A ventun anni conosce Théodore Gericault, per cui
posa per uno dei naufraghi della Zattera della Medusa e
che gli insegna ad amare i cavalli e le tinte accese,
violente. Frequenta i migliori salotti parigini, dove stringe
amicizia con letterati, musicisti e pittori, con cui
condivide gli ideali del romanticismo, in polemica con i
classicisti. Studia e assimila la lezione di Peter Paul
Rubens e di Paolo Veronese, ma nello stesso tempo è
attento a cogliere le novità stilistiche portate dagli inglesi
Turner e Constable.
Il viaggio in Marocco e in Algeria segna una tappa
importante nella sua formazione e apre il periodo
migliore della sua maturità espressiva, che tocca il suo
culmine nei dipinti a tema orientalista e nei grandi cicli
decorativi parigini, per il palazzo Borbone e per quello del
Lussemburgo, nell’Hotel de la Ville e per la Galleria di
Apollo al Louvre.
Tra le sue ultime opere spicca la serie di tele per la
cappella degli Angeli nella chiesa di Saint-Sulpice, suo
testamento spirituale e uno dei vertici dell’arte sacra
dell’Ottocento.
Il pittore dell’anima 22
Parigi, soggiogata dal genio imperioso di David e
dall’intransigenza del suo nuovo erede Ingres, è ormai
tranquillamente adagiata nelle convenzioni stilistiche
favorite dalla scuola classica: decoro della composizione,
correttezza del disegno, nettezza della forma,
monumentalità nell’azione, dominio delle passioni e
chiarezza intellettuale.
Delacroix, fin dalle prime apparizioni pubbliche,
sconvolge ogni abitudine visiva: il suo colore è acceso e
vibrante, le composizioni dinamiche e impregnate di una
forma più suggerita che chiaramente
definita; il suo mondo è poetico e
percorso da inquietudine e da
angosce metafisiche, agitato da
passioni. Eppure Delacroix non è un
rivoluzionario: egli è un rinnovatore.
Delacroix mostra davvero la sua
grandezza quando, attraverso la
rappresentazione di qualsiasi motivo,
arriva ad esprimere la vita stessa
della sua anima; allora, tutti i soggetti
si tramutano in un solo oggetto
perché quelle immagini divengono le
immagini inconfondibili in cui si
incarna il mondo interiore dell’artista. Sogni, desideri,
incubi e passioni di un uomo che non Eugène Delacroix,
si chiude alla realtà della vita Autoritratto
contemporanea per evadere in una dimensione
visionaria, ma cerca un modo nuovo e diverso di
partecipare alla dimensione più intima e segreta della
realtà nelle sue relazioni, così trascurate, con l’interiorità
dell’artista.
Uno dei nodi critici di tutta la pittura di Delacroix sta
proprio nel rapporto difficile tra immaginazione e realtà,
tra mondo esterno e mondo interiore.
Fin dall’inizio si percepisce la duplice ricerca
nell’opera del pittore: guardare dentro di sé e fuori di sé.
Si avverte anche la sua difficoltà a coordinare le diverse
conquiste per cedere ora al suo straordinario virtuosismo,
23
ora all’emotività spasmodica e alla sensibilità dolorosa e
malata.
Quando già lavora alla sua ultima, grande impresa, la
Chapelle des Saints-Agnes e Saint-Sulpice, annota nel suo
diario: “La pittura mi assilla e mi tormenta in mille modi,
a dire il vero, come l’amante più esigente; da quattro
mesi scappo via appena fa giorno e corro verso questo
lavoro seducente, come ai piedi dell’amante più
adorata”.
“… la biografia di Eugène Delacroix è poco
movimentata. Per un uomo simile, fornito di un tal
coraggio e di una tale passione, le lotte più interessanti
sono quelle che deve sostenere contro se stesso”: così
scrive Baudelaire, che dell’artista è il critico più
penetrante. Egli lo definisce “un cratere di vulcano
mascherato artisticamente da mazzi di fiori”.
Delacroix e Baudelaire: rapporto tra
geni Da tempo Delacroix e Ingres si battevano davanti ad
un pubblico che li incitava come “due lottatori”. E
Baudelaire si era subito schierato dalla parte di Delacroix;
eppure la prosa di Baudelaire sui due artisti è totalmente
diversa. Quando parla di Ingres è precisa e schietta, con
Delacroix, invece, vacilla, diventa enfatica e offuscata.
Delacroix ha lo svantaggio di non essere soltanto un
pittore, ma è una vera e propria causa. Lo preme il
dovere di rappresentare “la parte melanconica e ardente
del secolo”, parte che altrimenti rischia di rimanere
soffocata, trattandosi di un “secolo per il quale nulla è
difficile da spiegare, in virtù del suo doppio carattere di
incredulità e di ignoranza”. Baudelaire sa verso cosa
porta lo slancio con il quale veniamo travolti da
Delacroix; scrisse che egli era l’unico capace di “faire de
la religion”. “Volontà, desiderio,
concentrazione, intensità
nervosa, esplosione”
C. Baudelaire
24
Finché Delacroix è in vita, Baudelaire incede dietro il
suo nome come dietro ad un vessillo sontuoso e
insanguinato, e intanto esprime la sua metafisica
dell’arte. Delacroix diventa, allora, prima ancora che un
pittore, il devoto della “regina delle facoltà”,
l’immaginazione, intesa come capacità di confrontare e
comporre, usando tutte le finezze della tecnica,
quell’infinito magazzino di immagini e simboli.
