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I SINTOMI DEL MALESSERE DEL MONDO CONTADINO: LA PELLAGRA E LA MALARIA
Che la pellagra fosse una malattia da carenza, era supposto o constatato fin dagli inizi del XIX secolo (il nome italiano sembrava provenire dal dialetto bergamasco pêl agra, pelle ruvida, aspra) in cui lo si considerava "morbo affatto endemico, ancora oscuro, che peraltro è senza dubbio più o meno dipendente dall'alimentazione dei contadini", secondo uno scritto di Jacini del 1856 che segnalava circa 20.000 casi per la Lombardia. Ma essa si era rapidamente diffusa, accompagnando il diffondersi di una alimentazione basata quasi esclusivamente sulla polenta e sul pane di granturco.
Gli Annali di Agricoltura del 1885 avevano pubblicato un'inchiesta sulla pellagra in Italia da cui risultava la presenza accertata di 104.067 pellagrosi, di cui 55.881 nel Veneto, 36.630 in Lombardia, e 7.891 in Emilia. (Altre fonti statistiche segnalarono una mortalità media annua, nel 1887, 189,
di quasi 3.500 persone.) Le province ove più diffusa appariva la malattia erano quelle di Bergamo e Brescia in Lombardia (60,5 per cento del totale); Padova e Treviso nel Veneto (48,7 per cento del totale). Nelle relazioni si leggeva per il Piemonte: "tutti gli affetti della pellagra sono contadini miserabili, etrovansi tanto al piano quanto in collina"; per la Lombardia: "si ritiene... che questo aumento sia da ascriversi... all'accresciuto numero dei proletari che, dal lavoro ritraendo mercede inadeguata al prezzo dei generi alimentari di prima necessità vanno incontro alla miseria che conduce allo sviluppo della pellagra". E, in un'altra relazione lombarda, si avvertiva che molti infermi "rifuggono dal confessarsi pellagrosi; tanto pel timore di vedersi meno apprezzati, perché meno forti, che pel timore del proprietario". La pellagra del resto era difficile da diagnosticare se non negli stati più gravi; per cuiIn Emilia erano state ridimensionate le cifre alte del 1879 – a Varzi, per esempio, da 1.500 a 144, due anni dopo - ritenendo che nel primo rilevamento si fossero considerate come pellagra «molte forme di anemia, catarri intestinali, cachessia e neurosi». Per Ferrara la relativa scarsità di pellagrosi (640) era attribuita al fatto che «quella popolazione, sebbene usi acque cattive, e viva in abitazioni malsane, pure si nutre di cibi animali, ha sale in abbondanza e consuma poco granturco». Il prefetto di Sondrio, comunicando la bassa quota di pellagrosi nella sua provincia, avvertiva di considerarla «affatto insignificante in confronto a quella dei cretini, semicretini, cretinosi e gozzuti, dei rachitici e scrofolosie degli affetti da cachessia, da malaria...». Nella sua fase più grave la pellagra era così descritta da Cesare Lombroso: «Vi sarà certo avvenuto incontrarvi in certi infelici simulacri di uomini macilenti,
dall'occhio immobile e vitreo, dalle guance gialle allibite, dalle braccia screpolate e piagate quasi da scottature o per larghe ferite... pochi giorni dopo quel doloroso incontro sentite buccinare... come quel poveretto si sia affogato in una magra pozza d'acqua... era un pellagroso». E in un «Dizionario di cognizioni utili» dei primi anni del Novecento, indicando nel pellagroso, «in proporzione più frequente che nella comune melanconia una tendenza al suicidio per annegamento” l'estensore della voce avvertiva che «scelgono per lo più questo modo di suicidio perché è alla portata di tutti e non importa spesa». 89 In quanto alle cause, dopo il 1880 era ormai riconosciuto e sperimentato che esse erano da imputarsi non già, come da principio si era detto, al granturco “guasto e ammuffito” e alla «mancanza del vino», ma all'alimentazione pressoché esclusiva di granturco
senza uso né di carne né di grassi. Milioni di contadini settentrionali vivevano con una razione alimentare come quella riportata negli atti del processo ai contadini mantovani per una famiglia di 4/5 persone: "al giorno: kg 1 di riso; kg 3 di farina di granturco; 0,35 centesimi di 'condimento'; carne, vino, tabacco, caffè, zero". Il dott. Giuseppe Farinata degli Uberti, citato da un Annuario del Ministero d'Agricoltura, parlava di "questi braccianti [della 'bassa' veronese]... male alloggiati, peggio vestiti, in clima poco sano, con poca legna per riscaldarsi nell'inverno, col chinino sempre in saccoccia per difendersi dalle febbri, soggetti a faticosi lavori di vangatura in terreni irrigati o acquitrinosi. Da anni e anni nei loro casolari è bandito il vino, la carne, e qualche volta persino il pane, rimanendo l'unico cibo la polenta di raro accompagnata da un pezzo di formaggio; e con questo, malattie frequenti.E la pellagra, triste retaggio del povero>. Lo stesso Annuario informava che a Castelfranco Veneto <atteso l'aumento della popolazione... si è avuto per conseguenza immediata l'erezione, specialmente su ritagli di strade vecchie abbandonate, di parecchi casolari, mal riparati con pareti di canne smaltate di fango, e coperti di paglia, che sono il ricovero dei più miserabili proletari, che vivono per lo più di ruberie a danno dei fondi vicini... Le condizioni igieniche degli operai agricoli e dei contadini lasciano molto a desiderare... Ne sono una prova il forte sviluppo della pellagra e conseguentemente la mania suicida». Ma anche in zone di antica mezzadria, come le Marche e la Toscana, si segnalava: dalle Marche, che «in genere pel cibo di pane di granturco, erba in gran parte, e poco e niente vino, le condizioni igieniche... sono poco felici» (a conferma, l'inchiesta sulla pellagra ne contava 1.278 casi nelle Marche ed Umbria);
