Storia del diritto italiano - lezioni
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motivi di recepimento della cultura giuridica, ma per fatti di equilibrio politico. Ecco perché il Corpus Iuris
rimane chiuso nelle cancellerie pontificie e non entra subito in circolo. E poi va detto che il corpo normativo di
Giustiniano modificava profondamente il contenuto del diritto romano volgare allora vigente(Ricordare la
volgarizzazione del diritto).
Le fonti del diritto volgare erano basate sui Rescripta provenienti dai codici Gregoriano, Ermogeniano e
Teodosiano, sulle Pauli Sententiae…insomma, di quelle specie di Iura tenuti in vita dalla consuetudine che
circolavano in quanto rispondevano alle esigenze di due popolazioni che dovevano convivere(romani e
barbari).
Le leggi che attecchiscono di più sono sempre quelle provenienti dal basso. Quelle imposte dall’alto
rimangono chiuse nelle cancellerie.
Il papa però aveva capito l’andazzo: i Goti erano in declino, e i Bizantini erano in ascesa.
Tornando alla nostra storiografia, alla luce di quanto osservato possiamo capire in che senso non si può
vedere l’Italia come “Terra di diritto giustinianeo”.
I legami con la corte imperiale allacciati da Vigilio a Costantinopoli sono al centro dell’analisi dei suoi
contemporanei, che lo accusarono di connivenza con Teodora nella subdola lotta contro Calcedonia. In che
senso? In quel tempo era divampato il c.d. “Scisma dei tre capitoli”, che vedeva contrapporsi due movimenti
eretici: Monofisiti e Nestoriani. Questi ultimi ammettevano contemporaneamente non solo due nature divina
e umana, ma anche due Persone. Questa eresia preoccupava moltissimo non solo i cristiani, ma anche i
Monofisiti, anche perché a quest’eresìa si affiancavano i Persiani, che erano l’altro grande pericolo per
l’Oriente oltre all’Occidente.
L’eresìa di Nestorio era stata condannata nel Concilio di Calcedonia, e i tre vescovi(ecco perché “tre
Capitoli”) filonestoriani si erano rimessi alle disposizioni conciliari, ritornando all’ortodossìa. Giustiniano,
spinto dai Monofisiti, ritenne che nel concilio di Calcedonia i Nestoriani non fossero stati condannati con
sufficiente vigore, e intervenne lui a farlo. Fece leggi, mise in atto tutto il suo potere cesaropapista, e questo
provocò il putiferio all’interno della Chiesa. Vigilio fu accusato di essere molto debole di fronte all’imperatore,
ma egli teneva una politica ambigua: infatti doveva la sua carriera a Giustiniano, e non aveva in quel
momento la forza di opporsi al potere che Giustiniano stava esercitando sulle questioni della Chiesa. Lo
scisma dunque avvenne tra coloro che decisero di rimanere con Vigilio e quelli che gli si contrapposero.
Tutta la questione della Pragmatica Sanctio deve essere dunque letta alla luce di questa situazione. Non far
circolare il corpus giustinianeo era l’unica cosa che Vigilio poteva fare per limitare l’influenza imperiale.
Ad ogni modo sarebbe anche inesatto dire che il corpo normativo giustinianeo sia stato sepolto
ermeticamente: infatti è stato spostato da Roma a Ravenna a causa di alcune guerre scoppiate nelle
Marche, ed ha così potuto essere studiato dai monaci in versione di epitome.
Il Digesto verrà riscoperto solo dopo l’anno 1000, con la riforma gregoriana.
Domanda: abbiamo visto che la religione funge da fattore di coesione sociale. Come mai proprio la religione
(e non altri fattori) ha svolto questo ruolo?
Risposta: anche il potere politico potrebbe essere un potente elemento di connessione, ma abbiamo visto
come i cristiani andassero a infrangere l’ordine pubblico romano, tanto che l’editto di Costantino riconosce la
Chiesa come collegium licitum. Prima di questo atto, si trattava di un gruppo sociale illecito, che sovvertiva
l’ordine dell’Impero. La norma religiosa impone un comportamento anche nella vita di tutti i giorni, ordinando
quindi anche la società. “Non uccidere” è norma morale, ma è idonea nel contempo a regolare l’ordinamento
giuridico, perché regola il comportamento degli uomini. Il peso che veniva dato alla religione si rileva
pensando sia agli sforzi della Chiesa per convertire i barbari, sia a quelli fatti dai re barbari per lasciare alle
popolazioni romane la loro religione e la loro legge, perché sono entrambi elementi di coesione della società.
Anche se la Chiesa, nell’opera di conversione, muoveva da intenti di ordine etico-religioso, è evidente che il
risultato fu una forma di forte coesione sociale tra i popoli.
Domanda: abbiamo visto come per i romani fosse vigente la lex romana wisigothorum, mentre per i visigoti
la lex wisigothorum. In caso di rapporti tra soggetti appartenenti ai due popoli, quale legge veniva applicata?
Risposta: sarà l’argomento della lezione di oggi (principio della personalità del diritto).
LA LEX ROMANA WISIGOTHORUM (continua dalla lezione precedente)
E’ una legge emanata dal re dei Visigoti Alarico II (506 dC, data controversa). Abbiamo già accennato alle
ragioni di questa legge. Clodoveo si era convertito e tale fatto sicuramente dovette influire anche sulla
decisione di Alarico di dare questa legge al suo popolo. Egli sentiva il pericolo incombente dei Franchi e
attraverso questa legge tentava quindi di ingraziarsi la parte romana del suo regno. La legge rimase in vigore
per secoli, non solo nella Gallia meridionale, ma anche in Spagna, dove si erano spostati i Visigoti a seguito
della sconfitta subita dai Franchi. Essa circolerà anche in Italia e costituirà addirittura fonte del Decreto di
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Graziano, perché fino all’età della rinascita degli studi giuridici (università, scuola irneriana, etc - XI secolo), il
diritto romano conosciuto era quello che circolava nelle fonti giuridiche altomedievali (Lex Romana
Wisigothorum e di conseguenza di matrice teodosiana). Non circolava quindi il diritto giustinianeo che, pur
essendo stato inviato in Italia con la pragmatica sanctio del 554, in realtà era rimasto nell’oblio: esso
conteneva infatti i principi del diritto, ma in quella stagione giuridica fatta di regni barbarici non servivano
tanto i principi, quanto piuttosto la possibilità di risolvere concretamente i problemi che la vita quotidiana
proponeva.
Se esaminiamo la L.R.W. ne possiamo osservare i seguenti elementi costitutivi:
- nella prima parte, confluisce parte del codice teodosiano (composto da 16 libri). Rispetto al codice
vengono fatte delle scelte precise. Non confluiscono ad esempio le norme sulla episcopalis audientia, per
la quale Costantino aveva emanato due costituzioni che disciplinavano il giudizio episcopale sia nei
confronti dei chierici che dei laici. Mentre la L.R.W. recepisce le norme riguardanti il privilegium fori
accordato ai chierici (= diritto/obbligo dei chierici di essere giudicati da un tribunale ecclesiastico), non
passano invece le norme che regolano la giurisdizione dei vescovi sui laici.
- il libro primo riguarda l’Officium, ossia i compiti del rector provinciae, dei giudici civili, degli
assessori, dei defensores civitatum, insomma degli organi che gestiscono l’amministrazione del
regno. Esso riguarda inoltre gli editti e le costituzioni dei Principi, i responsa prudentium, etc. Il primo
libro introduce quindi delle norme che regolano l’assetto istituzionale del regno e i doveri connessi
alle cariche pubbliche.
- il secondo libro contiene le norme processuali, in particolare sulla individuazione del foro competente
a giudicare i vari casi (individuazione del iudex suus, ogni soggetto ha un suo giudice naturale). Per i
chierici il giudice naturale era il Vescovo, ma anche altri gruppi godono di privilegi di ordine
processuale. Il secondo libro stabilisce inoltre il principio che nessuno deve essere giudice nella
propria causa. Tratta anche dei vari modi di esperire le azioni e dei soggetti ai quali ciascuna azione
può essere negata.
- il terzo libro riguarda il matrimonio
- il quarto libro i beni
- il quinto libro i coloni, i prigionieri, etc…
- e così avanti…
La prima parte della LRW contiene quindi quasi completamente i 16 libri del codice teodosiano, con
riferimento soprattutto alle norme utili per la pratica quotidiana del diritto.
- nella seconda parte, troviamo le Novelle di Teodosio emanate dopo la promulgazione del codice
teodosiano.
- seguono le Novellae constitutiones post-teodosiane, emanate da imperatori successivi a Teodosio, che
tornano su argomenti comunque già trattati all’interno dello stesso codice.
- entrano inoltre le Istituzioni di Gaio (Liber Gai)
- le sentenze di Paolo, importanti perché davano i principi, che poi venivano specificati dalle costituzioni
imperiali (servitù, divisioni, mandato, principi del processo, usura, dote, etc). Si trattava comunque sempre
di norme giuridiche che erano adatte a risolvere i casi quotidiani di diritto privato.
- alcuni excerta (estratti) dei codici gregoriano ed ermogeniano, e in particolare alcuni rescripta, a
dimostrazione che anche qui si presta maggiore attenzione alla materia privatistico (i rescripta sono infatti
leggi imperiali rivolte alla soluzione di questioni di diritto privato, contrariamente agli edicta che trattano
questioni di diritto pubblico): transazioni, divisioni, processo, patria potestà, etc…
- i responsa di Papiniano.
Le opere di diritto romano volgare sono conosciute a noi solo grazie al fatto di essere state raccolte
dalla LWR, ma esse erano state in circolazione già durante il regno dei Goti in Italia. Il fatto che la LRW
raccogliesse fonti che erano già circolanti, permise ad essa di poter circolare anche al di fuori del regno per
cui era stata creata, proprio in quanto considerata una utile raccolta.
In relazione alla LRW rileva la distinzione tra leges e iura, già osservata da Savigny. Tra le leges
venivano accolte in questa legge il codice teodoriano, le novelle teodosiane, le novelle post-teodosiane. Tra
gli iura confluiscono gli estratti dei codici gregoriano ed ermogeniano, il Liber Gai, le sentenze di Paolo e i
responsa di Papiniano. I codici gregoriano ed ermogeniano, raccogliendo le costituzioni imperiali, avrebbero
dovuto essere considerate leges, non iura. La motivazione data in merito dal Savigny (fine ‘800) fu che i due
codici erano stati compilati da privati e non promulgati dall’imperatore e venivano quindi considerati dal
legislatore della LRW come iura. Oggi invece la storiografia tende a sottolineare il fatto che nel VI secolo la
distinzione tra leges e iura non era chiara come lo era stata nel periodo classico del diritto romano. Abbiamo
visto come già la parola lex subisca delle modificazioni nel significato, e gli iura andassero involvendosi,
essendo la giurisprudenza vista di malocchio (nei processi era possibile allegare i responsa prudentium solo
se se ne possedevano gli originali). 35
Chi fu a raccogliere materialmente queste fonti per la compilazione della LRW? Di certo non fu
personalmente Alarico ad occuparsi di ciò. Questa legge nacque per mettere per iscritto la legge dei romani
per risolvere l’incertezza del diritto che vi era stata fino a quel momento, e si chiede a questo scopo
l’approvazione degli ecclesiastici. Questo fatto ha ispirato molta storiografia a pensare che in realtà alla
raccolta e consolidazione delle norme (non codificazione, in quanto le norme erano già scritte, bastava
raccoglierle), abbiano provveduto proprio gli ecclesiastici, perché il loro ruolo nella società del tempo era di
altissimo rilievo: sono loro infatti ad avere in mano le sorti delle popolazioni latine dei regni barbarici del
tempo. Interessante è la questione della c.d. interpretatio wisigothica, che circola unitamente a questa
legge. Nell’edizione critica della LRW, in fondo ad ogni frammento di legge, si trova la interpretatio, una
spiegazione del frammento, una specie di scioglimento del testo. Ciò è sempre stato oggetto di studio:
perché questa legge circola con questa interpretatio e chi la redasse? La storiografia romanistica si divide in
due grandi schiere: da un lato si pensa che essa sia stata scritta dagli stessi ecclesiastici che probabilmente
furono i compilatori della lex, contemporaneamente alla compilazione, e che essa servisse a facilitare
l’interpretazione della legge. Altri invece ritengono che la interpretatio sia stata confezionata prima della lex e
poi riportata e suddivisa nei vari libri e titoli in cui è suddivisa la legge. In ogni caso, il dato certo è che la
LRW non smise mai di circolare con quella precisa interpretatio, e che quest’ultima ebbe lo stesso valore
della legge, se non addirittura maggiore. La LRW era destinata infatti ad essere applicata nei tribunali e qui
si teneva particolarmente in considerazione l’interpretazione dei vari frammenti di cui si componeva la legge,
che andavano a dissipare le oscurità che presentavano i frammenti medesimi. Ciò è molto rilevante se
teniamo conto che a volte l’interpretatio si discostava dal dettato normativo originario in esame (creando
notevoli problemi alla moderna storiografia per la ricostruzione dei testi). Il fatto che la concreta applicazione
della legge si basasse su una interpretazione non conforme alla norma originaria costituisce un fenomeno di
esasperazione della volgarizzazione del diritto ed è una risposta alla necessità di adattare ai tempi il rigore
del testo del codice teodosiano, che pure era affluito alla lettera nella legge.
La interpretatio non accompagna tutti i frammenti di cui si compone la LRW, ma in alcuni casi è detto
espressamente che essa non è necessaria. Si ritiene insomma che in quel punto il testo di legge sia già
sufficientemente chiaro. Soprattutto nella parte finale (pauli sententiae), non c’è interpretatio, dato che in
quella sede si dettava il principio. Non era presente nemmeno nel Liber Gai, dato che le Istituzioni erano
destinate alla didattica e quindi facilmente comprensibili. Nei frammenti più complessi (es. le costituzioni
imperiali), l’interpretazione era invece necessaria per calarli nella realtà. L’esame dell’interpretatio è
fondamentale per comprendere come la legge sia stata effettivamente applicata, dato che ad essa si diede
maggiore valore rispetto allo stesso frammento normativo.
IL PRINCIPIO DELLA PERSONALITÀ DEL DIRITTO.
Esso è stato a lungo considerato dalla storiografia tipico delle popolazioni germaniche, anche se oggi
nessuno crede più che esso sia stato proprio solo di tali popolazioni e che esse lo abbiano seguito in modo
rigido.
