Storia del diritto romano - Leggi delle XII tavole
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necessario, era anche sufficiente, non essendo rilevante ai fini della sentenza la reale volontà
delle parti.
Tipicità: le legis actiones erano modi di agire aventi ciascuno una data struttura formale,
• che corrispondeva a un dato tipo. Atti che non rientravano in alcun tipo non erano
ammissibili e non potevano avere alcuna efficacia. Ciascuna legis actio di solito serviva a
tutelare più di una situazione soggettiva.
[modifica] Il processo per legis actiones
L'iniziativa di ciascuna legis actio era assunta di regola da chi si affermava titolare della situazione
giuridica fatta valere (attore), nei confronti di chi egli affermava titolare della situazione soggettiva
contrapposta (convenuto). Entrambi dovevano essere liberi, cittadini romani e sui iuris.
Gli incapaci erano sostituiti dal loro tutor o curator. Nei processi di libertà la persona il cui status
era controverso veniva necessariamente sostituita dall'adsertor in libertatem.
[modifica] Fase in iure
Le legis actiones cominciavano con l'in ius vocatio, l'intimazione ad andare davanti al magistrato
fatta dall'attore al convenuto. Le XII tavole obbligavano il vocatus ad obbedire alla chiamata, e
consentivano all'attore l'utilizzo della forza, propriamente l'imposizione della mano (manus
iniectio), per trascinarlo dinnanzi al magistrato.
Davanti al magistrato (o al rex) si svolgeva la fase di cognizione, un dibattimento formale, seguito
poi da una seconda fase dinnanzi all'organo giudicante.
Alla fine del dibattimento in iure l'attore e il convenuto facevano la litis contestatio, cioè
chiedevano solennemente ai presenti di essere testimoni di quanto avevano visto e ascoltato.
[modifica] Fase apud iudicem
La seconda fase del processo cominciava con una intimazione (denuntiatio) di una parte all'altra
affinché comparisse di fronte all'organo giudicante.
In questa sede si faceva un'esposizione sintetica della lite (causae coniectio), dopodiché il
processo poteva continuare solo se erano presenti entrambe le parti. Se era presente una sola parte si
aspettava fino a mezzogiorno, dopodiché il giudice doveva dare ragione alla parte presente.
Se erano presenti entrambe le parti si arrivava alla peroratio, in cui esse esponevano verbalmente
le loro ragioni e nello stesso tempo presentavano le prove(causae probatio), costituite soprattutto
da testimoni.
Secondo le XII tavole il dibattimento non poteva prolungarsi oltre il tramonto del Sole.
Esso si concludeva con la pronuncia di una sentenza, che poteva portare alla manus iniectio e in
ogni caso impediva una nuova legis actio.
La locuzione latina agere per formulas indica un tipo di sistema processuale introdotto nell'antica
Roma dai pretori per dare tutela a situazioni per le quali non era possibile utilizzare gli schemi del
più antico lege agere. Tale schema non si basava come il lege agere sulla pronunciava si precise ed
immutabili parole (certa verba) bensì sulla pronuncia di verba concepta, parole concepite di volta
in volta dal pretore giusdicente e modellate sulla controversia concreta, grazie alle quali si
perveniva ad affidare il giudizio ad un giudice o collegio di giudici. Tali verba concepta, ben presto
redatte per iscritto, venivano denominate formulae, donde il nome di processo per formulas (o
processo formulare).
[modifica] Cenni storici
Secondo quanto riferisce il giurista Gaio nelle sue Istituzioni, il processo formulare si sarebbe
affermato per i vantaggi che presentava rispetto alle legis actiones, fruibili soltanto dai cittadini
romani (cives) e, per di più, eccessivamente caratterizzate da un rigoroso formalismo. Nelle legis
actiones, infatti, ogni errore, anche minimo, nella pronuncia dei certa verba o nel compimento dei
gesti previsti dal rituale avrebbe comportato la perdita della lite. Lo stesso Gaio riporta l'esempio di
un tale che aveva perso la lite relativa ad alcune viti tagliate (de vitibus succisis) perché aveva
menzionato nel formulario le viti anziché gli alberi di cui si parlava nella legge delle Dodici Tavole
(Gai. 4.11). Per questa loro eccessiva sottogliezza tutte le legis actiones furono odiate sempre di più
(paulatim in odium venerunt) si litigò per concepta verba, id est per formulas (Gai 4.30).
Essendo stato introdotto dai pretori in virtù del loro imperium e della loro iurisdictio, il processo per
formulas apparteneva in origine al ius honorarium, e non poteva dunque essere utilizzato per le
controversie basate sul ius civile. Solo nel secondo secolo a.C., in concomitanza con una grande
diffusione del processo per formulas venne emanata la Lex Aebutia con la quale divenne legittimo
l'utilizzo del processo per formulas anche per valere diritti fondati sul ius civile. Al tempo della
riforma giudiziaria operata da Augusto con la Lex Iulia iudiciorum privatorum (17 a.C.) l' agere per
formulas soppiantò del tutto le legis actiones e divenne l'unica procedura vigente, tranne in due casi
(Gai. 4.30-31). Diffuso ancora al tempo di Diocleziano, tale forma di processo andò
progressivamente decadendo, fino a essere formalmente abolito nel 342 con una costituzione
imperiale di Costanzo e Costante, figli dell'imperatore Costantino.
