo a Gaio la stessa autorità scientifica degli altri giuristi e sancendo che
dall’intera sua opera potevano trarsi i brani da recitare dinanzi al giudice. Stabilì un meccanismo di utilizzazione delle
opinioni dei giuristi antichi da parte dei giudici, nel senso che, se venivano prodotti in giudizio dagli avvocati responsi
diversi, doveva prevalere l’autorità della maggioranza degli autori: ad esempio, se l’avvocato A produceva a sostegno
delle ragioni della parte che difendeva un parere di Ulpiano, e il suo avversario B quelli, contrastanti, di Paolo e di Gaio,
sarebbero prevalsi, in ragione del numero, i secondi. Se vi era parità nel numero di opinioni, ad esempio se un avvocato
utilizzava i pareri di Paolo e di Ulpiano e il suo avversario quelli di Papiniano e di Modestino, prevaleva l’autorità della
parte in cui spiccava Papiniano, di cui l’imperatore elogiava l’ingegno straordinario. Naturalmente, se vi era parità di
opinioni, e mancava un parere di Papiniano, il giudice era libero di decidere secondo il suo apprezzamento.
È possibile che la norma di Valentiniano III abbia subito nell’intervallo di tempo tra la sua emanazione e il 438, anno in
cui Teodosio II pubblicò i suo codice, sostanziali modifiche.
I GIURISTI E LA LETTERATURA GIURIDICA BUROCRATICA
Modestino fu l’ultimo giurista dell’età del principato; quasi un secolo dopo, “si resta completamente sconcertati
dall’improvviso e inatteso collasso della giurisprudenza classica”, nelle sue manifestazioni didattiche e letterarie. I giuristi
furono anonimi e inseriti negli uffici della burocrazia imperiale, centrali e periferici. Inoltre, non è credibile che la
decadenza sia attribuibile all’intensa attività letteraria e scientifica dei giuristi severiani, che avrebbero inibito, per la sua
mole e per la quasi totalità dei tradizionali campi di interesse della scienza giuridica, ogni ulteriore sviluppo del pensiero
giuridico.
È credibile, invece, che la decadenza sia dovuta e tre fattori: un fattore strutturale, non trascurabile nell’esperienza
scientificoletteraria della pars orientis dell’impero, la scarsa o imperfetta conoscenza della lingua latina, che impediva o
rendeva estremamente difficoltoso il dominio della letteratura classica e, dunque, il dialogo con il passato del pensiero
giuridico. In secondo luogo, la circostanza che nella parte orientale si era da secoli sviluppato un diritto e una prassi
giuridica, distinta da quella del diritto romano. Infine, la causa principale e determinate fu nella tendenza del potere
imperiale alla centralizzazione della creazione del diritto e, conseguentemente, nell’impossibilità ideologica ad
ammettere fonti di produzione giuridica diverse dalla volontà dell’imperatore.
L’attività giuridicoletteraria dei giuristi postclassici nelle due diverse parti dell’impero fu modesta e risolse nella
rivisitazione delle opere dei giuristi classici con l’intento di attualizzarne e di spiegarne i contenuti, o mediante
interpolazioni, cioè modifiche dei testi originari e inserzione dei singoli termini o di interi periodi , oppure di glosse
annotazioni poste sia a margine che tra le linee del testo scritto preso in considerazione. Si procedette, inoltre, ad
epitomare, cioè a riassumere i testi classici. L’impossibilità di procedere ad un confronto con gli originali classici ci
impedisce di determinare con sicurezza la consistenza e i limiti di questa attività.
Le opere di cui ci occuperemo furono composte nella parte occidentale dell’impero e furono anonime, tranne l’Epitomae
iuris, attribuita ad Ermogeniano, forse lo stesso autore dell’ononomi Codice, e le tre opere monografiche, sui doveri del
prefetto del pretorio, sui munera civilia, sui testimoni, di Arcadio Carisio.
Un’opera attribuita a Paolo sono le cosiddette Pauli Sententiae, un manuale molto elementare ad uso praticoforense.
La tendenza dell’anonimo autore a conservare e a commentare istituti giuridici desueti ai suoi tempi, rivela un deciso
gusto antiquario.