Questo principio implica che l’individuazione del diritto da applicare si attui in base alla natio del soggetto e
non in base al territorio. Intendiamo con natio la nascita, l’appartenenza alla famiglia: tale ultimo elemento ci
fa dire che il principio fosse applicato tipicamente dalle popolazioni germaniche, che avevano appunto come
punto di riferimento la famiglia, il gruppo. Secondo il principio della personalità del diritto si guarda quindi alla
natio: se nasco romano mi si applicherà la LRW, se nasco visigoto mi si applicherà la lex wisigothorum.
Tuttavia, è sempre apparso alquanto dubbio che nei fatti si potesse applicare una separazione simile. Si
hanno delle testimonianze tangibili della sua applicazione per l’età di Carlomagno, dove la convivenza di due
leggi era regolata dalle professiones iurs (il soggetto dichiarava a quale diritto egli si voleva appoggiare per
tutta la vita, potendo anche abbandonare il diritto che gli spettava per nascita), le quali sono un segno
tangibile del principio della personalità del diritto. Per tutta l’età precedente, invece, non è rilevabile un
istituto simile a quello delle professiones iuris carolingie e resta quindi dubbio come fosse regolata la
convivenza di due leggi. La questione si complica se si considera che la LRW non fa alcun accenno al fatto
di essere destinata alla sola popolazione di origine romana. La lex wisigothorum invece dice espressamente
di essere destinata sia ai romani che ai visigoti. Qualcuno in storiografia crede ancora al principio della
personalità del diritto (LRW ai romani, lex wisigothorum ai visigoti).
La storiografia più recente (es. Ennio Cortese), non da tutti condivisa, pensa invece che le due
leggi fossero applicate entrambe alle due parti della popolazione, e in particolare, che la lex wisigothorum
fosse applicata ai visigoti e solo di riflesso ai romani, mentre la LRW fosse applicata ai romani e solo di
riflesso ai visigoti. Per comprendere questo meccanismo dobbiamo liberarci dalla concezione territoriale
della legge. Se la soluzione del caso concreto si trovava subito nella LRW si applicava senz’altro quella,
altrimenti si andava a ricercare la soluzione nella lex wisigothorum. E’ possibile che la LRW fosse vista come
una sorta di “legge generale”, avente valore superiore, perché più raffinata, precisa, e portatrice dei principi
del diritto romano. Cortese afferma: “Si anticipa in qualche misura quel doppio strato normativo che sarà
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tipico dell’età basso-medievale”, cioè il rapporto ius commune/ius proprium, tra diritto giustinianeo e diritto
statutario: prima si applicava lo statuto e poi, in ultima istanza, quale deposito sapienziale, si attingeva al
diritto giustinianeo. Già nell’epoca dei regni barbarici si iniziava quindi a coltivare l’idea della legge romana
come lex mundialis, legge per tutti, avente valore superiore, l’idea in fondo di ius commune che diverrà
un’idea tipica del basso medioevo. Per comprendere le ragioni di ciò dobbiamo fare un passo indietro e
tornare alla mentalità con cui questi invasori barbarici entrano nell’Occidente romano. Goti, visigoti e
burgundi non spezzarono mai il legame con l’impero romano d’Oriente, ultimo baluardo della romanità.
Odoacre, Teodorico, Clodoveo, etc, si facevano dare il titolo di patricius romanorum, rimettevano le insegne
imperiali nelle mani dell’imperatore d’Oriente, stavano quindi nell’Occidente come eredi della tradizione e
della cultura giuridica occidentale. Essi non avevano neppure cercato il titolo imperiale, perché questo
avrebbe creato una rottura irreparabile con l’Oriente, il quale non avrebbe mai accettato un barbaro nel
seggio imperiale occidentale. Accettava piuttosto il Papa, ma non un imperatore barbaro. I re barbari furono
quindi astuti: si comportarono di fatto da imperatori, senza mai chiederne il titolo e senza mai spezzare il
legame con l’impero d’Oriente. Si mostrarono sempre come imitatori della romanità. E’ quindi possibile che vi
fosse una contemporanea applicazione di leggi diverse e ciò sarebbe avvalorato dal fatto che le motivazioni
per cui venne data la LRW erano proprio nel tentativo di andare incontro alla popolazione romana, di cercare
una coesione. Quindi l’esigenza era di dare alla popolazione vinta il proprio diritto e, ove fosse necessario,
anche di servirsi del diritto stesso. Del resto la lex wisigothorum non è fatta solo di leggi barbariche, ma
anche di diritto romano teodosiano, anche se in forma più rozza che nella LRW.
Tuttavia questa è una tesi che non è stata da tutti condivisa. Il modo tradizionale di impostare il
problema è espresso da Calasso: “la LRW è quella legislazione che i re barbari diedero ai sudditi romani dei
territori occidentali di cui si appropriarono nel corso del V secolo. Non fu intenzione degli occupanti
espropriare le popolazioni occupate delle loro leggi. Questo avrebbe contrastato con il principio della
personalità del diritto che era tipico della loro civiltà: le popolazioni romane avrebbero continuato a vivere
con la legge romana, gli occupanti con il diritto germanico. Costoro anzi fecero qualcosa di più: preoccupati
di mantenere una pacifica convivenza tra i due popoli, non solo permisero alla popolazione romana, alla
quale era evidente che le consuetudini germaniche non avrebbero potuto adattarsi, di vivere secondo le
leggi romane, ma vollero essi stessi farne delle raccolte, per venire incontro alle esigenze della pratica”.
Questo è il vecchio modo di presentare la questione (da molti ancora condiviso) e il principio della
personalità del diritto, che sarebbe stato alla base già delle leggi romano-barbariche dell’epoca.
Altri invece (e in primis Cortese) parlano invece di doppio strato normativo, cioè di una legge
generale (LRW) e di una legge speciale (lex wisigothorum). Tuttavia anche la tesi di Cortese è criticata (ndr.
da chi?):
“Se si ritiene che la LRW si applichi sia ai romani che ai visigoti, si deve giungere alla conclusione che la
fonte romana (LRW) per i cittadini romani dell’impero trae la sua giuridicità e cogenza dal potere del sovrano
visigotico e non dal fatto di essere una legge dell’impero. Questa considerazione, che non sembra possa
essere trascurata, mette in dubbio il rapporto tra legge generale e legge speciale e l’anticipazione del
sistema del diritto comune. In effetti il sovrano visigoto non si pone il problema della compatibilità tra la legge
dell’impero e la legge del regno visigoto, ma utilizza il principio giuridico romano, lo priva di valore come
legge dell’impero e attribuisce ad esso giuridicità e cogenza sulla base del proprio potere”.
Infatti, nella parte introduttiva della LRW si legge che è il re Alarico che dà la legge: il diritto romano recepito
non ha valore in quanto legge dell’impero, ma solo in quanto fatto proprio da Alarico.
Giacché sono leggi di Alarico e non dell’impero, come si può pensare che i cittadini romani dell’impero
potessero accettare una legge che veniva loro data da un re barbaro? Dobbiamo liberarci delle nostre
categorie, troppo rigide: non avrebbe più senso parlare di una legge romana dei visigoti, essa è
semplicemente una legge visigota, data dal re dei visigoti senza voler fare un favore ai romani. Lui è il capo
del popolo vincitore ed è naturale che sia lui a dare la legge. Proprio per questa ragione emana due leggi: si
applica talora l’una e talora l’altra, a seconda della convenienza del capo. Proprio il fatto che le fonti romane
che entrano nella LRW vengano osservate non come leggi imperiali, ma come leggi di Alarico, ci fa pensare
che la LRW e la lex wisigothorum potessero tranquillamente convivere (come convivranno nel medioevo lo
statuto e il diritto comune, che venivano applicati a seconda della convenienza che il capo suggeriva). Volta
a volta si hanno a disposizione due serbatoi normativi dai quali attingere, a seconda di quella che il caso
concreto suggeriva essere la norma più utile. Sarà la consuetudine poi a far sì che vi sia una applicazione
più frequente della LRW rispetto alla lex wisigothorum. Tanto è vero che intorno al 654, re Recesvindo, un re
visigoto del regno di Toledo, promulgò la cd. lex romana wisigothorum recesvindiana, che era valida per i
romani e per i visigoti, e che relegò la LRW agli studenti.
CHE COSA SIGNIFICA FARE UN’EDIZIONE CRITICA?
Significa comparare la stessa opera quale ci viene tramandata nei diversi manoscritti e cercare di individuare
la stesura che ricorre con maggior frequenza. In altri termini: ci sono delle varianti fra un testo e l’altro:
comparando il maggior numero di manoscritti a disposizione sullo stesso testo, si va a ricercare quello che
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ricorre con maggior frequenza rispetto agli altri e si considera quello, il più probabilmente vicino al testo
originale – supponendo che il testo che ricorre un minor numero di volte sia invece frutto di corruzione. In
termini tecnici si parla di “fare la costituzione del testo”, nel senso di lavorare su testi affidabili, che siano il
più vicino possibile agli originali.
Vediamo ora la situazione nel resto dell’occidente (Francia, Germania, Spagna), ovvero nelle regioni
interessate dall’invasione dei visigoti e dei burgundi, e prima ancora dei merovingi.
E’ importante completare il quadro nel tardo-antico perché ci aiuta a comprendere meglio le ragioni della
caduta dell’impero romano d’occidente, da cui siamo partiti. Come già detto, l’impero romano d’occidente era
caduto nel 476 anche se –come già detto- questa è una data convenzionale, perché in realtà la crisi del
mondo antico risale a tempo prima (già all’epoca di Diocleziano…).
Qualcosa di simile era avvenuto anche nel resto dell’occidente: i legami con l’impero si erano spezzati anche
nelle altre parti (quasi in età contemporanea alla caduta dell’impero), in particolare il RE EURICO aveva
spezzato i legami con l’impero già nel 462, quindi ancora prima della sua caduta ufficiale.
Non solo, ma: EURICO si era proclamato sovrano indipendente e addirittura nel 475 l’imperatore d’oriente si
era trovato a dover riconoscere questa indipendenza e aveva riconosciuto appunto EURICO sovrano.
Già prima della caduta dell’impero romano d’occidente anche il resto dell’occidente in realtà aveva rotto il
legame con l’impero.
In particolare, i FRANCHI instaurarono il primo nucleo del loro regno nell’attuale belgio, che ebbe inizio con
la stirpe dei MEROVINGI. In particolare, ci fu la conversione di CLODOVEO: la storia della conversione
rappresenta un elemento caratteristico del mondo nuovo con cui ci troviamo ad avere a che fare quando
parliamo di MEDIOEVO: e sarà la chiesa ancora una volta ad esserne la protagonista.
I Barbari erano tutti ARIANI: CLODOVEO si convertì al cattolicesimo e questa sua conversione è stata
interpretata dalla storiografia anche come un atto politico: non era facile tenere insieme due popolazioni
come quella germanica e quella romana, così distanti tra loro culturalmente (anche e soprattutto come
cultura giuridica): basti pensare che i barbari non avevano la cultura della legge scritta come invece i romani
(per quanto con il loro diritto romano VOLGARE ma comunque avevano dei testi scritti): i barbari invece
vivevano secondo le loro consuetudini che si tramandavano oralmente.
Un primo dato rilevante è che con la conversione CLODOVEO quindi si fa romano: la concezione del potere
dei re barbari è molto diversa rispetto a quella dell’occidente romano e dell’impero romano d’oriente: la
concezione dell’impero romano d’oriente –lo abbiamo visto- è quella cesaropapista, mentre quella voluta
dalla chiesa è quella GELASIANA; quella dei barbari invece è una concezione MILITARE: il rè barbaro cioè
è in realtà un CAPO MILITARE e in ragione di questa concezione si comporta da capo assoluto – tanto che
talora potremmo scambiare la posizione di questi rè barbari con quella cesaropapista, anche se in realtà ha
una natura ben diversa perché scaturisce da una concezione del potere ben diversa.
La chiesa in qualche modo si trova in mezzo e agirà proprio attraverso al conversione dei barbari a cui questi
si prestano per cercare di costruire una base di esperienza giuridica più unita: ancora una volta sarà proprio
la religione a creare la base di coesione anche tra popoli e concezioni così diverse come erano appunto
quelle di sovranità intesa dalla chiesa e intesa invece dai barbari.
(per capire l’importanza della conversione di Clodoveo leggiamo alcuni passi).
Il re fonda il suo potere su una concezione militare. Dal punto di vista politico, la conversione significava
uniformare i due popoli: la fede e la religione diventavano una base di salvezza del popolo, ancorché la
concezione del potere dei franchi rimanesse quella tradizionale, ovvero di capo del popolo-esercito.
La storiografia ha esasperato questa figura di CLODOVEO come un NUOVO COSTANTINO, scambiando in
qualche modo l’azione di questi re barbarici con quella cesaropapista degli imperatori orientali. E’ una
concezione del potere che si può facilmente scambiare col cesaropapismo: gli stessi storiografi dell’epoca lo
presentarono come il nuovo Costantino perché si convertì e quindi aderì ad una cultura che rendeva più
uniforme la società – seppure in realtà la sua concezione del potere rimaneva quella sua germanica: lui era il
capo e comandava a tutti suoi sudditi appunto in quanto capo. Non c’è però l’idea del capo temporale e
spirituale insieme (NON è il deus praesens): non si intromette negli affari della chiesa in quanto deus
preasens, come invece nella concezione cesaropapista: si intromette in quanto capo militare, e quindi di tutto
e di tutti, tant’è vero che non aveva esitato a farsi battezzare per essere capo anche di quella parte della
popolazione che altrimenti gli sarebbe sfuggita.
Nei fatti era la stessa cosa, ma era nel modo di pensare ai fatti che non fu la stessa cosa e questo è
importante perché sotto questo profilo per la chiesa fu più facile combattere i barbari piuttosto che l’oriente.
Iniziò una vigorosa politica di espansione su tutta la gallia, ad esempio sul regno dei burgundi: e da qui
comincerà la politica espansionistica dei merovingi (che sconfiggeranno i burgundi e poi i visigoti):
E’ nel momento in cui i barbari diventano popolazioni stanziale e di proprietari terrieri che sentono la
necessità di mettere per iscritto il diritto, in particolare le norme che gli servono per risolvere le questioni di
tutti i giorni, più che dei principi. E ecco che utilizzano le fonti che sono in circolazione in quel momento
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(ovvero le fonti del diritto romano volgare) e che sono quel diritto più immediato e usato nella prassi per le
questioni di ogni giorno.
