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Il problema cui l’opera intende rispondere è essenzialmente quello esplorato nei “Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio”: ossia come individuare una forma politica capace di avere in sé l’energia
politica, la virtù, in grado di agire efficacemente in un mondo che sta diventando, per l’Italia e per
Firenze, sempre più insicuro. Nei primi 11 capitoli Machiavelli analizza i diversi tipi di principato,
in cui governa una sola persona, distinti in:
• ereditari: possono essere guidati o attraverso la cooperazione tra il principe, il re e i nobili del
regno (es: re di Francia) o in modo dispotico dal principe in quanto tale, unico detentore
dell’arbitrio, che considera tutti i suoi sudditi come servi (es: Impero persiano=esempio classico
del dispotismo).
• nuovi
Machiavelli è però interessato particolarmente al Principato nuovo, ad un principe che vada al
potere perché ha conquistato ex novo un territorio in quanto per lui la politica è un’azione ed
essenzialmente un’innovazione. Il suo ideale politico resta però la Repubblica, di cui il Principato
ne è una specie di surrogato, poiché tutta la capacità di agire energetico, tutta la virtù, è concentrata
in un solo uomo e non diffusa nel corpo del popolo e nelle istituzioni politiche. Il suo principe non è
un tiranno ma è innanzitutto un condottiero(=qualcuno che sa fare la guerra), che sa comprendere
perfettamente il presente, la realtà che lo circonda e gli uomini che gli stanno attorno non per
trasformarli (in quanto la natura dell’uomo è immutabile) ma per sfruttare le loro caratteristiche.
Machiavelli ha una visione buia, molto negativa dell’antropologia umana e di conseguenza risulta in
contrasto con la Chiesa di Roma che crede in un uomo puro, idealizzato come la più alta creazione
di Dio. Infatti in Machiavelli l’uomo non è un animale razionale e politico(come le api e le
formiche) ma è simile al centauro=figura mitica, essere complesso, metà uomo nella parte superiore
del corpo e metà cavallo nella parte posteriore. L’uomo è quindi un groviglio di passione e ragione,
in cui la parte razionale non controlla quella passionale, istintuale(il cavallo scalcia mentre la testa
può ragionare ma non può controllare la parte istintuale). Il principe deve sapere sfruttare questo
intreccio dell’essere umano. Ma dal punto di vista dell’essere umano ciò rende la visione di
Machiavelli dell’uomo molto triste. Quest’ultimo è visto sempre come reo, colpevole,
tendenzialmente vizioso in quanto si fa trascinare dalle passioni. Dal punto di vista della politica
invece ciò rappresenta il motore di successo del principe: ciò che è visto come vizio, tristezza dal
punto di vista del singolo o del giudizio morale, può diventare una virtù. Politica e morale viaggiano
da questo momento in poi su due binari completamente diversi e la prima deve essere capace di
trasformare i vizi di questi esseri in virtù politiche e non etiche. Il Principe astuto sa sfruttare i vizi
dei suoi sudditi per far trionfar la sua città. Si può dire quindi che la politica di Machiavelli è
dispendiosa in quanto ha a che fare con uomini non obbedienti.
Uno dei vizi tipici dell’animo umano è la brama di primeggiare, aver gloria. Il principe deve essere
in grado di incanalare tale vizio per metterlo a disposizione della città. Tale virtù politica verrà in
seguito tradotta nell’amor di patria. Per far emergere la propria città è necessario conquistare
territori: egli pensa quindi ad una politica che fa guerra in continuazione, ad una politica come
manifestazione continua della potenza della città, del principato. Egli arriverà a dire nell’opera il
“Principe” che un buon principato è quello governato da buone leggi, che si identificano nelle
buone armi.
Non tutti per Machiavelli possono fare il principe e la sua capacità principale consiste nell’avere
virtù particolari: egli deve essere forte come un leone ed astuto come una volpe=animali solitari e
nel comprendere la realtà degli eventi che lo circondano e piegarli alle proprie virtù. Ecco perché il
fine giustifica i mezzi: ciò però non vuol dire che si può fare qualsiasi cosa per arrivare ad un
determinato fine ma che a seconda dell’obiettivo prefissato si adoperano i mezzi adatti a quella
situazione. La capacità del principe è anche quella di capire i mezzi che aiutano a raggiungere il
fine, senza un giudizio etico-morale ma solo politico.
Il principe è sempre animato dalla volontà di compiere grandi imprese, azioni e di rendere onore e
gloria alla propria città, unico modo per restare iscritti nella storia che tutto divora. Infatti la storia
non racconta gli umili ma solo i grandi uomini, che sono tutti condottieri. L’obiettivo della politica
non è conservare il proprio Stato in pace e sicurezza ma far sì che la storia si ricordi di esso al
contrario di oggi che vi è il mito della stabilità.
Il principe è un uomo tragico in quanto la storia dell’umanità non è progresso costante, come
crederà la modernità, e in fondo ad essa non c’è la salvezza eterna. Per Machiavelli la storia è solo
decadenza, un buco nero che tutto inghiotte: egli ha una visione antropica, tragica e non espansiva
di essa. Il principe sa tutto questo e l’unica cosa che può fare(non è ambizioso) è illuminare a
sprazzi quel buio deleterio.
