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APITOLO R I
NEL MONDO DELLE CITTÀ COMUNALI DEL EGNUM TALIAE
1. L’età pre-comunale
La Lombardia e l’Italia settentrionale erano territori di profonda urbanizzazione.
Nell’alto medioevo si erano mantenute le grandi città di fondazione romana ed al
loro interno si era instaurate pratiche di collaborazione tra i cives ed il loro vescovo,
che formalmente era il signore della città. Altrove in Europa, la città può trovarsi
invece sotto signori diversi oppure sotto il controllo di un sovrano.
In campagna vivevano signori e rustici, tra i quali si instaurava il rapporto di
subordinazione tipico delle signorie fondiarie e delle signorie territoriali o rurali: i
rustici erano sottoposti alla giustizia signorile, dovevano prestare servizio di guardia
al castello, mantenere le opere pubbliche, versare il fodro signorile (una prestazione
in natura o in denaro), eseguire servizi domestici vari, numerose prestazioni agrarie.
I cives, rispetto agli abitanti della campagna, erano in una condizione privilegiata.
Erano liberi ed il vescovo, nei loro confronti, era più un coordinatore che un
signore.
In particolare, i vescovi si circondavano di clientele di milites (capitanei), uniti a
loro da vincoli vassallatico-beneficiari, da utilizzare nelle lotte intercittadine e interne
alle città. A questi si univano giudici, notai e grandi mercanti: la componente non
feudale della cittadinanza, il populus.
Il declino del potere vescovile è legato da una parte alla lotta delle investiture,
dall’altra allo sviluppo dei traffici padani, che creò l’esigenza di un governo più
stabile ed efficiente.
2. Coniuratio
In molte città, l’autogoverno dei cittadini (non usiamo ancora la parola comune
che, nel significato di ordinamento comunale, compare più tardi nel vocabolario
giuridico-politico) prende avvio da un’associazione giurata tra cittadini,
appartenenti a determinati ceti sociali.
Così è in molte città dell’Europa (Francia, Fiandre, Germania). Per l’Italia, le
notizie sono più rare: famoso è il caso della Compagna di Genova. Non è quindi
possibile, data la scarsità di informazioni, stabilire un unico iter per tutti i centri.
Queste associazioni sanciscono comunque tutte un impegno di pace tra gli
aderenti e sviluppano quindi la distribuzione di una serie di poteri pubblici.
All’inizio, questi giuramenti vengono ripetuti e fatti prestare anche tra popolo e
consoli, e in seguito tra popolo e podestà. Almeno in Italia, all’origine dei poteri
esercitati dai consoli, che rappresentano ovunque il vertice della nuova forma di
governo, non vi sono privilegi signorili o di un re: altrove, in Europa, la situazione è
differente.
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Non c’è da stupirsi per questo impiego del sacramentum. Il giuramento nel
medioevo conosceva una larga applicazione nei rapporti politici. Serviva per
stringere legami di fedeltà e di alleanza. Legami bilaterali o plurilaterali, a seconda
che fossero giuramenti individuali o collettivi, di cui abbiamo molteplici
manifestazioni. Re e imperatori ricorrono spesso al giuramento di fedeltà. Il
giuramento interviene anche nella costituzione di un rapporto di vassallaggio, tra
signore e vassallo.
Ecco perché ne facevano uso anche i consoli o il podestà per assicurarsi la fedeltà
del popolo da governare. Era un giuramento collettivo, che creava obblighi e
conferiva poteri in rapporto di bilateralità: giurisdizionali, esecutivi e militari. La
popolazione offriva fedeltà e obbedienza. Era una forma di sottomissione. Ma non
era la subordinazione feudale. Qui c’è una nuova organizzazione. Anche se ha preso
a modello proprio il giuramento di fedeltà feudale, come si nota esaminando alcune
clausole (difesa dell’incolumità personale e dell’onore del signore, fedeltà in senso
lato, divieto di divulgare notizie). Il podestà si obbligherà a sua volta a svolgere un
servizio, con un ulteriore giuramento. È un impegno bilaterale, una sorta di contratto
sociale. C’è anche l’impegno a mantenere la pace. Giuramento quindi anche di pace.
Il comune era un’associazione di pace. Il podestà s’impegnava a mantenere la pace e
a vendicare le offese.
3. I consoli
Il modello consolare è tipico delle città italiane. Il superamento della gestione
mista con il vescovo è graduale.
La composizione sociale dei ceti dirigenti è varia. In una famosa pagina, Ottone
di Frisinga narra che i consoli a Milano erano tratti da tre gruppi: capitanei,
valvassori e populus (cioè esponenti della cittadinanza: mercanti, artigiani, notai),
per contenere l’ambizione di ciascuna categoria. A Milano, di conseguenza, si
attribuisce un grande rilievo alla componente feudale dei grandi possessori fondiari e
signori del contado. Ma non ovunque è così: in città come Genova e Pisa i gruppi al
potere sono più variegati, nel senso di essere più connotati in senso mercantile che
signorile, indipendentemente dalla provenienza sociale. I consoli e l’assemblea si
considerano comunque rappresentanti dell’intero popolo cittadino (consules populi,
pro totius populi).
