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KANT, LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
Ci chiediamo il significato dell’aggettivo pratica. È una vecchia tradizione nella
filosofia distinguere tra filosofia teoretica e filosofia pratica, dove la filosofia teoretica
riguarda la conoscenza e i problemi della conoscenza mentre per filosofia pratica si
intende quella filosofia che ha a che fare con la praxis, l’azione, i comportamenti,
dunque ciò che è bene e ciò che non è bene, ciò che possiamo e ciò che non possiamo
fare. Quella che più tardi si è chiamata filosofia morale.
La filosofia pratica di Kant ha al centro l’idea del dovere. È una morale di tipo
rigorista, il senso del dovere è molto forte. In questo si è vista anche una forte
influenza della madre che ha educato Kant in modo rigoroso, prussiano, con questo
mettere il dovere davanti a tutto.
A questo proposito si parla di un dualismo kantiano, tra le passioni e la ragione. Da
un lato le passioni ci indurrebbero a un agire per il nostro soddisfacimento, il nostro
piacere, ad agire in senso egoistico, dall’altro lato la ragione invece (che si identifica
con la voce del dovere) dice di controllare questi impulsi egoistici e di agire in modo
razionale, e quindi universale. Quello che Kant vuole è il controllo della ragione sugli
istinti passionali. Per Kant è un fatto che tutti avvertiamo dentro di noi la voce del
dovere, si tratta solo di ascoltare la voce del dovere, che poi è la voce della ragione
dentro di noi. Qui notiamo una prima differenza con la Critica della ragion pura, dove
Kant si preoccupa di “mettere dei paletti” alla ragione, di capire quali sono i limiti della
ragione conoscitiva. Nella ragion pratica invece esalta il ruolo della ragione che deve
dominare sulle passioni.
Un punto importante è il discorso sull’autonomia della morale. Significa che noi non
dobbiamo agire in vista di premi o di punizioni, ma dobbiamo agire in quel certo modo
perché siamo razionalmente convinti che così si deve fare. Si deve perché si deve.
L’agire in vista di premi e punizioni ci porta in eteronomia (nomos=legge), che è il
contrario dell’autonomia. La vera azione morale è quella del tutto responsabile che
scelgo per se stessa.
Un’ulteriore caratteristica del discorso di Kant è il formalismo della morale. Il
discorso morale non deve dire cosa fare, altrimenti c’è una voce esterna che ci
comanda, si va subito in eteronomia. Il discorso morale non prescrive dei contenuti,
ma dice solo la forma. Agisci in modo non egoistico, passionale, agisci in modo
razionale, universale. La forma del nostro agire non deve essere egoistica ma
razionale.
Questo si collega subito a come possono essere formulati quelli che Kant chiama
imperativi. Kant distingue due tipi di imperativi:
• Ipotetici hanno la forma “se…allora”, in questa forma noi siamo rinviati a
qualcos’altro, un discorso quindi che ci porta in eteronomia. Non può
essere l’imperativo ipotetico quello della morale;
• Categorico “agisci in questo modo perché questo è un agire morale”
“agisci in modo universale” ovvero in modo che tutti potrebbero agire
come te. Una seconda formulazione di tale imperativo è questa: agisci in
modo da trattare gli altri non solo come mezzi ma anche come fine. Nel
nostro agire quotidiano noi continuamente adoperiamo gli altri come
mezzi, e a nostra volta sono adoperati. Vuol dire rispetta in ognuno la sua
umanità, la dignità umana.
I postulati della ragion pratica sono tre punti che non abbiamo potuto dimostrare
nella ragion pura, ma che dobbiamo ammettere, altrimenti non ci sarebbe morale.
Libertà: è un postulato fortissimo, un’azione è morale solo se è
responsabile, cioè solo se è libera, se io potevo scegliere di farla o
non farla. “Se devi, puoi”. Il fatto che tu avverti la voce del dovere,
significa che sei libero.
Immortalità dell’anima: l’impulso ad agire bene non ha limiti, si
estende all’infinito, ma in questa vita possiamo agire bene solo per
un certo tempo, in modo limitato. Quindi, almeno una parte di me
deve poter continuare nello sforzo morale.
Esistenza di dio: è vero che noi non dobbiamo agire in vista di premi
o punizioni. Però c’è anche un’esigenza di giustizia che alla fin fine
chi agisce bene sia premiato e chi agisce male sia punito. C’è
un’esigenza oggettiva di giustizia. Il garante di questa giustizia
finale è appunto dio. Noi non possiamo dimostrare l’esistenza di dio,
sentiamo la necessità.
KANT, LA CRITICA DEL GIUDIZIO
C’è un contrasto tra ragion pura e ragion pratica. Il contrasto più grosso è che nella
ragion pura si esalta la necessità scientifica, mentre nella ragion pratica si esalta la
libertà di scelta.
Allora la terza critica vuole gettare un ponte tra necessità e libertà. A questo scopo
Kant oltre alla ragione conoscitiva, oltre alla volontà razionale introduce una terza
facoltà che quella del sentimento. La facoltà del sentimento si esplica in giudizi
sentimentali che sono diversi dai giudizi conoscitivi. Nei giudizi conoscitivi agiscono
delle categorie e soprattutto la categoria di causa-effetto. Nel giudizio sentimentale
invece non usiamo categorie. Esempio cascata (atteggiamento dello scienziato che
calcola l’energia che si può ricavare con giudizio scientifico oppure l’atteggiamento
dello spettatore che usa un giudizio sentimentale).