Cominciano a trovarsi ad esercitare un potere stanziale, ma lo fanno ancora secondo la concezione militare
del potere. Quindi: da un lato cambiano i barbari, e dall’altro cambia l’occidente che non era abituato a
questo tipo di gestione del potere: ecco cosa significa l’incontro tra germanesimo e romanesimo.
E ecco che cos’è il MEDIOEVO: è il mondo latino con le infiltrazioni della chiesa e dei barbari: ecco perché
già prima della caduta dell’impero romano d’occidente siamo di fronte al medioevo.
Le due popolazioni barbariche che avevano raggiunto la maggiore forza erano stati i FRANCHI di
CLODOVEO e i VISIGOTI.
L’incontro con le popolazioni romane aveva portato la stirpe germanica a mettere per iscritto le proprie leggi:
lo avevano fatto i Visigoti con la LEX VISIGOTHORUM, e i Burgundi con la LEX GUNDOBADA (dal nome
del re che la aveva emanata, ma anche nota come Lex Burgundionum). Una delle più importanti era stata la
PACTUS LEGIS SALICAE, fatta da CLODOVEO: più che una legge fatta dal popolo (come intese parte della
storiografia con la sua denominazione “PACTUS”), fu una legge approvata dalla sola aristocrazia, che
conteneva una serie di pattuizioni di composizioni di liti (es. a livello pecuniario) e così andava a sgretolare la
concezioni germanica della FAIDA. Attraverso la pattuizione di una pena pecuniaria si abbandonava infatti il
sistema germanico della faida (“occhio per occhio – dente per dente”) e ci si avvicinava di più alla cultura di
stampo romanistica.
E fu di tale importanza che la PACTUS LEGIS SALICAE (o LEX SALICAE) rimase per secoli e fu foriera di
una esperienza giuridica che si mantenne per tutto il medioevo, fino a coinvolgere oltre all’esperienza
giuridica francese anche quella spagnola, di parte della germania (dove c’erano i burgundi) e dell’italia dove
circolò.
Accanto alle leggi che i popoli germanici danno mettendo per iscritto le proprie consuetudini, ci sono invece
altre leggi che le stesse popolazioni danno per la parte romana: la storiografia parla di PRINCIPIO DELLA
PERSONALITA’ DEL DIRITTO, un vecchio principio secondo il quale la legge non si individua su base
territoriale in quanto anche sullo stesso territorio ci possono essere leggi diverse se le popolazioni che
abitano su quel territorio appartengono a popoli (NATIONES) diversi – quindi: se io nasco visigota seguirò la
lex visigothorum, se nasco romana seguirò la lex romana visigothorum…
Sulla effettiva separazione fra le due leggi torneremo.
Quello che ora è importante capire è che queste popolazioni germaniche danno al loro popolo la propria
legge solo che entrambe si riallacciano al diritto romano anche se in modo diverso: e soprattutto quello che è
importante sottolineare è che comunque vige un sistema di legge scritta per entrambe le popolazioni.
Perché fu fatta la LEX ROMANA VISIGOTHORUM?
(che è la legge fatta dai visigoti per i romani)
Fu fatta da CLODOVEO perché si era convertito: aveva una forza maggiore, era un modo per ammansire la
parte romana dl suo regno: in realtà, forse perché pare fosse stata fatta dagli ecclesiastici ebbe grandissima
diffusione.
E com’era fatta? C’era buona parte del codice teodosiano (non però in forma integrale) e alcune novelle
post-teodosiane.
L’invasione dei Longobardi in Italia è stata definita dal Calasso come il vero inizio del medioevo, già abbiamo
visto che il medioevo è iniziato prima, ma l’espressione del calasso è dovuta al fatto che l’invasione dei
Longobardi si presenta con caratteri piuttosto diversi e produce effetti ancora diversi rispetto a quelle che
avevano prodotto le altre invasioni barbariche.
Il primo elemento di differenza sta nel fatto che l’unità italiana viene definitivamente spezzata, perché i
Longobardi non conquistano tutta l’Italia, ma solo una parte, alcuni territori restano legati all’oriente bizantino.
L’impero d’oriente per tutti gli anni della guerra gotica aveva provveduto a riconquistare il regno unit….. , ma
quando arrivarono i longobardi di nuovo il regno ……. Si trova ad essere spezzettato: parte resta all’oriente
che lo aveva riconquistato e parte cadde sotto i Longobardi.
Quando i Longobardi arrivano in Italia, siamo nel 568 (partivano dalla Pannonia, attuale Ungheria) ed erano
dei barbari federati (modo con cui i barbari erano stati tenuti buoni , come i goti di Odoacre). Si erano accorti
della debolezza del regno ::::: provato dalla lunga guerra combattuta sul territorio italiano dai Bizantini
contro i goti per scacciarli e riportare il territorio Italiano all’impero d’oriente. Scendono dalla Pannonia
attraverso le Alpi e non trovano opposizione perché la sorveglianza bizantina è debole e la possibilità delle
popolazioni locali di contrastare l’invasione è pressochè nulla. L’Italia esce già da un periodo di debolezza
per poter fare opposizione ad una nuova invasione.
Per rendersi conto dello stato delle forze in Italia, vi propongo una lettura che Paolo Diacono scrive ai tempi
in cui i fatti (l’invasione longobarda) sono avvenuti. La Historia Longobardorum è attraverso lui che
conosciamo la storia dei Longobardi. Alcuni territori d’Italia vengono conquistati dai Longobardi altri restano
a Bisanzio (impero d’oriente), almeno nel primo periodo delle invasioni (perché poi i Longobardi riusciranno a
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conquistare anche la Liguria che in un primo periodo resta sotto l’impero d’oriente); tutto il territorio
dell’esarcato, che da Ravenna si spingeva a nord fino al territorio dove sorgerà Venezia, a sud fino a Roma
passando attraverso le marche. È importante sottolineare il fatto che Roma non cadde con i longobardi
perché a Roma c’è il Papa, poi riescono a conquistare anche parte del mezzogiorno d’Italia (ducato di
Spoleto e Benevento) anche se la maggior parte del mezzogiorno rimane a Bisanzio (Puglia, Calabria,
Sicilia, Sardegna e Corsica restano sotto Bisanzio. Parleremo dell’Italia Bizantina (quella che resta sotto
l’Impero d’Oriente). Vedremo la legislazione di questi territori, ossia la legislazione che si continuerà a
produrre in oriente dopo Giustiniano, con caratteri diversi dal diritto Giustinianeo, una legislazione che si va
quindi ad innestare su un sostrato di diritto romano volgare e su un territorio dove in quello stesso periodo
c’era il diritto longobardo. Capite come l’esperienza giuridica che esce da tutto questo sistema sia un
guazzabuglio di diritti e si capisce ancora di più perché il diritto giustinianeo continua a non circolare fino a
scomparire completamente. Vedremo l’ultima citazione del digesto fatta da Papa Gregorio Magno nel 603, il
papa che in modo diretto ebbe a che fare con i Longobardi.
Torniamo ora all’invasione dei Longobardi:
introno al 568 partono dall’Ungheria e scendono in Italia capeggiati dal re Albonio. Diacono ci dice che
Alboino deciso a partire per l’Italia con i longobardi chiese aiuto ai Sassoni, suoi vecchi amici, per entrare in
quella regione con il maggior numero di uomini possibile, poiché intendeva conquistarla, e i Sassoni
vennero con più di 20.000 uomini, con mogli e bimbi per muovere verso l’Italia. Questo ci da un quadro
molto significativo della tecnica di riconquista dei Longobardi:
intanto erano in un numero spaventoso, avendo chiesto aiuto ai sassoni
erano popolazioni nomadi, solo successivamente divennero stanziali
con tutte le implicanze del mondo del diritto con riguardo ai Franchi e ai Visigoti (messo per iscritto, legis,
problema della disciplina del diritto privato, rapporti tra privati, uso di rescripta), ma qui ci da l’idea di una
popolazione nomade che quando si muoveva spostava tutto. Questo modo di sradicare tutto ha degli effetti
sia sulla tecnica di conquista sia sull’assetto dell’organizzazione giuridica del nuovo regno.
La tecnica di conquista dei Longobardi si fondava sull’azione di intere famiglie capeggiate da un padre, che
ubbidivano ad un condottiero, facevano si che si potessero dislocare in singoli gruppi. Erano forti per questa
tecnica, l’intera famiglia entrava in guerra e anche dopo aver conquistato siamo di fronte ad una
organizzazione del regno Longobardo che fa leva sul DUX (condottiero). Formeranno i ducati come entità
organizzativa territoriale. I Ducati corrispondono ai vecchi gruppi familiari che man mano erano scesi a
conquistare il territorio. Questo partire con mogli e bambini per andare verso l’Italia ha dei riflessi sia sulla
tecnica militare di conquista poi anche sull’assetto organizzativo perché non a caso il regno Longobardo si
suddividerà in Ducati, cioè territori in cui vivevano gruppi di famiglie capeggiati dal Duca.
C’è uno spostamento poi di popoli barbarici, alcuni che prendono il posto di altri per conquistare nuovi
territori. Alboino, prima di lasciare la Pannonia si preoccupa di non perderla da proprio controllo, cosi la
assegna ai suoi amici, gli UNNI, con il patto che se dopo qualche tempo i Longobardi fossero stati costretti a
tornavi avrebbero ripreso i loro campi. I Longobardi pertanto abbandonata la Pannonia avanzarono in fretta
fino in Italia per stabilirvisi, avevano abitato la Pannonia per 42 anni . quando re Albonio giunse ai confini
dell’Italia col suo esercito, e con una moltitudine di popolo promiscuo perché aveva man mano raccolto
gente, salì su un monte che domina quei luoghi e da lì contemplò quella parte d’Italia fin dove potè svolgere
il suo sguardo (cividale del Friuli). Da qui re Albonio entrò senza trovare nessun ostacolo e penso a chi
doveva affidare quella provincia che aveva appena conquistato. Stabilì di mettere a capo di Cividale del Friuli
e di tutta la regione suo nipote Grisulfo. Vanno per gruppi di famiglie e il più glorioso combattente diventa il
capo. (concezione militare del re ne confronti del suo popolo). Grisulfo disse che non avrebbe assunto il
comando di quel popolo se prima non gi fossero state assegnate quelle stirpi e gruppi familiari che esse
avrebbe voluto scegliere.
La famiglia è il fondamento dell’assetto organizzativo del regno del longobardi e del diritto dei longobardi
Il nipote di alboino dice che diventerà Duca solo se può scegliere le famiglie sotto di lui. È il gruppo che è il
perno egli ricevette così le più nobili casate del Longobardi come aveva desiderato. Sempre con riguardo
alla concezione del potere il Re è sostanzialmente capo militare, ma il vero perno dell’organizzazione del
regno dei Longobardi NON è tanto la figura del Re, ma quella del Duca. Ci furono molti ducati.
Con Rotari le cosa saranno diverse, infatti emanerà un editto, cioè metterà per iscritto le
consuetudini dei longobardi. Nel momento in cui i Longobardi scendono in Italia , più che l’idea di un
regno capeggiato da un re hanno l’idea di un ducato, non obbediscono cioè ad un solo capo, ma ciascun
gruppo ha un suo capo. Non esiste un re che governa tutti i ducati (il re è solo capo militare). Questo ci fa
capire perché dopo la morte di un re longobardo passarono addirittura 10 anni prima che si dessero un altro
re. Questo lo possiamo spiegare solo se consideriamo la mentalità dei Longobardi, non c’è un Re assoluto, è
il Duca che gestisce gli affari del regno. Il duca si occupa della suddivisione territoriale ed amministrativa del
regno. (Diacono dice che dopo la morte del re per 10 anni i Longobardi furono sottomessi ai duchi.
Ciascuno di essi infatti governava una città. Oltre a questo ci furono altri 30 duchi. In questo periodo molti
nobili romani furono uccisi per cupidigia della loro ricchezza- rapporto problematico tra i nuovi invasori e
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parte romana de regno Longobardo e che già avevano subito i goti. (se ne trova traccia anche nella
pragmatica santio, incentivata da Papa Vigilio anche per cercare di rimediare a tutti i soprusi che i goti
avevano commesso contro i romani); gli altri romani furono spartiti tra i conquistatori e fatti tributari perché
pagassero ai Longobardi la terza parte dei loro raccolti. Per opera di questi duchi furono spogliate le chiese ,
uccisi i sacerdoti, rase al suolo le città, sterminate le popolazioni, e gran parte dell’Italia, escluse le zone
conquistate da Albonio fu posta sotto il giogo dei Longobardi. Erano particolarmente feroci.
Fin dall’inizio l’atteggiamento dei Longobardi anche nei confronti dell’Impero d’Oriente era diverso dalle
altre popolazioni barbariche (goti in Italia, Visigoti in Francia e Spagna), non avevano mai spezzato i legami
con l’impero d’oriente, anzi si erano fatti riconoscere patrici romanorum, o meglio avevano spezzato i legami
con l’oriente nel senso che si erano dichiarati indipendenti, ma non avevano mai spezzato il legame con la
cultura della romanità. Si erano comportai si in modo indipendente fino ad arrivare alla caduta dell’Impero
romano d’occidente, ma non erano mai entrati in conflitto con l’Impero Romano d’Oriente. Così non furono i
longobardi perché loro entreranno in conflitto diretto, se non altro perché strapperanno buona parte del
territorio italiano a Bisanzio che lo aveva appena riconquistato faticosamente.
C’è più di un motivo per dire che le invasioni dei longobardi erano ben diverse da quelle altre invasioni
barbariche
Prima di tutto perché non c’è una concezione del regno assoluta ed unitaria, c’è un re, capo militare, ma
tutto ciò che riguarda l’amministrazione del regno è in mano ai duchi. Ci sarà si un palatium a Pavia, cioè
una specie di Capitale amministrativa del regno (a Pavia nascerà una scuola di diritto longobardo)
Poi si spezza l’unità dell’Italia perché alcune regioni restano sotto Bisanzio;
si spezza la cultura della volgarizzazione del diritto perché i Longobardi man mano introdurranno le loro
consuetudini
soprattutto, mentre i visigoti avevano dato ai romani la loro legge, ma gli avevano anche permesso di
tutelare i loro diritti nei loro tribunali, cioè col sistema processuale romano (la Lex Romana Wisigotorum è
piena di norme processuali), i Longobardi invece, che pure avevano consentito ai romani di vivere secondo il
loro diritto, dal punto di vista processuale , imporranno un loro sistema che è + rozzo. Non lasceranno ai
romani la possibilità di tutelarsi secondo il sistema processuale romanistico.