Il numero dei consoli non era fisso, neanche all’interno di una stessa città: la
sperimentazione politica, del resto, è e resterà sempre un dato connaturale alle
istituzioni comunali. sempre a Milano, nel XII secolo si oscilla tra 10 e 24. La durata
del mandato era per lo più annuale.
I consoli concentravano nelle loro mani una serie di attribuzioni. Tra gli altri
poteri, spicca quello di amministrare la giustizia, trattando sia le cause civili che
quelle penali.
L’accesso al consolato restava comunque un privilegio di pochi. Benché le
notizie sui modi di elezione siano rare, una cosa è certa: i consoli non erano eletti da
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tutta la popolazione riunita nell’arengo. Non si può parlare neanche di un mandato
dell’assemblea, e quindi del popolo, ai consoli, poiché questi venivano eletti in
genere fuori di essa, con un sistema a più gradi: i consoli, cioè, non erano scelti in
un’unica fase. Si procedeva dapprima a nominare degli elettori, ai quali sarebbe
spettata la scelta dei consoli oppure, in certi luoghi, di ulteriori elettori, sicché i gradi
potevano essere anche più di due. In alcune città erano i consoli in carica a designare
i primi elettori; in altre era l’arengo. È questa una caratteristica da tenere presente
quando si voglia valutare il grado di rappresentatività delle prime istituzioni
comunali: in realtà le famiglie dell’aristocrazia consolare riuscivano, grazie al
meccanismo elettorale, a conservare il potere.
Nel comune consolare operava un’assemblea (concio, arengo), sulla cui
composizione siamo poco o nulla informati. Anche i poteri precisi dell’assemblea
sfuggono. Essa fa tuttavia capolino nei documenti, che riportano spesso le
caratteristiche acclamazioni a voce con le quali il popolo intervenuto prendeva le
delibere (fiat, fiat).
La presenza dell’assemblea dirada nella seconda metà del XII secolo, quando
incominciano ad operare, accanto ai consoli, uno o due consigli: uno più largo, detto
consiglio generale, che contava centinaia di persone, ed uno più ristretto, o minore,
detto talvolta di credenza o della campana. A Milano, ad esempio, nel Duecento, il
consiglio generale del comune è formato da 800 persone.
I consigli hanno molte funzioni: deliberano guerre ed alleanze, nominano gli
ufficiali comunali (le cariche sono brevi e a rotazione), fanno leggi: era nei consigli
infatti che si proponevano e si votavano le norme che il comune riteneva conveniente
emanare per regolare non solo il proprio apparato costituzionale, sempre più
complesso, ma anche per intervenire in svariati altri campi, dal diritto penale a quello
processuale, dal privato a quello costituzionale, integrando o derogando al diritto
romano, che ormai era riconosciuto ovunque come normativa generale. Nel
Duecento le deliberazioni normative accumulate nel tempo e trascritte, gli statuti,
vengono ordinate in un nuovo libro, sistematicamente concepito e periodicamente
aggiornato.
Una delle massime prerogative del popolo, la potestà normativa sarà enfatizzata
dalla dottrina come perfetta espressione di autonomia (libertas). Nessuna
autorizzazione preventiva di re o signori, nessuna conferma o ratifica era infatti
richiesta, affinché gli statuti potessero operare.
Nel corso del Duecento, i consigli diventeranno il luogo deputato alle grandi
decisioni politiche. Giuridicamente, la volontà del consiglio era la volontà del
popolo. Si può aggiungere: non solo giuridicamente, ma anche nel comune sentire
prevaleva una visione corporativa, comunitaria, collettiva, benché il governo fosse
in mano a poche élites. In realtà, non tutti i cittadini avevano il diritto di sedere in
consiglio ed il meccanismo elettorale era ben lontano dall’assicurare a tutti i cittadini
il diritto di voto: i consiglieri venivano infatti eletti, in genere e salvo varianti più
complicate, con una procedura di doppio grado, che prevedeva dapprima la scelta (ad
opera della sorte o del podestà, con i consiglieri uscenti), a livello di quartiere, di un
certo numero di persone, che poi avrebbero dovuto eleggere a loro volta i consiglieri.
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Altra fondamentale competenza del consiglio generale del comune sarà quella
dell’elezione del podestà, di cui parleremo tra breve.
4. Il contado
Il comune medievale, in Italia, ha una caratteristica peculiare: non domina solo
sugli abitanti della città, ma tende ad ingrandirsi ed a controllare dapprima il
suburbio, fuori dalle mura, e quindi il contado, estendendosi oltre i confini
dell’antico comitato o della diocesi, formando una nuova fascia territoriale (il
distretto), soggetta a continue mutazioni. Ciò nonostante, nel linguaggio giuridico, i
termini civitas e urbs continueranno ad identificare propriamente solo il territorio
dentro alle mura: civitas muris finitur. Oltre ci sono insediamenti non fortificati, i
borghi (insieme di edifici contigui) ed i villaggi (insediamenti anche a maglie
larghe), e i castelli. Nell’ordinamento medievale, queste comunità sono soggette
giuridicamente alla città. Il che significa che il diritto cittadino si applicava anche in
esse e