Il giudizio sentimentale ha una sua universalità, cioè anche in questo caso una
ricerca di universali comuni a tutti i soggetti. Nel giudizio sentimentale distingue quello
del PIACEVOLE (non pretendo che valga per tutti) dal giudizio del BELLO (pretendo
abbia un valore non semplicemente per me ma universale).
Giudizio scientifico giudizio determinante.
Giudizio del sentimento giudizio riflettente.
Il giudizio sentimentale che si occupa del bello si occupa dell’estetica. La parola
“estetica” ha un senso diverso dalla prima critica (in cui era la parte che si occupava
della sensazione aistesis), qui estetica vuol dire “discorso sul bello”. Però Kant non si
occupa solo del bello: in una seconda parte si occupa di un giudizio – sempre del
sentimento – che è un giudizio sull’armonia complessiva e sulla sua rispondenza a una
finalità. Questo tipo di giudizio viene chiamato tecnicamente “giudizio teleologico”,
dove telos = finalità.
Il giudizio sentimentale estetico si occupa di una finalità presente in tutti i soggetti
che godono del bello. Invece il giudizio teleologico si occupa di una finalità oggettiva,
cioè di una finalità intrinseca all’oggetto.
Notiamo che in tutte e tre le critiche Kant cerca degli universali per tutti i soggetti,
cioè dei trascendentali.
Ragion pura trascendentali conoscitivi.
Ragion pratica voce del dovere che è la volontà buona che deve prevalere sulle
azioni egoistiche. Universale pratico.
Qui ci occupiamo di universali sentimentali. Il giudizio del bello e quello teleologico
sono facoltà trasversali a tutti i soggetti. Il giudizio del bello si distingue dal piacevole
(il piacevole è ciò che vale per uno). È, dice Kant, un universale senza concetto.
Significa dire non adoperare categorie di tipo scientifico, però è pur sempre un
universale.
Kant ritiene che il bello sia qualcosa che piace a tutti sempre. Ci può essere qualche
dubbio: in epoca preistorica il canone del bello era molto diverso da quello che è
all’epoca in cui scrive Kant (esempio Veneri “pingui”). Su questo si potrebbe essere più
d’accordo con Hume, che dice che il bello dipende dal gusto sociale, riferendosi
sempre all’esperienza.
In questa critica ci occupiamo di giudizi del sentimento di tipo estetico, che
riguardano il bello, e di tipo teleologico, che riguardano la finalità.
Vediamo prima i giudizi di tipo estetico: ci si occupa del bello e anche del sublime;
la differenza tra bello e sublime è che il bello, secondo Kant, è commisura, mentre il
sublime è smisurato. Per quanto riguarda il bello, la caratteristica è che è un “giudizio
universale senza concetto”. Sappiamo che la parola universale distingue questi giudizi
dai semplici giudizi del piacevole (che riguardano me solo, i miei gusti personali).
L’altra parte, ovvero “senza concetto”, allude al fatto che questi giudizi non sono
giudizi scientifici, che adoperano categorie (= concetti puri). Un universale non
scientifico ma sentimentale.
Abbiamo anche detto che il discorso di Kant sul bello può essere criticato: potrebbe
dipendere dai gusti di una certa società in un dato tempo. Abbiamo ricordato invece la
teoria di Hume che riporta il bello a un diffuso gusto sociale, senza però assolutizzarlo.
Una seconda determinazione che ci dà Kant è che il giudizio del bello è un
“universale senza interesse”, un giudizio disinteressato. Questo serve ad un’altra
distinzione: il giudizio del bello dal giudizio morale. Il giudizio morale è interessato a
che ci siano certi comportamenti e non altri, il giudizio del bello è disinteressato.
Esempio: quadro che raffigura la strage degli innocenti.
Questo è un discorso di notevole importanza perché fonda l’autonomia del giudizio
estetico: fino a Kant il bello e il buono venivano molto mescolati insieme. La Chiesa,
che aveva molta influenza sulla cultura, voleva che un libro di poesia o di prosa non
dovesse soltanto essere bello, ma doveva dare degli insegnamenti morali. La Chiesa
ammetteva le opere d’arte purché avessero una portata morale. Kant dice in modo
molto deciso e coraggioso per i suoi tempi che una cosa è il giudizio morale, tutt’altra
cosa è il giudizio del bello che non deve essere sottoposto a istanze moralistiche.
Questa autonomia è anche assolutezza del giudizio estetico.
Kant però si occupa anche del sublime, che è ciò che va oltre la misura e anche in
questo si pone a metà del Settecento e Ottocento, apre a quella che sarà la tematica
del Romanticismo. Il sublime può essere di due tipi: il sublime di grandezza (il cielo
stellato), oppure il sublime di potenza (il mare in tempesta). Il sentimento del sublime,
dice Kant, è duplice: da un lato è un sentimento di pena perché ci sentiamo piccoli di
fronte all’infinito o all’infinita potenza; dall’altro lato però noi riflettiamo