(pausa)
studio su Papa Gregorio Magno che fu il Papa che ebbe a che fare con i Longobardi: mette in evidenza tre
punti di rilievo dell’età dei Longobardi
4. Il carattere di questa popolazione barbarica e come la Chiesa procedesse attraverso lo strumento
della conversione per cercare di uniformare il più possibile (pensate alle difficoltà, accanto ai
vescovi fatti dalla Chiesa i Longobardi facevano i loro vescovi ariani)
5. I progressi fatti dal punto di vista della universalità pontificia, l’azione di questo Papa, sulla scia di
Papa Leone Magno, di Papa Gelasio, continua nella estensione del concetto della universalità
papale della Potrestas L.e S.
6. A questo papa è ricondotta l’ultima citazione dal digesto.
Dopo di che si entrerà nei cosiddetti secoli bui della storia giuridica dell’occidente in Italia perché si avrà un
legislatore longobardo che impedisce assolutamente la circolazione del diritto giustinianeo e si appoggia sul
diritto Teodosiano. Ecco perché dicevamo che la L R W è importante, perché sarà fonte anche degli editti dei
re Longobardi. “L’Italia terra del diritto giustinianeo”, in realtà nel corso dei secoli è espressione che si svuota
sempre più di significato.
Rapporto Papa – Longobardi
L’autore dice che fu un’invasione particolarmente rovinosa per l’Italia, ecco perché la storiografia dice che è
con i Longobardi che nasce il medioevo, non nel senso del buio, ma nel senso che si interrompe la
tradizione romanistica. Anche l’intero ordinamento ecclesiastico era minacciato dai Longobardi.
Barbare scorrerie: gruppo di famiglie che saccheggiava.
(Il Santo Pontefice, vedendosi stretto da tante calamità non aveva torto di paragonare lo stato delle province
ecclesiatiche di Roma ad una nave ------- tratto letto dal libro----)
È il papa che è protagonista nel salvare l’occidente, cioè salvare la vita della parte romana d’Italia ma anche
la cultura, la tradizione, il diritto, solo i Papi potevano farlo.
La sollecitudine del Papa si rivolse al riordino delle diocesi distrutte, quindi necessità di rimettere ordine non
soltanto in riferimento all’obbedienza dei vescovi e monaci al Papa, ma anche nelle strutture fisiche e
territoriali della chiesa, rimettere in piedi diocesi vescovadi, ecc.
Nei luoghi dove i longobardi si erano insediati da più tempo e dove le cose si erano ridotte a migliore
assetto, riappaiono gli antichi vescovadi cattolici, ma nelle città principali delle terre occupate si vedono
dappertutto vescovi ariani fondare sedi vicino a vescovi cattolici ed usurpare le chiese cattedrali e i beni
ecclesiastici, così i vescovi cattolici anche mentre taceva la persecuzione erano oppressi e disprezzati e
solo a poco a poco riacquistarono l’autorità con il favore della Regina Teodorinda che fu la prima a
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convertirsi e a trascinare il popolo. Per il fatto che i Longobardi erano nemici alle porte di Roma i vescovi a
nord di Roma furono nel 592 tolti da ogni commercio con Gregorio e per lungo tempo i sudditi che per
esempio da Rimini volevano andare a Roma, non avevano altra via che girare per la Sicilia in mare. Per tale
motivo il papa investì temporaneamente il Vescovo di Ravenna di una speciale giurisdizione. (se
dovessimo dar credito alla storiella di Odofredo, il Corpus Juris Giustinianeo al momento della rinascita, pare
sia stato riscoperto a Roma ma poi andò a finire a Ravenna a seguito di guerre e poi a Bologna , ma perché
proprio a Ravenna? Perché era rimasta in mano dell’Impero d’Oriente, così come Roma dopo la discesa dei
Longobardi. Era stata la capitale dell’esarcato territorio che si spingeva fino a Venezia , passava dalle
Marche ed arrivava fino a Roma. Era stata sempre un punto di appoggio per il papato, anche per questo il
racconto di Odofredo, del passaggio delle pandette, digesto , corpus juris civilis da Roma a Ravenna può
effettivamente trovare un fondamento.
Al tempo Gregorio Magno aveva dotato Ravenna di una speciale giurisdizione sopra i vescovi di quel
territorio, che se qualcuno dell’ordinamento della chiesa avesse meritato di essere ammonito a cagione dei
tempi di guerra non dovesse essere citato a Ravenna, ma semplicemente essere ripreso per lettera.
Ravenna aveva questa speciale giurisdizione, per cui non era necessario convocare il monaco a Ravenna,
ma da Ravenna partiva solamente un provvedimento disciplinare. Ravenna era stata dotata di particolari
poteri giurisdizionali dal Papa, per cose più gravi rimaneva comunque sempre in piedi l’antico sistema delle
decretali, era pur sempre possibile fare appello al Papa.
E Importante considerare l’azione di questo papa per tenere saldo il potere universale pontificio. La chiesa
avrebbe potuto subire un rallentamento nella sua azione di consolidamento del potere universale, ma
questo papa, che non a caso passa alla storia con il nome di MAGNO continua a mettere a punto la
Potestas L. e S. e della plenitudo potestatis dei pontefici. Uno dei problemi della chiesa in questo periodo è
di mantenere la disciplina interna. Rimette ordine alla disciplina della chiesa, viene in soccorso dei poveri
che a lui si raccomandano, rimette in miglior essere lo stato dei beni ecclesiastici, vigila il governo dei
vescovi per mezzo dei legati (nasce qui la figura del legato pontificio, cioè di un diretto mandatario del
pontefice che agisce nei vari territori). Le due chiese patriarcali di Alessandria e di Antiochia a titolo di onore
sopra le altre ricordavano l’origine apostolica. Gregorio Magno ribadisce che la chiesa di Roma è la prima,
mentre gli altri vengono dopo compresa quella di Costantinopoli. Gregorio ricorda più volte che il povero
pescatore San Pietro fu prescelto a strumento di grazia nelle mani dell’altissimo e Cristo gli disse “pascia le
mie pecorelle”, solo lui viene data la potestà di legare e di sciogliere e la cura di tutta la chiesa e il supremo
principato spirituale. Ancora una volta si fa leva sulla potestas L.e S. cioè le due chiavi del regno dei cieli.
Ultima citazione del Digesto. C’era stato il problema della deposizione di un vescovo, una questione che fu
portata al pontefice, le accuse furono ad una ad una esaminate, e si allestì nella cancelleria pontificia una
lista di 13 testi di legge tratti dal Diritto Romano i quali mettevano in piena luce la contraddizione quanto si
era fatto in Spagna e le norme allora in vigore. Questa deposizione era avvenuta in Spagna. La deposizione
era avvenuta applicando determinate norme che erano contrarie al diritto romano. Il Papa fa una lista di
diritto romano per riformare la sentenza di deposizione. Così ad esempio a proposito dell’inviolabilità d’asilo
fu citata tra le leggi una di Onorio da Teodosio nella quale si dichiara che il delitto di lesa maestà, lo
strappare a viva forza dal tempio coloro che si erano rifugiati. Inoltre furono citate due leggi dell’Imperatore
Leone I che puniscono con la morte la violazione dell’asilo. Nella lista dei testi di legge si tiene conto anche
dell’intrusione degli schiavi nei processi legali, che gli schiavi non possono in nessun modo deporre in via
giudiziaria contro i loro padroni. Si conferma con una legge di Arcadio di Onorio.
Se da un lato ci sono i Longobardi, che scendono in Italia, rompono l’unità territoriale, culturale e giuridica e
portano solo povertà e distruzione, dall’altra attraverso l’azione della chiesa si continua l’opera di
conversione di queste popolazioni barbariche per cercare di ricreare un po’ di armonia tra le popolazioni,
ma anche si mantiene in vita per quanto possibile il diritto romano. Il fatto della deposizione del vescovo in
Spagna ne è un esempio. Ma anche nel caso in cui Gregorio Magno da istruzioni ad un defensor siciliano, e
metà di queste istruzioni sono una serie di leggi giustinianee, sulle quali lui ossa far leva per amministrare
la giustizia, tra cui c’è anche un passo del digesto, l’ultima citazione del digesto, perché poi scompare. C’è
uno sforzo della chiesa di mantenere salda la romanità e la posizione del pontefice non solo nei confronti di
tutta la romanità, ma anche all’interno dell’ordinamento della chiesa dove pure si verificavano disordini, per
vari motivi:
Perché i Longobardi facevano vescovi ariani che vivevano accanto a quelli cattolici
11 Perché la situazione di estrema povertà i saccheggi ruberie avevano provocato disordini anche
11 all’interno della chiesa stessa
Quindi era necessario ripristinare la corretta regola di diritto che circola in questa situazione di estremo
degrado della cultura, nei primi anni ci si arrangia, poi a partire dal 643 con il Re Rotari dei Longobardi, essi
cominciarono a mettere per iscritto le loro consuetudini ed il risultato è l’EDITTO DI ROTARI. Il fatto che si
chiamasse editto la storiografia l’ha visto come una sorta di imitazione da parte di questi re barbari della
romanità. In realtà non è così, lo fanno perché cominciano a mescolarsi con la romanità. Anche l’editto di
Rotari scritto in latino sembra sia stato redatto per iscritto dagli ecclesiastici. Siamo nel 643 i longobardi
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erano scesi nel 568. Nell’arco di 70 anni la cultura romana comincia a permeare la cultura di questa
popolazione barbarica. Si mettono infatti per iscritto le vecchie consuetudini che scritte non erano. La
motivazione occasionale che aveva spinto Rotari a mettere per iscritto queste consuetudini erano di natura
demografica perché i longobardi erano continuamente in guerra per allargare i loro possedimenti (la Liguria,
e più volte avevano tentato di entrare a Roma, era caduta anche Ravenna). Erano sempre in guerra e
questo aveva portato all’impoverimento molto spesso. I soldati si lamentavano e chiedevano al re desse loro
una legge che potesse mettere le cose in sesto. La motivazione occasionale non ha molto a che vedere col
desiderio di mettere per iscritto le consuetudini del popolo germanico. In realtà poi nel prologo dell’editto si
dice proprio questo: da li si capisce come si senta l’esigenza di aderire ad un modello giuridico che era
assolutamente fuori da quello dei Longobardi che invece avevano una concezione morale del diritto, o
meglio delle consuetudini germaniche sulla base della personalità del diritto per cui la gens longobardorum
aveva il complesso delle proprie consuetudini che Rotari per la prima volta cerca di mettere per iscritto per
rimediare a quelle situazioni che soprattutto l’esercito lamentava.
Altro elemento caratteristico di questa legislazione (dopo Rotari seguiranno altri editti ad esempio
Luitprando, si nota l’intervento dei diritto romano nella legislazione dei longobardi) è che l’editto fu approvato
dall’assemblea degli uomini in armi, mediante una particolare cerimonia che prevedeva per l’approvazione
un rito battere la lancia sugli scudi “tingatio”. Questo ci fa capire il livello di cultura di questa popolazione. È
in realtà una ritualità ricca di risvolti giuridici. Tutti gli istituti di diritto longobardo sono assolutamente
impregnati di elementi formali, la variatio?? È il sistema obbligatorio per esempio del diritto longobardo e in
generale tutte le figure giuridiche del diritto Longobardo sono impregnate di questa simbologia fatta anche
di simboli esterni. Non stupisce che l’approvazione dell’Editto sia avvenuta mediante questa particolare
cerimonia che prevedeva questa particolare ritualità, che da sempre è stata ricondotta all’idea pattizia
della legge che sarebbe stata tipica non solo dei longobardi, ma in generale delle popolzaioni barbariche.
Ricordate parlando della legge silicia “pactus lege silicia” (molte leggi barbariche si intitolano Pactus). Da
sempre la storiografia ha pensato che si intitoli pactus e che anche l’editto di Rotari rientri nella concezione
pattizia della legge, perché la legge presso le popolazioni barbariche veniva pattuita tra il Re e il popolo.
Ecco perché è importante valutare il significato della tingatio, questa cerimonia in cui gli uomini in armi
battono la lancia sullo scudo. Si è visto in questa cerimonia il riproporsi della stessa mentalità pattizia della
legge. In quel modo il re otteneva l’approvazione del popolo in armi che era quella parte del popolo che
aveva rilievo giuridico. Ecco perché il popolo in armi è il destinatario dell’editto, non perché solo il soldato
debba seguire l’editto, ma perché è il popolo in armi che rappresenta il resto del popolo. Quindi si è detto
che anche l’editto di Rotari rientra in questa concezione pattizia, fino a che una storiografia più recente ha
messo in dubbio questa concezione pattizia, già dicevo che la legge salicia si chiama pactus non perché
sia pattuita tra il re e il popolo, ma perchè contiene pattuizioni, cioè sanzioni pecuniarie al posto delle faide
che altrimenti intervenivano tra le famiglie. Si pattuiva una pena pecuniaria come composizione della lite.
Lo stesso si può pensare con riguardo all’editto di Rotari perché se andiamo ad analizzare il prologo
dell’Editto dove il re Rotari dice che mette per iscritto le antiche consuetudini del suo popolo che scritte non
erano, usa anche come espressioni “jubenus” “ordinamun” è difficile parlare di una concezione pattizia. Ma
allora che significato aveva la cerimonia del Tingatio? In realtà è verosimile che avesse un altro tipo di
significato. Se andiamo a vedere l’assemblea del popolo in armi e la tingatio, non fu fatta solo in occasione
dell’editto di Rotari, ma si faceva anche in altre occasioni e aveva, (in particolare nel corso delle successioni
ereditarie) lo stesso significato della Traditio Romana (traditio è il trasferimento di un bene da una persona
ad un’altra) quindi quella cerimonia è possibile, che nel caso specifico dell’editto di Rotari, avesse avuto il
significato di trasferire la legge dal e al popolo. Quindi non uno scambio di consensi, un pattuizione, ma
semplicemente il trasferimento di questo corpo di leggi dal capo militare ai suoi sudditi / popolo in armi che
rappresenta il popolo tutto. Questa cerimonia possiamo in un certo senso dire che equivaleva alla nostra
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Era il modo per rendere manifesta a tutti la legge, per trasferire la
legge.
