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CAPITOLO 14: L’EGEMONIA AMERICANA E IL SUO DECLINO
Dopo la 2WW gli USA consolidano la loro posizione di maggiore potenza economica
mondiale, grazie al pieno sfruttamento delle opportunità della 2RI, con la diffusione
della grande impresa già da inizio XX secolo nei settori centrali favorita anche dalla
grande disponibilità di fattori naturali, dal dinamismo del mercato interno, dall’azione
dell’antitrust e dalla cultura che si adattava.
La sfida americana.
Qui l’industria trasse beneficio dal conflitto, supportata dalla Difesa nazionale con
stimoli alle produzioni già consolidate, investimenti in risorse per la ricerca e domanda
di prodotti avanzati.
Questo intervento dello Stato continuò anche durante la guerra fredda per fronteggiare
l’URSS. L’abbondanza di capitali supportava investimenti nel sistema di istruzione,
infrastrutture, comunicazione, produzione e distribuzione energetico; questo mentre
Europa e Giappone devastati dalla guerra erano colpiti dalla mancanza di beni di prima
necessità.
A inizio anni 60 gli USA erano leader di quasi tutti i settori e grazie al clima di fiducia e a
una domanda sofisticata ed esigente si rafforzava il predominio dei produttori
americani; gli investimenti esteri statunitensi dopo il 1960 erano elevatissimi (sfida
americana).
I primi segnali del declino e la nuova ondata di fusioni e acquisizioni degli anni
Sessanta.
Già negli anni 50 vi erano le prime avvisaglie di difficoltà per molte imprese USA che non
erano abituate a tale competizione; la domanda dei consumatori si attenuò, le
innovazioni arrivarono al loro limite e gli investimenti incrementavano la concorrenza
tra le aziende di settori diversi.
Al contempo la ripresa economica europea e giapponese disorienta imprenditori e
manager che si erano abituati a grandi ritorni sugli investimenti. Si verificarono fusioni e
acquisizioni per ricercare le capacità tecnico-organizzative che mancavano, anche
legate alla maggiore severità dell’antitrust verso integrazione verticale e orizzontale.
Molto diffuso tra le metà anni 60 e 70 il fenomeno delle fusioni e acquisizioni che
portavano a una diversificazione non correlata delle attività aziendali.
La parabola della conglomerata.
Questo nuovo tipo di impresa si distingueva dalla M-Form a causa della non correlazione
dei settori in cui essa operava; scomparvero tra fusioni e acquisizioni migliaia di
imprese. La diversificazione era sempre stata una caratteristica delle aziende americane
e la ricerca delle economie di costo in questo senso si era tradotta nell’acquisizione di
aziende già operanti in settori correlati con il business iniziale, raggiungendo gradi
anomali di diversificazione negli USA.
Gli elevati profitti generavano forti utili il cui reinvestimento era un problema per il top
management: i grandi azionisti non volevano ricevere dividendi tassati con aliquota
elevata, quindi preferivano il reinvestimento di utili per ottenere profitti a lungo
termine stabilmente crescenti.
Molte aziende sfruttarono la ricostruzione post bellica per espandersi sui mercati esteri
ma questo non era attuabile in tutti i comparti produttivi, ad esempio quelle dei settori
in fase di forte sviluppo tecnologico che reinvestivano utili principalmente in strutture di
R&S all’avanguardia.
I manager delle importanti società dei settori maturi destinarono tra gli anni 40 e 60 gli
utili non distribuiti alla realizzazione di strategie di diversificazione in settori non
correlati e con elevati tassi di crescita.
Es. Armco Steel (USA): una delle maggiori aziende siderurgiche con periodo favorevole
fino alla fine degli anni 50. Con la bassa domanda di acciaio si espande inizialmente in
settori correlati (produzioni impianti petroliferi e acciai speciali) poi diversifica
nell’incorrelato settore assicurativo, poi in aree finanziarie come leasing di beni
strumentali pesanti e infine settore immobiliare: alla fine degli anni 70 il 40% del
fatturato è estraneo all’attività siderurgica.
Altro caso: General Mills passò dalla produzione di farina da macina al materiale bellico,
prodotti elettronici per l’esercito e acquisì impianti chimici.
Anche la possibilità di risparmi fiscali fu un incentivo alla formazione di conglomerate,
visto il raddoppiamento della pressione fiscale tre 1940-69.
Tra gli anni 50 e 60 ci furono molte critiche soprattutto verso i top executive che
passarono da responsabili dell’efficienza e della produzione a dirigenti interessati solo ai
ritorni finanziari.
I punti di forza della conglomerata erano la riduzione del rischio (risultati delle diverse
unità incorrelati), il minor costo del capitale e la possibilità di applicare con profitto a
tante imprese il talento e le capacità del top management. Durante quegli anni le
conglomerate avevano avuto ottimi risultati con media di fatturati e utili annui
rispettivamente di +18% e +10% annui.
Con la crisi degli anni 70 anche le grandi imprese USA accusarono il colpo, con forti
problemi nella struttura amministrativa sviluppata dal management delle conglomerate:
i top manager avevano conoscenze esigue delle imprese acquisite e non erano in grado
di controllarle adeguatamente, non avendo nemmeno organi di staff centrali per le
funzioni critiche (produzione, marketing, R&S).