I Fragmenta Vaticana, detti così perché contenuti in un manoscritto rinvenuto nella Biblioteca Vaticana dal cardinale
Angelo Mai, sono un’antologia di frammenti tratti dalla letteratura giuridica classica e di costituzioni imperiali. I Fragmenta
furono integrati con recenti costituzioni imperiali. Si tratta di un’opera la cui mole può essere paragonata a quella dei
Digesti giustinianei.
Singolare nella ideazione e realizzazione, è una raccolta nota come Collatio legum, o Lex Dei, confronto delle leggi
mosaiche e romane, un’antologia che reca all’inizio di ogni titolo un passo della legge mosaica, con cui si confronta il
pensiero dei più famosi giuristi classici e il contenuto di costituzioni imperiali.
Ultima antologia importante è un’antologia di iura e di leges composta in Oriente, nota anche come il libro siroromano di
diritto.
I CODICI PRIVATI E UFFICIALI
Abbiamo già parlato del Codice come forma libraria, costituita da fogli di pergamena legati insieme sul dorso, a gruppo di
tre, quattro, cinque, e così via. Esso conteneva opere letterarie di diverso genere, tra le quali quelle giuridiche. Abbiamo
anche osservato con il processo di conversione della letteratura dal volume al codice iniziò ben presto, dalla metà del II
secolo dC o anche prima.
Le prime raccolte private di costituzioni imperiali, più precisamente di rescritti, organizzate sistematicamente furono
compilate in oriente e vanno sotto il nome di Codice Gregoriano e Codice Ermogeniano.
Il primo dei due raccoglieva rescritti da Adriano fino a Diocleziano, il secondo, solo rescritti dioclezianei. Essi non ci sono
pervenuti direttamente e nella loro interezza, ma parzialmente e indirettamente, per il tramite dei Vaticana Fragmenta,
della Collatio legum, delle leggi romano barbariche e, soprattutto, del Codice di Giustiniano.
Quanto al secondo codice, anche questo è a noi noto per il tramite delle stesse fonti. In quanto non è diviso in libri, ma in
titolo, è lecito dedurre che nacque come completamento del Gregoriano. Ad entrambi i codici furono aggiunte costituzioni
non dioclezianee; essi furono di fatto abrogati con l’introduzione del codice giustinianeo.
Si ricorderà con una costituzione del 315, l’imperatore Costantino vietò che le cosiddette leggi speciali, rescritti e decreti,
avessero validità generale; oltre a ciò, gli imperatori successivi stabilirono che per la validità del rescritto era necessario
l’accertamento della veridicità dei fatti esposti dal postulante. Questa è, fondamentalmente, la ragione per cui nella
codificazione teodosiana, le norme raccolte sono costituite da leggi generali o editti. Perché questa radicale inversione di
tendenza? Innanzitutto, perché l’applicazione di un rescritto, emanato per un caso particolare, ad una generalità di
fattispecie simili postulava un’attività interpretativa degli esperti del diritto, che poteva sfuggire al controllo dell’unica
autorità investita del potere di creare diritto, l’imperatore e la sua cancelleria.
È interessante e utile comprendere, attesa la divisione dell’impero in 2 parti, se e in che misura una costituzione,
emanata in una delle due parti dell’impero avesse efficacia anche nell’altra. Su questo punto la romanistica è divisa tra
sostenitori della teoria dell’unità legislativa dell’impero e sostenitori del dualismo. La posizione dottrinale più accreditata è
la seconda.
Il primo codice ufficiale che l‘impero romano conobbe fu quello di Teodosio II e perciò noto come Teodosiano. L’attività
legislativa si svolse nell’arco di un decennio, dal 428 al 439. Nel 429 Teodosio ordinò ai suoi commissari di redigere due
codici. Il primo doveva contenere tutte le costituzioni imperiali vigenti o non da Costantino in poi, il secondo, invece, solo
quelle vigenti. Il primo codice esprimeva la volontà di mostrare la saldatura, la continuità tra vecchia e nuova normativa;
codice, che secondo l’opinione comune, era destinato a soddisfare le attese delle scuole giuridiche. Il secondo codice
doveva esprimere la volontà dell’imperatore di indicare a tutti le strade da seguire e quelle da evitare; programma
ambizioso che non si realizzò. Il problema era nella difficoltà di integrazione tra diritto giurisprudenziale e imperiale,
come è dimostrato dalla circostanza per cui un secolo dopo Giustiniano dette vita a due distinte raccolte, di leges, il
Codice, di iura, il Digesto.
Nel 435 Teo