Domani torneremo sul valore simbolico di determinati gesti. L’esperienza giuridica dei Longobardi entra a
modificare alcune strutture giuridiche del Diritto Romano. Dall’incontro del romanesimo e del germanesimo
nasce una nuova esperienza giuridica che è tipica dell’Italia e per quella si che possiamo parlare di storia
del diritto Italiano, per tutto il resto sarebbe giusto parlare di storia del diritto medioevale dell’occidente.
Completiamo oggi l’Editto di Rotari, primo esempio di legislazione longobarda a cui fanno seguito altre
legislazioni edittali, fra cui, molto importante è l’Editto di Liutprando, che mostra tratti di maggiore
completezza e un livello culturale meno rozzo.
Completeremo inoltre il discorso su alcuni istituti di diritto longobardo, così da comprendere la netta
differenza con l’esperienza giuridica romana e, soprattutto, come l’incontro tra queste due culture abbia poi
creato importanti elementi di novità che caratterizzano i territori italici occupati dai Longobardi, mettendo in
evidenza la differenza che invece si realizza in tutti gli altri territori italici legati a Bisanzio, la c.d. Italia
bizantina, ove si insedierà dopo Giustiniano, il Diritto bizantino.
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Non è banale riflettere sull’importanza degli elementi esteriori, cioè sulle cerimonie, come la Thingatio
(donazione legale), la cui ritualità avveniva con mezzi esteriori (tra cui il battito della lancia sugli scudi), i
quali erano in grado di dare concretezza ai bisogni reali immediati, ma denunciano la assoluta incapacità
della mentalità longobarda di dare astrazione giuridica alla norma, cioè alla creazione dei principi giuridici
teorici, come ad esempio il consensus. La stessa, per così dire, promulgazione dell’Editto di Rotari avvenne
attraverso una cerimonia elaborata, in segno di adesione alla norma da parte del popolo longobardo.
Come abbiamo avuto già modo di dire, la guerra ventennale gotico-bizantina aveva portato alla cacciata dei
goti, ma aveva tuttavia determinato un vero e proprio sfacelo, tanto è che i Longobardi, al loro arrivo, non
trovarono alcuna resistenza. Tale situazione ebbe anche dei riflessi giuridici.
Una sostanziale differenza con le precedenti invasioni barbariche sta nel fatto che i Goti nel territorio italico,
ma anche i Visigoti per la Gallia e la Spagna, pur essendosi impadroniti dei beni della Chiesa e
dell’aristocrazia, avevano tuttavia mantenuto un certo grado di rispetto nei confronti della romanità: nel
periodo gotico circolavano le fonti del diritto romano volgare e così fuori dal territorio italico (lex visogotorum).
Tutto ciò, con l’ Editto di Rotari, non avviene. Una interferenza del diritto romano si avrà solo un secolo più
tardi, con l’Editto di Liutprando.
Un’altra differenza con le precedenti invasioni barbariche consiste nel fatto che, mentre in precedenza non
solo coesistevano due diversi leggi, una per la parte romana e l’altra per la parte barbara, ma si erano
mantenuti in vita due distinti sistemi processuali, diversamente fanno i Longobardi che pur applicando in
qualche modo il principio della personalità del diritto, al momento della effettiva tutela dei diritti della
popolazione romana, applicano esclusivamente il rozzo sistema processuale longobardo della ordalia,
della faida, ecc., incapace di rendere effettivo quel diritto romano volgare.
Questo clima spiega l’involuzione del diritto e perchè le fonti giuridiche giustinianee, che già avevano avuto
difficoltà a circolare nel territorio italico, resteranno completamente assenti e limitatamente circoscritte
nell’ambito della Chiesa (dove comunque preferibilmente circolò il codice teodosiano) fino al Papa Gregorio
Magno.
L’Editto di Rotari viene emanato nel 643, dopo diversi anni che i Longobardi si erano insediati nel
territorio italico. Esso conta di 388 capitoli. L’estensione maggiore è data al diritto penale, che non è più
basata sulla sola vendetta, ma su una prestazione economica (composizione) che chi commette il reato è
costretto a pagare al danneggiato o ai parenti.
La pena di morte è limitata ai reati speciali, quali il regicidio, la diserzione, il tradimento, i delitti contro la
sicurezza dello stato, l’ordine pubblico e l’uccisione da parte della donna del marito. Per gli altri delitti si
applica una pena in denaro che varia secondo la qualità dell’ucciso, quindi proporzionale al valore sociale
della persona. Così anche per il ferimento.
Vi è una esasperata importanza nella determinazione delle pene in base alle specifiche fattispecie; si tratta
di un vero e proprio tariffario:
art 46: per un pugno, tre soldi, per uno schiaffo sei; sei soldi per ogni piaga procurata sulla in testa
purché coperta dai capelli; quelle oltre non sono computate.
art. 47: per la rottura di ogni osso del cranio, anche qui con un massimo di tre, vanno versati dodici
soldi.
art. 48: se qualcuno avrà fatto perdere un occhio a un altro, costui sarà valutato come morto,
secondo la qualità della persona e quegli darà a lui una composizione uguale alla metà della valutazione
medesima (guidrigildo).
art. 49: se qualcuno avrà tagliato il naso a un altro, dovrà come sopra, una composizione uguale
alla metà del prezzo di lui.
art. 337: se uno al cavallo di un altro avrà fatto cadere l’orecchio o un occhio, riceva il cavallo leso
e ne renda uno simile.
Ma l’ammontare delle pene dipendeva anche dello status sociale dell’offeso. Tariffari puntigliosi
riguardavano i semiliberi, o Aldi e i servi rustici. Una diversa compositio è fissata in particolare per
l’uccisione dei servi a seconda della categoria a cui appartengono, in una significativa scala decrescente che
va dall’Aldio al pecoraro.
Come si può ben constatare, si tratta di disposizioni di nessuna astrazione giuridica ma che, fissati per
scritto, tendono ad eliminare la Faida (inimicizia), sistema con cui si regolavano i conti tra le famiglie (occhio
per occhio, dente per dente), mediante delle composizioni, ovverosia, delle misure sostitutive della faida e
che rappresentano comunque un’evoluzione di civiltà.
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Un altro elemento di rilievo è quello del guidrigildo, che corrisponde al personale stato sociale nella
comunità, all’interno del gruppo di appartenenza: il massimo guidrigildo corrispondeva al soldato; la donna
non ha guidrigildo perché non ha posizione nello stato sociale.
La situazione della donna torna di rilievo anche con riguardo al matrimonio longobardo, uno degli istituti su
cui la Chiesa potette agire maggiormente, mediante la conversione e l’introduzione all’interno del rito
longobardo di elementi romani e, in particolare, del principio secondo cui “consensus facit nuptias”: è il
consenso (e non la convivenza) che rileva per il matrimonio.
È inoltre da escludere che la donna fosse oggetto di compravendita, come ritenuto dalla vecchia storiografia
per il fatto che lo sposo doveva pagare una somma di denaro alla famiglia della sposa. Si tratta infatti di
un’errata interpretazione del Mundium, che corrisponde alla manus del diritto romano. Tale principio afferma
che la donna appartiene alla famiglia di origine. Cioè, la donna sta sotto il mundium del padre o del fratello,
una sorta di patria potestas che dà alcuni diritti specifici quali: la consegna al marito, di esercitare contratti, di
permetterne la monacazione, e di esercitare nei suoi confronti un modico potere disciplinare. Quando si
sposa la donna può eventualmente passare sotto il mundium del coniuge. Pertanto, ciò che acquista
(eventualmente) il marito, non è la donna, ma il mundium sulla donna.
Il matrimonio, che si concludeva con la traditio della donna nella casa del marito, era preceduta da quella
fase che corrisponde al fidanzamento, in cui si stabilivano i futuri assetti patrimoniali della futura famiglia che
si andava a costituire e che dette luogo alla c.d. subarrhatio anulo, che prevedeva in luogo del pagamento
di un prezzo, l’offerta alla donna di un anello, segno dell’impegno a contrarre successivamente il matrimonio,
e che fece emergere (come la Chiesa volle) il principio del consenso.
Altro istituto regolato nell’Editto di Rotari, e contraddistinto da elementi assolutamente esteriori a cui si
connettono valori giuridici, è quello del Vadiatio, cioè di un bastone (vadia) che la parte A consegnava alla
parte B, significando l’obbligatorietà del contratto.
Significativo, per altri aspetti, è il sistema delle successioni. Qui lo scontro tra il modo romano e quello
longobardo è totale. I longobardi non conoscevano il testamento, ma solo la successione in linea diretta
legittima. Anche da ciò traspare l’assoluta centralità della famiglia.
In particolare, la famiglia e la ritualità contraddistinta da segni esteriori, sono i due elementi chiave, per
comprendere il diritto dei longobardi. Inoltre, fondamentale è il momento dell’applicazione del diritto: il
processo ordalico, dove le prove non rilevano, e che si traduceva sempre in un duello il cui vincitore era
considerato il benvoluto dalla divinità e quindi colui che aveva la ragione.
Ma nonostante la rozzezza dei longobardi, l’incontro delle due civiltà, fu comunque foriero di nuovi frutti. Ciò
è ritenuto soprattutto oggi dove il periodo dell’occupazione longobarda non è più considerato così buio come
in passato.
Calasso: Nelle regioni italiche soggiaciute all’invasione, queste due civiltà giuridiche così profondamente
divergenti si trovarono dunque di fronte, e in un sistema di personalità del diritto riuscirono a coesistere.
L’urto, particolarmente nel periodo iniziale dell’occupazione longobarda, dovette essere aspro (con
Liutprando la fusone sarà avvenuta). Ma anche quando un primo equilibrio fu raggiunto e divennero più
evidenti le piaghe inferte dall’invasione e dall’occupazione, con pagine sociali impoverite e sconvolte,
proprietà terriere sconvolte e ridotte alla sterilità, pubblici servizi disorganizzati o distrutti… L’incontro tra le
due civiltà si svolse sopra un terreno cedevole, rappresentato dalla coscienza giuridica di un popolo vinto e
stremato di forze sullo sfondo di una crisi economica paurosa. Questo stato d’animo dei vinti, come si
deduce dalle scarse fonti superstiti dei secoli VI, VII e VIII, che rappresentano i secoli della prevalenza
barbarica, ha fatto molta impressione e spinto talvolta a deduzioni eccessive sulla stessa loro condizione
giuridica. Senza dubbio, i vinti non si trovarono coi vincitori in una perfetta condizione di parità, perché anche
nei primi decenni di invasione del regno longobardo erano stati così premuti da far pensare addirittura a una
riduzione a stato di servitù: ipotesi certamente esagerata e mai tolta di mezzo. Un’accentuata disparità tra
vincitori e vinti ci fu, ma di ordine politico, non giuridico.
Ai vinti romani si poterono interdire le cariche pubbliche, l’uso delle armi, con tutte le conseguenze che una
mentalità barbarica poteva riconnettere a tali privazioni. Tuttavia, si lasciò l’uso, anche se limitatamente ai
rapporti privati, del proprio diritto che era l’arma più potente. A noi consta, d’altra parte, che questa disparità
di ordine politico col tempo s’andò attenuando, via via che la posizione di vincitori e vinti perdeva l’originario
valore crudamente discretivo, e le relazioni tra i due popoli s’andavano intensificando, sia per la via dei
matrimoni, che già nell’età di Rotari dovevano essere frequenti, sia negli altri rapporti sociali ed economici,
essendo proprio il popolo vinto il più bravo, così nell’arte del governo politico, come in quello di lavorare la
terra e di avviare le industrie, ecc. Trattandosi di una civiltà assolutamente superiore, quella romanica, man
mano essa emergeva, la divergenza andò sempre più riavvicinandosi.
45
Su questo terreno, parve più volte che la civiltà dei vincitori, benché arretrata e rozza, progredisse e
soverchiasse quell’altra raffinata ma inerte e incapace di reazione. Principi e istituti del mondo barbarico li
troviamo a un tratto assorbiti e diffusi tra la gente italica.
Sappiamo già che alcuni scrittori, anche nostri, hanno intitolato l’alto medioevo, “epoca germanica” o “epoca
barbarica”. Ma una più ponderata considerazione delle cose, ha fatto riflettere che in questi casi, molte volte,
era lo stesso regresso della coscienza giuridica, l’abbassamento del tenore di vita, il livellamento delle classi
sociali, che portava necessariamente a forme più semplici ed elementari, per avventure assai più vicine a
quelle portate dai barbari.
Da una parte, sicuramente, alcuni elementi romanistici entrarono nella cultura giuridica longobarda poiché di
livello ben superiore, ma dall’altra anche non si potè fare a meno di constatare che alcuni principi del diritto
longobardo entrarono nella cultura romanistica. Si attuò così una fusione di elementi che è tutta tipica della
dominazione longobarda in Italia, e che si realizzò molto meno, o quanto meno in modo diverso, con le altre
dominazioni barbariche. Ad esempio, i diritti nella lex romana visigotorum trovano tutela processuale nella
stessa lex romana visigotorum. La differenza sta quindi proprio nell’unico sistema processuale utilizzato
(dell’ordalia e delle compositiones), che determina una tutela dei diritti unica, con la conseguenza che anche
il diritto sostanziale ha più necessità di incontrarsi con l’altro.
Il diritto processuale è uno degli elementi chiave degli ordinamenti giuridici. Anche oggi, quando si discute
della formazione di un diritto comune europeo, uno degli scogli più rilevanti è proprio quello del diritto
processuale internazionale. Un criterio di tutela dei diritti attraverso regole processuali comuni in tutta
Europa non è stato infatti ancora trovato.
Insomma, la questione del diritto processuale trascinava con sé anche quella del diritto sostanziale. Quindi,
noi notiamo delle infiltrazioni reciproche (osmosi), ma col tempo non prevale il diritto romano, ma soprattutto
quello germanico. Il risultato è l’infiltrazione di istituzioni barbariche nel mondo italico. Basta citarne una per
tutte: il Feudo che sopravviverà fino al ‘700, e che ha come sua origine la consuetudine di queste
popolazioni barbariche, di dare un terreno in affidamento a chi era più valoroso in armi, e sul quale nascerà
un ampio diritto e una valenza giuridica di cui avremo modo in seguito di occuparci a fondo.
Tutto questo ci fa capire perchè, a un certo punto della storia di questo primo medioevo barbarico che da più
parti andava dilaniando la coscienza giuridica oltre che culturale della romanità, risorgerà l’idea dell’antico
Impero romano.