dalla Toscana (Pistoia), «le condizioni igieniche dei contadini, anziché migliorare, sono piuttosto peggiorate... per la più scarsa e peggior nutrizione... È stata avvertita una recrudescenza della pellagra, da cui sono di preferenza attaccate le famiglie coloniche» (nel contado fiorentino l'inchiesta aveva accertato 474 casi di pellagra). Sempre la stessa inchiesta nel 1885 aveva escluso casi di tale morbo nel Mezzogiorno e ne attribuiva l’assenza all'essere poco diffusa l’alimentazione maidica; tuttavia nei primi anni del novecento, seppure in maniera sporadica, la pellagra che stava regredendo al Nord si insediava al Sud: lo riferiva un giornale cosentino nel 1904 dando per «accertato che il morbo pellagroso segue il progresso della estendentesi coltivazione del mais in quelle zone. Ne erano indiretta conferma i dati sulla mortalità annua per pellagra, che nelle regioni meridionali, dallo 0,32 per cento del totale nel 1887/89,passava al 2,2 per cento nel 1910/12. In quanto alla malaria essa era un male antico e fino ai primi anni ottanta a eziologia sconosciuta, pur collegandosi la sua presenza alle zone umide e palustri ("febbri palustri" e "miasmatiche" erano sovente degli attacchi malarici); zone del genere erano state calcolate nel 1864 da Cesare Correnti - su di una superficie territoriale di circa 30 milioni di ettari - in 1 milione e 200 mila ettari. Con la fiducia che contrassegnava allora i gruppi dirigenti, Correnti aveva scritto: "Nulla di insuperabile impedisce che la salubrità, la fecondità e la popolazione siano restituite alle lagune venete, alle paludi di Aquileia, alle lame intorno alle foci del Po. Gli stagni di Otranto e del golfo Ionio, e quelli anche, più estesi delle rive del Tirreno, da Pesto a Salerno, da Pozzuoli a Baia fino all'estremità del golfo di Gaeta le acque marcide che si impozzano da Terracina lungo i lidi del Lazio edell' Etruria sin presso le foci dell'Arno e che, sotto il nome di Maremme, occupano un quarto di tutto il territorio toscano, non sono più insanabili di quel che nel Medio Evo non paressero ai consoli di Milano, di Lodi e di Crema i laghi pantanosi che facevano siepe sulle foci del Lambro, dell'Adda e del Serio". E poteva anche esser vero; ma stava di fatto che nel 1882 - quando ad opera del senatore Luigi Torelli fu compilata una minuziosa carta della malaria in Italia - le zone definite "a malaria grave e gravissima" coincidono punto per punto con quelle, descritte vent'anni prima come "stagni, valli, paludi"; anzi vi si dovevano aggiungere le terre risicole lungo l'asta del Po fino a Vercelli, e l'intera Sicilia, e le coste meridionali della Sardegna. In queste vaste aree, cui si sommavano quelle delle risaie, scendevano a lavorare centinaia di migliaia di braccianti e mondariso per i lavori stagionali. Fra di essisoprattutto, dovevano annoverarsi gli oltre 200.000 malarici registrati in Italia, come media annua, fra il 1880 e il 1910 (anzi, nel 1905 vi fu una punta di 320.000 colpiti); con una mortalità che, nella media degli anni 1887/89, fu di quasi 18.000 all'anno, per decrescere un decennio più tardi a circa 4.000 (media 1910/12); il diradarsi della mortalità coincise con la diffusione del solfato di chinino che tuttavia, sestroncava le febbri, non uccideva il parassita da poco individuato. Ancora alla fine degli anni settanta, infatti, l'autore di una "Calabria illustrata", Eugenio Arnoni riferiva le febbri palustri alle cause più diverse, dalla macerazione del lino alle esalazioni "dei gas fluorico, muriatico, carbonico ed azoto", al "residuo delle messi, che dopo le piogge autunnali si compongono e si risolvono in sostanze aeriforme, le quali unite insieme pigliano il nome vero di miasma...". Una segnalazione di quelli che, insieme.Erano cause ed effetti della malaria era comunque rintracciabile nelle pagine dell'Arnoni. "È pure cattiva aria" continuava infatti "«massime nella stagione estiva... nelle vaste tenute del marchese Rivadebro, delle quali una parte è tuttavia coltivata a riso... La marina dello Jonio è altresì, per la più parte, disabitata, perché perniciosa alla salute... a cagione delle infeste esalazioni, che provengono dagli allagamenti, dai ristagni e dal marciume... È questo uno dei centri principali, nella provincia della Calabria citeriore, di palustre infezione, di gagliarde insidie e di invincibili attacchi all'umana salute."» Meno di dieci anni più tardi, a proposito della stessa zona, il cav. Michele Fera da Cosenza inviava una relazione al Ministero d'Agricoltura in cui si leggeva che "«nelle contrade di malaria grave... popolazione stabile non vi è: ivi scendono [i braccianti] dalle colline...
seminano male, raccolgono peggio, e fuggono, raccogliendo spesso insieme alle messi le febbri». Analoghe osservazioni riportava vent'anni dopo, nel 1904, una relazione stesa dall'ing. Sanjust sui provvedimenti da adottare per la Basilicata: dopo aver