[modifica] Caratteri del processo formulare
Mentre le legis actiones erano cinque diversi moduli processuali, il processo formulare aveva
carattere unitario in relazione al procedimento. Tale procedimento era bifasico, e si articolava in una
prima fase innanzi al magistrato giusdicente (fase in iure), e una seconda fase innanzi a un giudice
privato (fase apud iudicem o in iudicio).
Nella prima fase (in iure) era richiesta la presenza di entrambe le parti in causa, non essendo
consentito un processo contumaciale. Per questo scopo la parte che prendeva l'iniziativa processuale
(attore) avrebbe dovuto chiamare in giudizio l'altra parte (convenuto) con un atto detto in ius
vocatio (chiamata in giudizio). Contro il convenuto chiamato in giudizio che non avesse seguito
l'attore in iure si davano gravi sanzioni.
Provocata così la presenza in giudizio del convenuto, le parti illustravano informalmente le proprie
ragioni al magistrato giusdicente, e sotto la sua direzione trasfondevano i termini della controversia
nella formula, in base alla quale poi il giudice privato (unico o collegiale) avrebbe dovuto giudicare
nella seconda fase del processo. Raggiunto l'accordo sulla redazione della formula, si aveva la litis
contestatio, con cui si chiudeva la fase in iure, e si poteva passare alla fase apud iudicem. Il
compimento della litis contestatio aveva non solo effetti istitutivi del giudizio, ma anche effetti
cosiddetti consuntivi, perché una volta compiuta impediva che la stessa controversia potesse
riproporsi sullo stesso oggetto fra le medesime parti (anche a ruoli processuali invertiti).
Come si accennava, questa seconda fase si svolgeva innanzi a un giudice privato, che era scelto di
comune accordo dalle parti da alcune liste periodicamente aggiornate. Il giudice poteva essere unico
(iudex unus) o collegiale. Giudici collegiali erano i recuperatores, che solitamente in numero di tre
giudicavano in talune controversia come le liti di libertà o i processi per iniuria o rapina. Il giudice
scelto dalle parti e nominato dal giudice veniva indicato all'inizio della formula (Titius iudex esto;
oppure Lucius, Aquilius et Aemilius recuperatores sunto), e investito dal magistrato giusdicente del
potere, ma anche del dovere di giudicare con il iussus iudicandi, sicché non avrebbe potuto non
emettere la sentenza.
Va ricordato che a fronte dell'oralità delle legis actiones il processo formulare si caratterizzava per
l'uso della scrittura, perché si fondava appunto su un programma di giudizio scritto, la formula.
La sentenza di condanna era sempre espressa in una somma di denaro, e contro di essa non era
ammessa la possibilità di proporre appello. Ciò si spiega con il fatto che la sentenza era emanata da
un giudice privato, che non aveva superiori gerarchici innanzi ai quali poter chiedere il riesame del
giudizio.
[modifica] Parti e struttura della formula
Il processo per formulas prende il nome da un documento scritto, detto appunto formula (o
iudicium), concordato dalle parti (attore e convenuto) innanzi al magistrato giusdicente, e
indirizzato a un giudice privato, unico o collegiale, che avrebbe dovuto emettere la sentenza. Il
giudice, infatti, avrebbe dovuto condannare o assolvere il convenuto basandosi sui termini della
controversia trasfusi nella formula così come essa veniva concessa dal magistrato giusdicente alla
fine della prima fase del processo (fase in iure). La formula, quindi, era il programma di giudizio,
rivolto al giudice, sul quale si fondava il processo; e anzi il processo si considerava istituito soltanto
quando, con la litis contestatio, il magistrato munito di iurisdictio concedeva la formula (iudicium
dabat) così come essa risultava concepita per accordo delle parti in causa, le quali, a loro volta,
avrebbero partecipato alla litis contestatio: l'attore infatti iudicium dictabat (recitava la formula) e il
convenuto iudicium accipiebat (accettava la formula). Va precisato che nel processo formulare la
condanna, come ricorda Gaio nel quarto commentario delle sue Istituzioni, era sempre pecuniaria, e
doveva dunque essere espressa in una somma di denaro, non essendo prevista la possibilità di una
condanna in ipsam rem, ossia in forma specifica (Gai. 4.48: Omnium autem formularum, quae
condemnationem habent, ad pecuniariam aestimationem condemnatio concepta est. Itaque et si
corpus aliquod petamus, ueluti fundum hominem uestem aurum argentum, iudex non ipsam rem
condemnat eum cum quo actum est, sicut olim fieri solebat, sed aestimata re pecuniam eum
condemnat).
Le formule sono dunque programmi di giudizio, rivolti al giudice privato che dovrà emettere la
sentenza, fondamentalmente strutturate come un discorso ipotetico e alternativo; vi erano, però,
anche schemi verbali strutturati diversamente, come per esempio i praeiudicia, in cui al giudice si
imponeva semplicemente di accertare una determinata circostanza, di fatto o di diritto, senza
procedere ad alcuna condanna (Gai. 4.44).
I modelli delle formule erano previsti negli editti dei magistrati muniti di iurisdictio:
fondamentalmente, in quelli dei due pretori (urbano e peregrino), ma anche degli edili curuli. Oltre
a queste formulae, il magistrato giusdicente avrebbe potuto accordare, di volta in volta, anche altri
programmi di giudizio concepiti in funzione del caso concreto prospettatogli dalle parti, e in tali
ipotesi gli schemi formulari si dicevano actiones in factum. Quando lo avesse ritenuto opportuno,
inoltre, il magistrato avrebbe potuto anche modificare gli schemi formulari delle azioni previste
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