Ma accanto alla situazione vista nei territori italici dominati dai longobardi, ci occuperemo poi in quelli dove
l’invasione longobarda non avvenne, e soprattutto del Mezzogiorno d’Italia: Puglia, Calabria, Sicilia,
Sardegna. Perché negli altri territori e, soprattutto nell’Esarcato d’Italia (Ravenna e oltre), c’era il Papa che
teneva sotto controllo la situazione, ma nel resto d’Italia le cose andarono diversamente e tutto ciò,
ovviamente, avvenne contemporaneamente all’insediamento dell’Editto di Rotari.
L’ITALIA BIZANTINA
Parlando di Italia bizantina, ci si riferisce alla esperienza e alle fonti giuridiche che circolavano in
quella parte dell’Italia che, dopo l’invasione dei Longobardi, rimase legata a Bisanzio, perché non
conquistata dai Longobardi. In questa fase compare quindi la divisione dell’Italia in territori dove prosegue
l’esperienza del diritto longobardo e altri dove si sviluppa un’esperienza diversa. Con l’espressione diritto
bizantino ci riferiamo sia al diritto del Corpus Iuris Civilis che a quello post-giustinianeo: tale ultimo implica
un cambiamento di indirizzi nell’Impero romano d’Oriente, che non può non aver influito sui territori rimasti
soggetti all’influenza Imperiale.
In particolare, le cose iniziarono a cambiare ad Oriente già nel momento in cui era ancora al potere
Giustiniano. Egli aveva vietato ogni interpretazione dei testi che aveva raccolto, fatte salve l’interpretazione
strettamente letterale e le allegazioni di passi paralleli. Ciò rispondeva al suo disegno di approntare un corpo
normativo che non avesse bisogno di alcun intervento, e infatti il Corpus, per la sua variegata composizione,
era da considerarsi in tal senso un insieme di grande livello: lo dimostra la lunga vita che ebbe in Occidente.
Tuttavia questo divieto, già ai tempi di Giustiniano, non fu rispettato, perché la legislazione giustinianea (in
lingua latina) in Oriente era percepita come distante dalla gente (che era di lingua greca), con grandi
difficoltà a far funzionare la normativa nell’ambito dell’amministrazione della giustizia. Un altro fattore è
costituito dal fatto che la mentalità giuridica era cambiata rispetto alla massa di diritto raccolta da Giustiniano
(in particolare i Digesta), che affondava le radici in tempi ormai lontani e non rispondeva più alle esigenze
della vita dell’epoca. Già alla fine del VI secolo si avvertiva quindi in Oriente un certo disagio rispetto al corpo
giuridico giustinianeo. Già prima della morte di Giustiniano, si era proceduto ad elaborare dei compendi in
lingua greca che facilitassero l’avvicinamento del divario tra il diritto e la quotidianità. Dopo la sua morte si
sentì l’esigenza di elaborare delle compilazioni in greco, che addirittura eliminavano il diritto che veniva
percepito come ormai superato. 46
Con l’avvicendarsi delle nuove dinastie degli Isaurici e dei Macedoni, vengono introdotte
sostanziali novità (fra il VIII e il IX secolo).
Il contesto: nel 750 in Italia siamo in piena dominazione longobarda e in Francia domina la dinastia
dei Carolingi. Siamo quindi ad un cinquantennio di distanza dalla formazione del Sacro Romano Impero
(formalmente avverrà nell’800). Nell’area dell’Islam le popolazioni arabe premono sia ai confini dell’Impero
d’Oriente, sia di quello che ancora si chiama Impero d’Occidente (gli arabi vengono respinti da Carlo Martello
sui Pirenei proprio in questo periodo). L’Islam è in piena attività, è il suo momento di maggiore splendore
(fino alla caduta degli imperi arabi). Bisogna capire come mai Calasso possa affermare che, dopo
Giustiniano e dopo l’eresia iconoclasta, “Oriente ed Occidente si voltarono le spalle”. Questa emblematica
espressione significa che si andranno a creare modalità di esperienza giuridica talmente diverse, che se ne
vedono gli effetti ancora oggi nelle tensioni tra mondo arabo e mondo occidentale. Siamo in una fase in cui
gli Arabi premono fortemente sull’ex Impero romano. E possiamo parlare di “ex” in quanto in Occidente non
c’è ormai altro che il nome degli antichi fasti, le forze in gioco sono altre (la Chiesa, i barbari, etc), ma anche
l’Oriente sta cambiando: il fatto che l’Occidente si sia slegato dall’Oriente è uno dei fattori che ha
determinato per quest’ultimo una storia diversa: le popolazioni parlano greco, la legislazione non è più
adeguata.
Una delle tappe principali di questa divisione di rotte tra Oriente ed Occidente, con una diversa
evoluzione nella legislazione d’Oriente, è rappresentata da Leone III l’Isaurico, autore della “Ekloge ton
nomon” (= raccolta di leggi). Mentre nel Mezzogiorno d’Italia penetra questa legislazione, non la troviamo
invece in altre zone legate a Bisanzio (es. Ravenna), per l’influenza del Papa che non la vedeva di buon
occhio. Nonostante infatti fossero stati proprio i Papi (Vigilio) ad avere l’iniziativa di chiedere l’invio del
Corpus giustinianeo in Italia (non facendolo però poi circolare), non altrettanto avviene per il diritto post-
giustinianeo, e in particolare per quello di Leone III. Quest’ultimo è l’Imperatore iconoclasta per eccellenza.
Egli aderisce ad una forma di eresia, convocando un concilio all’interno del quale aveva fissato il divieto del
culto delle immagini. Come è evidente, il credo religioso trascina con sé anche le scelte politiche ed è per
questo che la legislazione di Leone penetrerà solo dove l’influenza del Papa è più flebile: nel Mezzogiorno
d’Italia. Teoricamente in tutti i territori italiani sotto l’impero d’Oriente si svolgeva la giurisdizione della
Chiesa, ma la Sicilia e la Calabria erano state sottratte da Leone alla giurisdizione pontificia. Fu un atto di
grande rilievo, un primo segnale di rottura tra il papato e l’Oriente, tanto importante se si pensa che la rottura
tra i due poli sarà in seguito quella che porterà alla formazione del Sacro Romano Impero: quando il Papa
avrà paura che i Longobardi arrivino fino a Roma, invece che all’Impero d’Oriente si rivolgerà ai Franchi. Si
capisce quindi come il succedersi di questa catena di eventi porterà a novità eclatanti nella storia dell’Europa
medievale.
Perché l’iconoclastia è considerata un’eresia? Leone aveva fatto bruciare tutte le immagini sacre e
aveva vietato il culto delle immagini. Se si nega la natura umana di Cristo, si negano anche le immagini che
lo raffigurano come uomo. L’ambito della riflessione ci ricorda l’arianesimo, anche se l’arianesimo negava
piuttosto la natura divina di Cristo (sarà il Concilio di Nicea del 325 ad affermare solennemente la natura
divina di Cristo, attraverso l’approvazione del testo del “Credo” attualmente in uso). Il problema delle due
nature divina e/o umana di Cristo, in quest’epoca, è sentito fortemente, ed è uno dei principali motivi di
dissidio all’interno della Chiesa. Come vediamo, è sempre dall’Oriente che nascono queste eresie.
L’iconoclastia di diffonde quindi in Sicilia e Calabria grazie all’intervento di Leone stesso, e solo
marginalmente a Ravenna (la quale a breve cadrà in mano ai Longobardi, sottraendosi quindi all’influenza
dell’Imperatore d’Oriente). Ancor meno circolerà in quella striscia di terra che dall’Esarcato, attraverso le
Marche, arriva fino a Roma.
Nella legislazione di Leone c’è una forte tendenza ad allontanarsi da Giustiniano, volendolo emulare
solo nella sua grandezza, ma non nei contenuti, che se ne distaccano fortemente. Anche questo contribuisce
quindi ad allontanare progressivamente Oriente ed Occidente.
Per comprendere la questione dell’iconoclastia e il clima nel quale si sviluppa, leggiamo una pagina
(ndr: autore?):
Leone si schierò dalla parte dei negatori dell’umanità di Cristo e quindi contro le immagini, dando il
via alla distruzione delle stesse e quindi all’iconoclastia. Dapprima, nel 726, con atteggiamenti verbali
cominciò a parlare contro le immagini, poi nel 730 con un editto”.
Vediamo in azione la concezione cesaropapista: la religione dell’Imperatore è uno strumento della
sua politica e della sua azione temporale e spirituale.
La decisione gli costò gravi dissidi interni e un ulteriore frattura con l’Occidente cattolico. Ma era il
prezzo che egli aveva deciso di pagare per garantirsi il collegamento con i potenti strati della società
orientale.
L’aristocrazia orientale seguiva questo tipo di credo e quindi questo suo agire gliene garantiva
l’appoggio. 47
Sulla stessa strada, quasi con ferocia, procedette anche suo figlio Costantino V, succedutogli al
trono nel 741. Combattere contro i cattolici, interni ed esterni, era per l’Imperatore come combattere contro i
Bulgari o contro i Musulmani, ossia contro forze estranee alla vera fisionomia dell’Impero, che doveva
essere orientale, greco-asiatica, come volevano la nobiltà e la borghesia cittadina.
L’Impero non trovava più nell’unico credo una base di appoggio, come era stato all’epoca del
paganesimo o come era in Occidente, dove l’azione della Chiesa cattolica, attraverso la conversione,
riusciva a conformare l’esperienza giuridica delle diverse culture. In questo periodo, c’è in Oriente l’esigenza
di rivendicare una propria identità, anche contro il vecchio complesso normativo romanistico, che era di
stampo occidentale. Giustiniano lo aveva trasportato in Oriente, ma la legislazione non si impone dall’alto.
Dopo Giustiniano, il castello crolla e l’Oriente rivendica una propria identità, ricerca la legislazione in greco e
le consuetudini orientali. Dovendo ottenere l’appoggio dell’aristocrazia locale, gli Imperatori seguono anche
l’eresia iconoclasta, unico elemento su cui si può fondare una base comune, facendone un personale
trampolino di lancio (e usando addirittura lo strumento dell’editto).
E non mancò di avere successi. Le stesse gerarchie ecclesiastiche non poterono far altro che
abbracciare il nuovo corso, volenti o nolenti. Al concilio convocato dall’Imperatore nel 754 per sancire la
dottrina iconoclasta parteciparono non meno di 338 vescov,i concordi e osannanti.
E’ quasi un nuovo scisma per la Chiesa, dopo quello dei Tre Capitoli.
A tal punto la presenza araba aveva tanto condizionato Bisanzio da fargli perdere la sua anima
romana, mediterranea, cattolica, da fargli rompere ogni contatto con l’Occidente, da ridurlo ad una
dimensione esclusivamente orientale, greca, asiatica, monofisita, quella sostenuta dalla nobiltà della
periferia.
Ciò mette bene in evidenza come si presenta la compagine Oriente/Occidente alla metà dell’VIII
secolo. Siamo intorno al 750: entro circa 50 anni avverrà il fatto decisivo che separerà in modo definitivo le
due entità, la Renovatio Imperii, la rinascita del Sacro Romano Impero. In Oriente ci saranno ancora episodi
che faranno riferimento a Giustiniano (i Basilici, vedi oltre), ma in questo momento osserviamo un inasprirsi
dei rapporti, dovuto al fatto che l’impero d’Oriente rivendica la propria orientalità e ciò incide anche sulle
scelte di adesione alla dottrina monofisita (da cui deriva l’iconoclastia). E’ evidente che, se fin dall’inizio la
Chiesa aveva cercato di mantenere buoni legami con Bisanzio (soprattutto per timore delle calate dei Goti e
dei Longobardi), in questa fase il Papa naturalmente non può acconsentire all’adesione alle nuove eresie e
si interrompe quindi quella politica filo-orientale del Papato.
La legislazione di Leone III non è l’unica in questo periodo. Troviamo applicate nel Mezzogiorno
d’Italia altre tre leggine:
- una legge militare;
- una legge navale (Lex Rodia), che riprende il nome dalla Lex Rodia precedente, ma con la novità che
aggiunge tutte le consuetudini riferibili agli scambi commerciali navali, molto importante perché è una sorta
di codice di diritto commerciale navale;
- una legge agraria, che raccoglieva soprattutto consuetudini di diritto privato e penale e teneva in
considerazione la nuova proprietà fondiaria che si andava all’epoca consolidando.
Bisogna considerare che, dietro la spinta delle invasioni dei Persiani in Oriente, grandi masse si
erano spostate a vivere in Sicilia e Calabria, e questo spiega la presenza in queste regioni di una
legislazione post-giustinianea (Leone III e le tre leggine).
Dopo la legislazione di Leone l’Isaurico (Egloga) e le tre leggine appena viste, un’altra tappa
fondamentale è rappresentata dalla legislazione di Leone il Saggio, con il Manuale delle leggi. Siamo
ormai alla metà del IX secolo, a circa un secolo di distanza dall’Egloga. Si tratta di un manualetto, anche se
l’intento iniziale era ben più ambizioso: si voleva approntare un corpo normativo che aggiornasse la
legislazione vigente, imitando la grande opera normativa di Giustiniano. In questa fase si osserva comunque
nella legislazione un affievolirsi dei toni aspri tipici dell’Egloga, con un ritorno a Giustiniano.
L’opera normativa di Leone il Saggio, che in realtà si concluse con questo Manuale, fu portata a
termine dal suo successore Basilio I, il quale riuscì ad apprestare un’opera in 60 libri conosciuti come
Basilici (da basileus=re).
Per quanto concerne il significato che rivestì la legislazione post-giustinianea nei territori italiani
rimasti legati a Bizanzio, la storiografia si è divisa:
- inizialmente veniva intravista una opposizione netta tra le regioni conquistate dai Longobardi e l’Italia
bizantina: nei territori “longobardi” vigeva il principio della personalità del diritto e quindi si era mantenuta in
vita la tradizione romanistica “volgarizzata”, con infiltrazioni del diritto giustinianeo, mentre nei territori
bizantini non vigeva il principio della personalità del diritto;
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- la storiografia più recente ha in parte smentito tale lettura, anche grazie al ritrovamento di documenti
dai quali risulta che in realtà, anche nei territori del Mezzogiorno legati a Bisanzio, si facevano le c.d.
professiones iuris, dichiarazioni nelle quali il soggetto dichiarava a quale diritto si sarebbe attenuto nel corso
della sua vita. E ciò dimostrerebbe che anche nel Mezzogiorno vigeva in parte il principio della personalità
del diritto. Pensiamo al fatto che si sono ritrovate nel Mezzogiorno delle traduzioni in greco dell’Editto di
Rotari, a significare che l’esperienza giuridica era là molto variegata. Contava molto la consuetudine, che
andava a coprire con un velo di uniformità l’asperità dei rapporti tra persone di culture diverse. Convivevano
romani, profughi greci, genti di origine longobarda (basti pensare ai ducati longobardi di Spoleto e
Benevento, che infatti non caddero neppure dopo la Renovatio Imperii). Non è quindi possibile tracciare un
quadro schematico del diritto del Mezzogiorno d’Italia, con riferimento alla diffusione del principio della
personalità del diritto. Ed è proprio la consuetudine che aiuta ad armonizzare la situazione, fondendo
elementi e culture molto diverse. Tale molteplicità di culture ci permette di comprendere come abbiano
potuto convivere il principio della personalità del diritto, l’Egloga, l’editto di Rotari, etc.