Il principe deve essere quindi virtuoso ma deve anche sapere che gli si para davanti a lui la fortuna,
intesa nel senso latino della parola, ossia caso. Il mondo di Machiavelli non è ordinato, non c’è un
dio creatore, non c’è alcun logos=principio razionale che gli da forma ma è sottoposto
costantemente alla causalità, alla contingenza. Non è possibile programmare niente. Quindi le
strategie per domare la fortuna (differenziano il principe virtuoso da quello che non lo è) non
permettono mai la vittoria su di essa in quanto, nonostante le sue virtù politiche, il principe incontra
sempre sul suo cammino l’imprevisto, su cui è difficile agire. Per Machiavelli la fortuna è come un
fiume in piena, che prima o poi rompe gli argini. Quindi il principe può solo ritardare la piena ma
non evitarla, costruendo argini più forti poiché sa che la piena prima o poi arriverà comunque
rompendo gli argini fortificati.
Oltre al peso della fortuna, un ulteriore fattore di limitazione dell’agire politico del principe è
costituito dai rapporti sociali e dalle forze reali che da lì si sprigionano. Quest’attenzione ai rapporti
sociali emerge nel capitolo IX, in cui Machiavelli, dopo aver esplorato nei primi capitoli le varie
modalità di ascesa al Principato, analizza il caso in cui qualcuno diventa il principe della sua città
grazie al favore degli altri cittadini, realizzando così un Principato civile. Si può quindi diventare
principe o con l’appoggio dei Grandi o con quello del popolo. Nel primo caso s’incontreranno due
pericolosi inconvenienti: non si potrà comandarli né maneggiarli a piacimento: i Grandi infatti
chiederanno al principe di comandare ed opprimere il popolo mentre quest’ultimo non pretenderà
che un “onesto fine”, ossia quello di non essere oppresso.
Un altro problema è come innovare la realtà presente, che è decadenza, buio, disordine e come dar
forma, per un attimo, a questa confusione che è naturale.
Machiavelli è amorale: egli ritiene che la morale non può avere a che fare con la politica e la
politica non può avere a che fare con la morale. Quindi il rapporto fra etica e politica a cui lui pensa
può essere sintetizzato in tal modo: l’etica tradizionale cristiana resta valida e il bene morale è ciò
che la Chiesa ha sempre sostenuto; ma la politica si sottrae a questa etica poiché si fonda su un’altra
etica in cui il bene è il successo del principe, ossia la potenza dello Stato, obiettivo che va
perseguito anche a costo di violare l’etica religiosa.
La sua è una politica che pensa alla partecipazione di molti in quanto per poter fare una guerra è
necessario un esercito. Quindi il buon principe deve addestrare i cittadini a diventare abili
combattenti e per prima cosa costituisce la comunità in armi, cioè dà le armi ai propri cittadini al
contrario del Leviatano di Hobbes,
che li disarmerà e del sovrano moderno. Infatti il cittadino moderno è un cittadino disarmato in
quanto esiste un esercito statale che provvede alla sua sicurezza. È attraverso l’esercizio delle armi e
della guerra che la virtù si forma e si mantiene nel principe, nello Stato e nei suoi sudditi. La
seconda cosa che deve fare è ordinare la milizia. Da qui deriva il grande tema di Machiavelli: nei
capitoli XII-XIV del “Principe” si condanna l’uso delle milizie mercenarie e si raccomandano le
“armi proprie”, portate dai cittadini dello Stato, che nell’esercizio della guerra trovano una sorta di
partecipazione politica e un’uscita dall’egoismo che caratterizza fatalmente gli uomini. Risulta
perciò necessario creare un esercito popolare che non combatte per un utile, per il soldo ma per la
gloria di tutti e la salvezza della propria patria(il 1°esercito popolare sarà quello napoleonico). La
sua ultima grande azione è quella di amministrare la guerra e non la giustizia. Machiavelli ci
propone una visione agonistica del potere. Se tutti sono impegnati ad armeggiare, nessuno lavora e
il cibo viene procurato attraverso un’economia di rapina, saccheggio e sottomissione delle
popolazioni conquistate. Infatti non vi è l’economia politica poiché il lavoro ha bisogno di pace.
Inoltre Machiavelli vede nel principe colui che è in grado di salvare il vivere civile e allo stesso
tempo un servitore della politica, una persona pubblica consapevole delle regole e delle necessità
della politica.
“Dell’arte della guerra”
L’opera, pubblicata in 7 libri nel 1521, esprime la volontà di tornare ai “modi antichi”(=romani) e
alla connessione tra buone leggi e buone armi, che significava anche tentare di restaurare
quell’ethos che li aveva sorretti e quindi armarsi di milizie proprie, realizzare un esercito di popolo
animato da una salda disciplina, impedendo che la guerra diventasse una professione, un mestiere
con cui arricchirsi. Si trattava inoltre di rivalutare la fanteria contro la sopravvalutazione della