È molto diverso il modo di descrivere Delacroix nel
saggio in morte dell’artista. Qui,
all’innamorato della passione,
vengono affibbiati alcuni caratteri
appartenuti al suo presunto (già
allora) padre: Talleyrand. “Eugène
Delacroix era una curiosa
mescolanza di scetticismo,
cortesia, dandismo, volontà
ardente, astuzia, dispotismo”.
L’impronta settecentesca in lui è
netta. È possibile che Delacroix e
Baudelaire siano celatamente
legati anche per quel vago sentore
del secolo precedente che li
accomuna.
L’eredità paterna e la ostentata natura del dandy
culminano in un tratto che solo
Charles Baudelaire Baudelaire ci svela: “E’ stato, credo, una
delle grandi preoccupazioni della sua vita quella di
dissimulare le collere del suo cuore e di non sembrare un
uomo di genio”.
Delacroix è diffidente nei confronti di Baudelaire, lo
tiene a distanza, come se temesse di venire svelato. Le
sue lodi lo disturbano, hanno sempre qualcosa di
insinuante. Come quando Baudelaire celebra le donne nei
suoi quadri affermando che “quasi tutte sono malsane, e
25
risplendono di una certa bellezza interiore”. “Alla fine mi
irrita” replica Delacroix; lo irrita il fatto che nelle sue
pitture si trovi “un non so che di malsano, la mancanza di
salute, la melanconia testarda, il tono terreo della febbre,
la luminescenza anomala e bizzarra della malattia”.
Baudelaire si insinua negli angoli più proibiti di Delacroix;
ed egli, perfino nel suo diario, si difende chiamandolo
Monsieur Baudelaire.
Afferma Baudelaire: “Scettico e aristocratico,
conosceva la passione e il sovrannaturale soltanto
attraverso la sua frequentazione forzata del sogno”.
Senza volerlo sottolineare, Baudelaire ha messo a
disposizione la formula che permette di capire l’ostinata,
segreta ed esulcerata ricerca di Delacroix: una
“frequentazione forzata del sogno”, come se il sogno non
fosse qualcosa che ci coglie alla sprovvista, ma qualcosa
che cerchiamo noi stessi. Su Delacroix non è stata mai
detta una frase ugualmente precisa e con un significato
così penetrante.
La Libertà e la Zattera di Géricault a
confronto 26
Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo,
1830 L'opera più apertamente romantica di Delacroix, e
forse quella che maggiormente influì sull'arte dei decenni
successivi, è La libertà che guida il popolo (1830, Louvre),
celebrazione semiallegorica dell'idea di libertà. La tela
riprende un momento della storia recente, le Tre gloriose
giornate di Parigi (27, 28 e 29 luglio 1830), durante le
quali un'insurrezione popolare destituì il re Carlo X. In una
Parigi evocata solo attraverso pochi particolari simbolici,
la figura eroica della libertà avanza reggendo una
bandiera tra i cadaveri dei soldati e le macerie dello
scontro, seguita da una schiera scomposta di uomini di
ogni estrazione sociale confusi nella polvere. Nonostante
il tono solenne della rappresentazione, enfatizzato dalla
composizione piramidale, e la presenza di particolari
27
derivati dal repertorio accademico (la figura seminuda
dell'uomo ucciso sulla sinistra), mai prima d'ora Delacroix
aveva spinto a tanto la tendenza realistica nella sua
pittura, sortendo risultati giudicati scandalosi dalla critica
del tempo. Un abisso separa quest'opera dallo stile
neoclassico e dall'equilibrio formale del contemporaneo
Jean-Auguste-Dominique Ingres, dalla linea precisa e dai
colori calibrati, prediletti dai numerosi interpreti della
linea ancora “ufficiale” dell'arte in Francia.
Ricalcando lo schema compositivo della Zattera della
Medusa di Théodore Gericault, Delacroix lo capovolge.
Inverte la posizione dei due cadaveri in primo piano;
rovescia anche la direzione del movimento dei
personaggi, che nella Zattera si allontana, nella Libertà ,
invece, viene avanti verso lo spettatore, lo travolge e
quasi lo sfida. Nel quadro di Géricault quel muoversi dei
corpi verso l’orizzonte si rifà palesemente alla
drammaticità classica. Tutto quello che c’è di classico in
Géricault, scopare in Delacroix; un delinearsi di figure in
controluce su uno sfondo di fuoco e fumo e l’isolarsi delle
figure principali al di sopra della concitazione della
massa.
Delacroix vuole mostrare i volti della società, ragazzi,
adulti, operai e contadini, intellettuali e soldati ribelli,
uniti sotto quell’unica bandiera tricolore.
Delacroix non ricalca la traccia di Géricault per
pigrizia mentale, ma lo fa con l’intenzione di correggerlo:
sente che quel gusto classico riporta al passato, pur
essendo in sé innovativo. Conservandone la struttura, ma
capovolgendola, costringe il “vecchio” ad affrontare un
nuovo slancio, moderno ed energico.
È proprio con il romanticismo di Delacroix, infatti, che
l’arte cambia totalmente direzione, non più tradizionalista
e nostalgica, ma volta esclusivamente al proprio
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