La storiografia più datata(quindi anche Calasso) sottolinea l'assoluta rottura nell'esperienza giuridica tra
territori conquistati dai Longobardi e i territori rimasti fedeli a Bisanzio:
“Il contatto di codesti territori, anche di quelli che mantenevano una suggestione puramente esteriore col
massimo centro della civiltà orientale, contribuì dunque non solo a mantenervi una vita più intensa, che in
particolar modo le città marinare cone Napoli, Amalfi, Venezia e Bari seppero meravigliosamente svolgere,
ma a separarne le sorti nel campo del diritto da tutto il resto d'Italia, soggiaciuto al dominio longobardo”.
Quello con Bisanzio era una legame talora puramente esteriore: l'Oriente era lontano, seguiva una strada
tutta sua in quel processo di orientalizzazione dell'Impero che ieri accennavamo.
“Mentre i territori invasi dai barbari dovettero subire malgrado tutte le resistenze una inevitabile
germanizzazione della loro vita giuridica, per le vie ed entro i limiti di cui presto diremo, le regioni rimaste in
qualche modo legate a Bisanzio sentirono invece in piccola parte, frammentariamente e solo di riflesso,
l'influenza germanica. Queste regioni dunque furono le sole in tutta Italia che poterono mantenere
relativamente genuina la tradizione romana, sia pure attraverso il filtro della civiltà bizantina”.
Quasi si contraddice il Calasso con quel “relativamente”. Dice e non dice, che vuol dire? E che vuol dire con
“attraverso il filtro della civiltà bizantina”?
Anche perchè con l'Ecloga di Leone l'Isaurico la civiltà bizantina percorre un'esperienza diversa da quella
giustinianea, ispirandosi a principi diversi rispetto a quelli che reggevano il Corpus Iuris.
La storiografia più recente sottolinea invece come la tradizione romana fosse rimasta in vita anche nei
territori longobardizzati, grazie all'applicazione del principio della personalità del diritto. Si dibatte ancora
sulla effettiva operatività di questo principio, ad ogni modo c'è un punto fermo, e cioè che sicuramente venne
applicato nel primo periodo della dominazione longobarda. Per il resto l'opinione più accreditata è che dopo il
primo periodo quando questo principio non venne più applicato perchè man mano il dritto andava
territorializzandosi e le popolazioni fondendosi. Tuttavia nella fusione noi ritroviamo comunque l'influenza del
diritto romano, nel senso che non si rinviene una prevalenza netta del diritto longobardo.
Quindi non è proprio corretto dire che il diritto romano sopravvive solo nelle regioni soggette a Bisanzio, e
vedremo che neppure è corretta la tesi che vuole le regioni legate all'Oriente come prive di infiltrazioni del
diritto longobardo. Circolano infatti delle traduzioni in greco dell'Editto di Rotari. Ci furono degli scambi tra le
popolazioni romane e longobarde.
Quanto poi alla genuinità della tradizione romana mantenutasi nei territori legati a Bisanzio, è d'obbligo porsi
la domanda: di quale diritto romano stiamo parlando? Perchè il diritto studiato e mantenuto in vita dai
Bizantini è soprattutto quello della legislazione post-giustinianea(Ecloga di Leone l'Isaurico...). Certamente in
questi territori si manteneva in vita l'idea del diritto romano più di come questa era mantenuta nelle regioni
longobardizzate, ma comunque siamo lontani dal diritto giustinianeo.
Questa distinzione netta tra i due mondi longobardo e bizantino va insomma presa con le pinze e affrontata
criticamente alla luce delle nuove scoperte della storiografia.
Un'altra pagina del Calasso, forse dimenticata, è invece più condivisibile:
“Più grande ancora ci apparirà il valore di quel persistente legme tra l'Italia e l'impero d'Oriente se
guardiamo, più largo del mondo del diritto, a tutta la civiltà occidentale”.
Tra il IX e il X sec. Proprio queste terre dell'Itala meridionale fedeli a Bisanzio erano al centro del pauroso
dramma che questa civiltà viveva, quando l'Islam, impadronitosi rapidamente della Sicilia, puntò verso la
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penisola, a fare da trapolino per lassalto al cuore dell'Europa. Sarebbe stato il tracollo della civiltà romana
cristiana.
“Se questa civiltà fu salva, ciò fu dovuto in via principalissima a quel legame con l'Oriente, perchè quel
legame costrinse l'impero d'Oriente a scendere in campo col peso delle sue forze per proteggere l'Italia da
quella minaccia, che se non fosse stata arginata e fiaccata, avrebbe cambiato il corso della storia del mondo
civile”.
Importante battaglia di Garigliano, nel 915. Il prestigio bizantino cresce, raggiungendo il suo apogeo sui primi
decenni del secolo XI. Si rivela allora il vero bilancio attivo della vittoria:
“l'accostamento spirituale delle popolazioni meridionali resta e si accentua, rendendo possibile in breve
volger di tempo quella massiccia compagine unitaria che sarà poi alla creazione normanna del Regnum
Siciliae altrimenti inspiegabile. E rivela il segreto di questa meravigliosa creazione, in quanto i Normanni
saranno costretti e pronti a prendere per il giovane stato l'ossatura dell'amministrazione bizantina”.
Quindi se da un lato l'intervento imperiale scongiura l'invasione islamica, dall'altro porta alla formazione di
una forza culturale coesa che pone le basi di quello che sarà poi il Regno di Sicilia instaurato dai Normanni
su modello bizantino.
Capiamo allora come la differenza tra i territori rimasti legati all'Oriente e quelli longobardizzati non sia tanto
da ricercare nel fatto che il diritto romano si mantiene in vita nei territori bizantini e non in quelli
longobardizzati, ma sta nella diversa concezione del potere, della sovranità, della gestione del regno che è
quella del modello bizantino nel Mezzogiorno d'Italia, e che invece sarà ancora di stampo germanico nei
territori longobardizzati.
Infatti anche quando cadrà il regno longobardo saranno i Franchi a sostituirsi a questi, e i Franchi sono
sempre popolazioni di stirpe germanica. Il modello di gestione del potere finirà quindi per essere quello
romano cristianizzato misto a quello germanico, mentre nel Mezzogiorno sarà il modello bizantino, ed è una
differenza che ci spiega con maggiore profondità la differente cultura tra Nord e Sud.
Finora ci siamo occupati di:
7. Tardo-antico
8. Formazione dei regni barbarici in Occidente
9. Distacco sempre più evidente tra Occidente e Oriente dovuto:
1. IN OCCIDENTE: da un lato dalla presenza delle popolazioni germaniche, dall'altro
dalla presenza della Chiesa.
2. IN ORIENTE: esigenza di una legislazione più vicina alle esigenze della popolazione
orientale, che induce un progressivo allontanamento dal Corpus Iuris giustinianeo.
Breve specchietto cronologico:
VI sec:
11 Oriente→ Giustiniano
11 Occidente→ Legislazioni barbariche
VII sec:
Oriente→Periodo post-giustinianeo senza particolari cambiamenti
Occidente→Leone Magno
VIII sec:
11 Oriente→ legislazione degli Isaurici e dei Macedoni
Occidente
11 1. In Italia →Longobardi e territori bizantini
2. Fuori dall'Italia →Graduale emergere di Capetingi e Carolingi
Ci avviamo ora a considerare l'evolversi del IX sec, parlando di come nasce e che caratteristiche ha l'impero
carolingio.
Siamo abituati a pensare la notte di Natale dell'800 come un fatto storico, ma in realtà la storiografia di oggi
non è così sicura che quei fatti siano effettivamente avvenuti in quell'anno. Molto si è ricamato su
quell'incoronazione: in verità i fatti furono ben più casuali. Fu la storiografia del momento a costruire su
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quell'incoronazione principi, svolte...ma in realtà i fatti andarono in maniera più povera. Per renderci
maggiormente conto di tutto ciò è utile affrontare la figura di Carlo Magno:
“Non fu capace di plasmare un'epoca, ma dette un'immagine altamente significativa di quellepoca. Eginardo,
scrivendo la sua Vita Caroli, ne fissa bene il rtitratto e balza così agli occhi un individuo di statura
gigantesca, quasi due metri, dalle membra possenti, amante della buona tavola senz'essere intemperante,
dal carattere focoso ed energico, dalla mentalità esuberante e grossolana, ma tenace, scaltro, curioso di
tutto, con il bisogno di stare sempre sulla scena, di essere ascoltato ed ammirato, di far sempre da
dominatore. Tutto, anche le questioni più minute, voleva seguire di persona. Non c'era materia in cui non
volesse giudicare: commentava ad esempio con un “Bene!” o con un “Optime!” testi di Ambrogio e di
Agostino che gli venivano letti”
Da questo estratto capiamo come Carlo si presentasse al popolo alla stregua di un individuo di massimo
rilievo, di grandi capcità, di grande forza.
“Nellavita privata, Carlo era in tutto figlio della tradizione barbarica: amava comportarsi da capo dispotico
della sua Sippe(la famiglia)”.
Da tutte queste caratteristiche del suo modo di porsi capiamo anche il tipo di governo che poi Carlo esercita
sui suoi sudditi. Dal lato strettamente giuridico poi questo ci mostrerà la natura del potere esercitato in
Occidente e la sua grande diversità da quelle che è invece la concezione orientale.
“Non c'era materia in cui non volesse giudicare”: questa frase ci fa capire il modo che Carlo aveva di porsi
nei confronti della Chiesa Cattolica.
All'atto pratico il modo di comportarsi degli imperatori d'Oriente e di questi che si apprestano ad essere gli
imperatori d'Occidente, è lo stesso: sia gli uni sia gli altri intervengono(anche legislativamente) in materia di
fede.
In realtà però le due concezioni del potere sono radicalmente diverse: in Oriente l’imperatore è anche capo
spirituale oltre che temporale(ricordiamo la concezione cesaropapista!), mentre in Occidente il
comportamento dei re(prima) e degli imperatori(poi) rientra in quella concezione del re come capo militare
che è tipica delle popolazioni germaniche. Presso i popoli di ceppo germanico in quanto capo militare il re
può disporre di tutto, e quindi l’imperatore si fa protettore della Chiesa in ragione della sua pienezza dei
poteri, non in ragione di una sua potestà spirituale. Questa è la ragione della dualità tipica dell’Occidente. In
Oriente non c’era spazio per un papa, in Occidente sì.
Concezione germanica Vs Concezione cesaropapista.
“Con i figli maschi fu duro, quasi li schiacciò con la sua personalità. Non a caso Pipino gli si ribellò, e
Ludovico il Pio, l’unico che gli sopravvisse, ebbe più l’animo del monaco che del capo politico. Con le
femmine invece fu tenero, indulgente e possessivo. Le volle sempre con sé, le caricò di regali, permettè che
amoreggiassero a corte piuttosto che darle in spose a qualche principe straniero. Lo stesso atteggiamento
invadente e possessivo, Carlo Magno dimostrò nell’esercizio del potere(concezione patrimoniale del potere).
Sembra non avesse nulla dell’imperatore maestoso e ierocratico che resta segregato da ministri e cortigiani
come una divinità inaccessibile. Al contrario, amava la compagnia e detestava di star solo.Voleva gente e
movimento intorno a se, sia che trattasse affari politici con il suo ristretto gruppo di collaboratori, sia che
intendesse svagarsi con banchetti, cacce e spettacoli. Governava l’impero con lo stesso piglio prepotente e
insieme gioviale con cui governava la propria famiglia”.
Vedeva L’Impero come una famiglia più grande, di cui lui era il capofamiglia.
“La prepotenza di Carlo magno si attenuava o addirittura spariva quando c’era di mezzo la religione. Era un
credente fortemente preoccupato per la propria salvezza e faceva di tutto per conseguirla. Possedeva e
venerava una ricca raccolta di reliquie, anche se combatteva pubblicamente le superstizioni. Dava il
significato di un pellegrinaggio religioso ai suoi viaggi a Roma. Chiedeva al papa di pregare per lui e anzi
strinse con Adriano I un pactum paternitatis con il quale egli entrava a far parte della familia dei santi.
Costruì chiese, ne frequentò di continuo, si circondò di ecclesiastici che voleva integerrimi.”
Ossequio nei confronti di un’autorità spirituale che egli riconosce.
“Carlo Magno era anzitutto imperatore, quindi capo della cristianità”.
Cosa significa questa frase? Significa che l’imperatore si sentiva “Episcopus episcoporum”, sorvegliante dei
sorveglianti. La Chiesa era sotto la sua ala protettiva, sotto la sua salvaguardia.
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Dio all’epoca era visto come un monarca severo e terribile, che sedeva in un grande palazzo come in una
rocca inaccessibile, circondato da angeli nella sua maestà splendente di sommo giudice. Cristo era visto
come il Risorto, non come il Crocifisso.
L’imperatore è il santo mediatore tra Dio e gli uomini, il giudice pio e terribile, il modello da temere prima che
da amare. E Carlo si investì in pieno di questo ruolo eccezionale.
Egli scrive a papa Leone III:
“Questo è il nostro compito, aiutati dalla divina pietà dobbiamo difendere ovunque la santa chiesa di Crist.
All’esterno con le armi, contro gli assalti dei pagani e le devastazioni degli infedeli. All’interno dobbiamo
consolidarla diffondendo la conoscenza della dottrina cattolica. Altro è il vostro compito, o beatissimo padre.
Proteggere i nostri eserciti tenendo levate come Mosè le braccia sicchè con la vostra intercessione il popolo
cristiano, guidato da Dio e quasi suo dono, riporti sempre e ovunque la vittoria contro i nemici nel Suo
nome”.