I capi delle conglomerate agivano affidandosi alle analisi statistiche e perseguendo
l’obiettivo inderogabile del ROI: la supervisione del quartier generale veniva ridotta alla
fissazione di obiettivi per le unità con le relative valutazioni dei risultati su base
quantitativa.
Inizio anni 70 declino della conglomerata statunitense (difficoltà rispetto a europei e
giapponesi): crebbero i livelli di inefficienza nello svolgimento delle funzioni dell’alta
direzione che enfatizzarono la separazione tra il vertice della conglomerata e il
management delle divisioni.
Questo tipo di società lasciò negli USA impatti negativi: non avevano fatto registrare gli
andamenti positivi previsti dai loro creatori ed erano diventate ingestibili per i loro
stessi manager.
Dagli anni 80 partì un processo di ristrutturazione cercando di vendere gli asset acquisiti
negli anni per ritornare al core business iniziale con il fenomeno della “de-
diversificazione”; tra le cause: scelte autonome del management=General Mills, o le
crisi aziendali= Armco.
La ristrutturazione degli anni Ottanta.
In quegli anni gli investitori istituzionali acquisirono cospicui blocchi azionari in seguito
alla compravendita delle aziende smaltite dalle conglomerate: nacque per la prima volta
un mercato per il controllo delle aziende acquisiste da compratori che non avevano
legami con esse.
Nel decennio successivo si raggiunse il picco di tali operazioni, anche se con un
orientamento più speculativo in particolare da parte di banchieri e intermediari
finanziari che smembravano aziende ricercando profitti immediati, senza pensare alla
sorte delle imprese, danneggiando così parti importanti dell’industria americana.
Vennero allo scoperto anche lati deboli riguardanti il capitale umano: vi erano ottime
università e istruzione superiore ma gravi problemi nella base del sistema formativo con
grave diffusione di analfabetismo funzionale della forza lavoro americana.
La ristrutturazione non comprese tutti i rami industriali, come nella chimica dove
DuPont, Monsanto e altre aziende si concentrarono su specialità a più alto valore
aggiunto (farmaci, biotecnologie).
Gli USA continuavano a mantenere posizioni di forza in settori cruciali collegati alla
difesa (aerospaziale, telecomunicazioni, pc) con una ricerca che sfornava ancora grandi
risultati: continuarono a resistere con successo alla crescente competizione nazionale.
CAPITOLO 17: L’IBRIDA EUROPA
Il progetto di Harvard.
Una ricerca di Harvard degli anni 70 analizzò strategie e strutture delle imprese
postbelliche in GB, Germania, Francia e Italia, con l’obiettivo di verificare se la grande
azienda in Europa avesse anche portato modernizzazione organizzativa, confrontandole
con le statunitensi in termini di fatturato, strategia di diversificazione e struttura
organizzativa. Risultato: convergenza fra i modelli.
Diversificazione e multidivisionalizzazione in Europa.
Dalla ricerca è evidente il successo della diversificazione e della struttura
multidivisionale, adottate da più del 50% delle principali imprese; le origini di questa
tendenza sono legate al piano Marshall grazie al quale si ricostruì l’Europa erigendo
anche una barriera ideologica contro i sovietici.
Questo piano permise per 4 anni un grande afflusso di risorse finanziarie e tecniche,
macchine, materie prime e beni, con pressioni a eliminare le barriere di circolazione
delle merci. Uno svantaggio per i cartelli ma giovò alle imprese: oltre alle risorse
arrivarono competenze, tecnologie e tecniche organizzative per rendere efficiente
l’industria europea insegnando l’American Way.
Otre alla riduzione degli addetti nel settore agricolo si aprirono i mercati abolendo le
barriere al commercio, le imprese di tutti i settori erano incoraggiate a investire (molto
auto e high-tech); l’espansione economica portò intensificate politiche di welfare, una
crescita occupazionale con conseguente aumento di potere d’acquisto e domanda
(nuove opportunità ai competitori).
Nel ’57 con il Trattato di Roma nacque il Mercato Comune Europeo (MEC), che avvio
un’intensa competizione attribuendo sempre più importanza alle imprese first mover.
Questo dinamismo nel mercato europeo attirò molti investimenti diretti USA grazie a
misure di riduzione fiscale e incentivi volti a colmare gap tecnologico e promuovere
industrializzazione nelle aree depresse.
Società di consulenza come McKinsey furono determinanti per la diffusione delle
strutture organizzative americane in Europa. Qui le aziende locali dovettero adattare le
loro caratteristiche originarie alle esigenze della nuova situazione economica e di
mercato (necessità di una competente classe manageriale, adeguamento delle strutture
organizzative alla diversificazione).
Deviazioni.
In GB la M-Form era ostacolata dalla resistenza dei senior manager alla delega di poteri
e responsabilità anche a livello operativo; i manager tedeschi erano invece più
disponibili.
Anche la struttura a holding continuava a diffondersi a ritmi diversi in base ai Paesi: in
GB dominava una variante delle M-Form senza leadership centralizzata, in Germania le
holding erano conglomerate a controllo familiare con forte autonomia delle unità, in
Francia la formula leggera con controllo dello Stato, in Italia si combinavano quasi
anarchia periferica e autocrazia al centro.
Dopo il conflitto la GB era l’unico Paese con mercat