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Storia della filosofia medievale - Averroè Pag. 1
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Averroè 2

Si comprende così la soluzione del quesito sulla compatibilità della filosofia con la legge islamica:

lo studio della filosofia è un compito che la legge prescrive come altamente meritorio, perché

mette in condizione di cogliere la verità più profonda del testo rivelato. Questa conclusione

implica due importanti conseguenze. La prima è che la gente semplice è tenuta ad attenersi

esclusivamente al senso letterale della rivelazione, che è strutturata appunto in modo da

risultare comprensibile, nel suo primo livello, anche per i semplici. Sarebbe estremamente

pericoloso se questi ultimi provassero ad addentrarsi nel senso profondo senza averne i mezzi.

La seconda conseguenza è che dall’interpretazione del testo rivelato devono alla fine essere

esclusi proprio i teologi, coloro che non intendono attenersi solo al senso letterale, ma si

attribuiscono il compito di interpretare il testo sacro, pur non avendone affatto i mezzi. L’unica

maniera corretta di pervenire al senso profondo o metaforico di un passo coranico è

quella di interpretarlo secondo le regole della logica e della filosofia. Per questo motivo,

dunque, il dovere dei buoni principi musulmani sarà anche quello di bandire i teologici, come

fonte di turbamento e instabilità. Ad esso si affianca quello di proteggere i filosofi e i semplici

credenti, evitando tuttavia, come visto, che le dottrine o i testi dei primi abbiano una circolazione

incontrollata tra i secondi, cioè tenendo il più possibile separate le elitè colte dalla massa.

La dottrina dell’unicità dell’intelletto potenziale

Poiché il Trattato decisivo non fu mai tradotto in latino, la fama di Averroè in Occidente è legata

alla sua teoria dell’intelletto. Per comprenderla, dobiamo partire dalle questioni lasciate

aperte dal pensiero di Aristotele.

Lo statuto dell’intelletto potenziale: i presupposti della questione

Nel II libro del De anima Aristotele aveva distinto un intelletto agente o produttivo, in grado

di produrre gli intellegibili, e un intelletto potenziale, in grado di ricevere gli intellegibili, e di

poterli così pensare in atto. Quest’ultimo intelletto è descritto da Aristotele come “impassibile”,

“capace di riceve le forme”, “non commisto al corpo”: il senso di queste espressioni sembra

essere quello di sottolineare come tale intelletto non possa essere un organo corporeo. Per

questo, l’intelletto potenziale è caratterizzato da una parte come “impassibile” e dall’altra come

“potenziale”. Tuttavia, l’espressione “non commista al corpo” rimaneva di per sé ambigua. Già i

commentatori tardo-antichi di Aristotele avevano preso a questo riguardo vie diverse.

Alessandro di Afrodisia aveva inteso l’intelletto potenziale come una pura “disposizione”

inerente al composto materiale che costituisce il corpo umano e sprovvista di uno statuto

ontologico proprio: in altri termini, l’intelletto potenziale non era per Alessandro qualcosa di

corporeo, ma neppure qualcosa di sussistente a sé; era invece solo una predisposizione a

ricevere gli intellegibili. Temistio aveva invece ipotizzato che intelletto potenziale e intelletto

agente fossero semplicemente due componenti dell’intelletto proprio di ciascun individuo, legate

tra loro come la materia e la forma: l’intelletto agente non era più visto come qualcosa di

esterno e separato, mentre quello potenziale non era ridotto a una semplice disposizione o

capacità interente al corpo. Tutti i principali filosofi arabai hanno affrontato la questione:

al-Farabi aveva già scelto di identificare l’intelletto agente con una sostanza separata (la

decima intelligenza), ponendo come compito supremo degli uomini quello di realizzare una

congiunzione il più continua possibile con tale intelletto. Fino ad Averroè, dunque, la teoria

dominante nel mondo della filosofia in lingua araba pone come unico e separato l’intelletto

agente, e come proprio di ciascun individuo l’intelletto potenziale, ovvero quello con cui

effettivamente si pensa. L’evoluzione della posizione di Averroè

Averroè pervine a questa conclusione radicle attraverso molti ripensamenti. Averroè ja

commentato il De anima di Aristotele tre volte, mutando sempre la propria opinione a questo

riguardo. Nel Compendio o Epitome, la sua posizione è ancora molto vicina a quella di

Alessandro di Afrodisia: l’intelletto potenziale è una pura disposizione, che tuttavia per Averroè

inerisce non tanto al corpo, quanto direttamente alle immagini sensibili. L’intelletto potenziale

non sarebbe null’altro che la mera capacità o disposizione delle nostre immagini sensoriali a

trasformarsi in contenuti intellibili. Forse proprio per questi motivi, Averroè si sposta, nel

Commento medio, in direzione di Temistio: l’intelletto potenziale dev’essere considerato nella

sua complementarietà rispetto all’intelletto agente, per cui tale intelletto acquista una sua

sostanzialità nell’essere congiunto all’intelletto agente, intelletto materiale e intelletto agente si

presentano come due facce della stessa medaglia.

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A.A. 2013-2014
3 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/08 Storia della filosofia medievale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Cricetina93 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia della filosofia medievale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Napoli Federico II o del prof Sorge Valeria.