Non è il modello del “Vicario di Dio” in terra come è quello dell’imperatore orientale, ma piuttosto il “Vicario di
Cristo”. Si pone al pari dei pontefici, ma con un significato diverso: l’imperatore non succedeva a Pietro, ma
esercitava funzioni simili a quelle del Vicario di Pietro. E’ difensore della Chiesa. Da qui nasce un rapporto
dialettico tra imperatore e papa che è l’applicazione del principio gelasiano.
Tutto questo si riversa sulle fonti del diritto, perché vedremo come i capitolari carolingi in azione anche in
materie religiose. Alcuni funzionari dell’imperatore saranno degli ecclesiastici. Vedremo di nuovo
l’episcopalis audientia svolta da ecclesiastici. Ma al tempo stesso vediamo come Carlo Magno si appoggi
anche sul favore della Chiesa per avere il benestare per allargare i propri possedimenti, le proprie conquiste
e il proprio potere.
“Carlo Magno era del resto quasi costretto a dare un contenuto fortemente religioso alla sua funzione
imperiale. Solo la missione religiosa poteva legittimare il suo potere su più popoli. Solo in veste di padre e di
capo di tutti i credenti poteva pretendere obbedienza e fedeltà”.
Ancora una volta la religione si rivela il collante dei popoli e si pone a fondamento del potere. E' questa la
ragione per cui poi per tutto il medioevo si assiste alla lotta tra i due poteri.
“Solo in quanto titolare della civitas Dei in lotta perenne con la civitas diaboli poteva sperare che tante genti
diverse si riconoscessero in lui. Egli non era imperatore per diritto dinastico, né per potenza di famiglia né
per decisione di un'assemblea di grandi o di un esercito di liberi, ma per scelta e volontà di Dio”.
Questo è il messaggio che Carlo Magno vuole mandare. In questo senso è “Vicario di Dio” e non di Pietro. E
questo lo distingue tanto dal papa(che era il successore di Pietro) quanto dall'imperatore d'Oriente(che era
dominus et deus). Il suo potere è voluto da Dio e lui lo impersona in qualità di difensore della
cristianità(Episcopus episcoporum).
Naturalmente queste non sono etichette che si appiccicano ma diverse concezioni del potere.
Precisazione dei termini Vicario di Dio, Vicario di Cristo, Epsicopus episcoporum, ecc.: i termini
Vicario di Dio e Vicario di Cristo sono stati trattati parlando del pontificato di Papa Gesasio I, e precisamente
quando alla fine del V sec., Gelasio sale al soglio pontificio, grazie a Giustiniano. Abbiamo anche visto, già
con Papa Siricio nel IV sec., soprattutto con Papa Gelasio e dopo di lui con Papa Gregorio Magno, che si era
sviluppata sulla figura del pontefice Vicario di Cristo, in quanto successore di Pietro (che fu investito
direttamente da Cristo), la teoria del potere ecclesiastico cioè della potestas legandi et solvendi e quindi
della plenitudo potestatis, cioè, della pienezza dei poteri universali del Pontefice.
Ma il termine di Vicario di Cristo ha avuto anche lo scopo di contrapporre la figura del Pontefice a quella
dell’Imperatore. Infatti gli imperatori venivano incoronati come Vicari di Dio ed erano, nella tipica concezione
cesaro-papista orientale, onorati come Dei in Terra, cioè come un Dio presente (Deus presens). Erano
infatti circondati da quell’alone di ierocrazia (potere politico basato sulla classe sacerdotale). In quanto tale,
l’Imperatore era capo assoluto, cioè, sia del potere spirituale che di quello temporale.
Gelasio si opponeva quindi alla figura dell’Imperatore Vicario di Dio, contrapponendo quella del Papa Vicario
di Cristo. Attraverso il Cristo che affida il suo officium, prima a Pietro e poi ai suoi successori, il Pontefice si
avvia egli a divenire capo assoluto del potere spirituale, in dialogo diretto con l’altro massimo potere
assoluto, quello dell’Imperatore. 52
Se adesso effettuiamo un salto di due secoli e ci riferiamo all’Occidente, troviamo un diverso significato,
tanto che la storiografia, riferendosi a Carlo Magno, ha parlato di un “clima costantiniano”, per definire i
rapporti tra Impero e Chiesa, sottolineando con esso il rapporto di collaborazione instauratosi e che si
manifestava negli interventi di carattere legislativo operati da Carlo Magno in materie che riguardano
l’ordinamento della Chiesa.
Ma non si deve scambiare questa nuova azione dell’Imperatore Carlo, col cesaro-papismo orientale. Per
Carlo Magno, Vicario di Dio significa che il suo potere imperiale deriva da Dio, in quanto voluto da Dio. Non
si tratta quindi del Deus presens, ma del criterio di giustificazione del suo potere imperiale, e ciò era
indispensabile considerando che Carlo era un barbaro, un imperatore che veniva da una stirpe germanica
che non si sarebbe potuta fare accettare dall’intero occidente cristiano se non si fosse presentato come un
Imperatore legittimo. E la legittimità e la riscoperta della figura imperiale in Occidente, si fonda proprio su
questa teorica della derivazione del potere da Dio. Ovviamente, come vedremo oggi c’erano forti interessi
anche per la Chiesa nell’incoronazione di Carlo come Imperatore, poiché ciò significava la rinascita
dell’Impero Cristiano d’Occidente, in cui la Chiesa trova un ruolo di primo rilievo e di dialettica paritaria con
l’Imperatore, una dialettica che con gli Imperatori d’Oriente si era andata vieppiù logorando fino ad
interrompersi in seguito dell’eresia dell’iconoclastia.
Il termine Epsicopus episcoporum, torna poi nuovamente in circolazione venendo riferito all’Imperatore, e
non a Gelasio , Vicario di Cristo . Ma qui ci si vuole riferire a quella natura germanica, della concezione del
potere, che si innesta sulla concezione provvidenziale cristiana del potere. Cioè: il potere derivava da Dio, e
quindi Carlo si poteva legittimamente presentare come Imperatore verso tutti i regni cristiani ma, in quanto
Imperatore, incarnava ancora la figura del capo militare, che abbiamo visto essere assolutamente tipica delle
popolazioni barbariche. In quanto capo assoluto e capo militare, l’imperatore sorveglia su tutti, compresa la
Chiesa. Egli è il garante dell’ordine dell’Impero. Per tale motivo si giustifica la formula Epsicopus
episcoporum che, quindi, nulla c’entra con la cattedra dell’eredità di Pietro.
Tutto ciò ci permette di respingere quella tesi, che pur presente in una certa storiografia, ma errata, della
legittimazione del potere imperiale di Carlo Magno, come un fenomeno di cesaro-papismo. Si tratta quindi di
due concezioni della legittimazione del potere nettamente diverse nell’origine, ancorché entrambe portano
l’Imperatore a ingerirsi negli affari della Chiesa.
L’importanza di tale distinzione è fondamentale per comprendere che, mentre in Occidente si manterrà da lì
a sempre il dualismo Papa-Imperatore, caratterizzando con ciò le radici cristiane dell’Europa, la stessa cosa
non avviene in Oriente. Ecco perché, come afferma Calasso, Occidente e Oriente dopo la questione della
iconoclastia, cominciarono a voltarsi le spalle. Infatti l’iconoclastia è stata l’ennesima dimostrazione di una
concezione cesaro-papista del potere che non lasciava spazio ai pontefici, mentre in Occidente, per quanto il
potere temporale si ingerisca negli affari della Chiesa, lascia ad essa un suo spazio. Infatti tali ingerenza, in
fondo, non significò altro che trasformare le norme della Chiesa in norme dell’Impero: la Chiesa organizzata
si riuniva e formulava i canoni conciliari, e l’imperatore prendeva quei canoni conciliari e li trasformava in
leggi per tutto l’impero.
In questo riecheggia il clima costantiniano dei rapporti tra Stato e Chiesa che, tuttavia, in Oriente si era già
esaurito e sostituito col cesaro-papismo sempre più forte di Giustiniano e dei suoi successori, mentre in
Occidente rimarrà caratterizzato dal quel dualismo pensato da Papa Gelasio del “Duo sunt quippe,
imperator auguste, quibus principaliter mundus hic regitur, auctoritas sacrata pontificum et regalis
potestas.
Chiusa questa parentesi, andiamo ora a vedere come effettivamente andarono i fatti che portarono
all’Incoronazione di Carlo Magno. Eravamo rimasti alla situazione che vedeva i Longobardi premere ai
confini di tutti i territori italici rimasti in mano a Bisanzio e soprattutto ai confini di Roma, mettendo a dura
prova la sopravvivenza per i Pontefici.
Infatti, la particolarità del regno dei longobardi rispetto alle altre popolazioni germaniche precedenti romano-
barbariche è stato quello di mantenere un potere pubblico assai diverso e più forte. Con ciò ci si riferisce al
momento processuale, momento cruciale della tutela dei diritti: mentre negli altri regni barbarici, in base
all’applicazione del principio della personalità del diritto, ogni popolazione vedeva tutelato il proprio diritto con
i propri sistemi processuali (come ad esempio avvenne coi Goti con l’applicazione della lex romana
visigothorum, dove tutto il primo libro, derivato dal Codice Teodosiano, è dedicato al processo), con i
Longobardi ciò non avviene.
La legge personale dei Romani, nel momento in cui c’era la lite, avveniva con il rozzo schema germanico
che, basato perlopiù su formalismi come l’ordalia, del giudizio di Dio, del duello, ecc., era assolutamente
inadatto e andava a frustrare il diritto romano che, seppure nella forma volgare, era comunque molto più
complesso e avanzato di quello longobardo, che riguardava perlopiù composizioni di reati (pena pecuniaria
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in luogo della faida), basato sulla tradizione orale che poi con l’Editto di Rotari viene messo per iscritto. Solo
più tardi, con l’Editto di Liutprando, vi sarà una maggiore integrazione tra diritto longobardo e quello romano,
ma il diritto processuale resterà comunque sempre quello tipico longobardo.
Si deve ben riflettere sull’importanza del ruolo svolto dal diritto processuale privato che, per definizione,
tuttora rientra nella branca del diritto pubblico, in quanto pur essendo un’applicazione del diritto privato,
diventa manifestazione del potere pubblico.
Insomma, il Papa rischiava di soccombere rispetto al potere forte dei longobardi che premeva su Roma.
D’altra parte, in questo momento storico, siamo nel pieno della lotta iconoclasta: l’Ecloga di Leone l’Isaurico
avviene intorno al 750 (e il regno longobardo cadrà nel 774). La Chiesa non era quindi affatto in buoni
rapporti con Bisanzio: Bisanzio aveva addirittura sottratto al Papa la giurisdizione ecclesiastica nei territori
della Sicilia e della Calabria.
Quando la minaccia dei longobardi verso il Papa fu insopportabile, questo, invece di rivolgersi a Bisanzio,
come i Papi avevano fatto sempre (si pensi a Papa Vigilio che per difendersi dai Goti aveva sollecitato la
Pragmatica Sanctio da Giustiniano e con la quale si ribadì la vigenza – formale – nel territorio italico del
Corpus iuris e che permetteva alla Chiesa e all’aristocrazia romana di riprendersi tutto quello che i Goti
avevano loro sottratto) questa volta si rivolge ai Carolingi.
Un primo tentativo avvenne con Carlo Martello che, tuttavia, non accolse con favore la richiesta. Il Papa
Leone III riesce però a convincere i Carolingi a scendere in campo, quando si afferma la figura di Carlo
Magno, il quale intravede nella richiesta del Papa la possibilità di espandere il proprio potere. E così infatti
accadde: Carlo Magno scese in campo e i Franchi nel 774 sconfissero i Longobardi.
Ma sorgeva un altro problema per la Chiesa: quello di gestire una nuova dominazione, questa volta, quella
dei Franchi. Ma anche l’espansione di Carlo Magno in un territorio così ampio e con una popolazione così
vasta, necessitava di una legittimazione. I Longobardi si erano ormai tutti convertiti nel cristianesimo.
La Religione, ancora una volta, attraverso la legittimazione del conquistatore (così come in passato è
avvenuto con la conversione di Clodoveo), diventa un punto di forza per la coesione dello strato sociale.
Carlo Magno comprende l’importanza per il suo potere di venire incoronato dalla Chiesa e il Papa con tale
operazione mantiene una posizione di rilievo, inserendosi nel processo di legittimazione del potere rispetto
alla popolazione. Inoltre, all’Imperatore Romano d’Oriente poteva finalmente contrapporsi un nuovo
Imperatore d’Occidente.
Così oggi siamo in grado di leggere l’incoronazione di Carlo Magno. Tuttavia, sul momento, le cose non
erano così chiare e il Papa dovette un po’ forzare le cose “quella corona dovette un po’ buttargliela in capo a
Carlo” perché solo col tempo Carlo capì l’importanza di quell’avvenimento, ma anche i risvolti negativi,
segnando l’inizio di una rapporto molto duro tra il potere spirituale e quello temporale.
Vediamo ora come, dalla sconfitta dei Longobardi del 774 si arriva all’incoronazione di Carlo Magno, nella
notte di Natale dell’anno 800, si badi, non come Re, ma come Imperatore di tutto l’Occidente cristiano.
Alcuino di York, monaco inglese chiamato alla corte di Carlo Magno e suo precettore, così gli scrive: ipsa
caput mundi spectat te Roma patronus → Roma, capitale del Mondo, spetta a te. Vi è quasi un incitamento
per Carlo ad avvicinarsi ed entrare in dialogo con il Papa e la Chiesa. Tre sono le dignità più alte in tutta la
Terra: il Vicario di Cristo (in quel momento però in crisi), l’Imperatore di Bisanzio (ma era stato deposto in
modo infame e sostituto dalla madre Irene che in Oriente portò a grandi novità nella gestione dell’Impero e
del mondo giuridico) e infine ci sei tu Carlo che, per volere di Dio (Vicarius dei), sei destinato ad essere il
rettore del popolo cristiano e ad eccellere su ogni altra dignità.
Calasso commenta: in questi anni agitatissimi Carlo apparve a tutti, come lo salutò il suo maestro (Alcuino),
vindex scelerum, rector errantum, exaltatio bonorum (rettore di quanti sono erranti, esaltatore della bontà,
ecc.) colui che, insomma, incarnava l’idea della cristiana del potere: di quel potere provvidenziale per il
raggiungimento di tutto ciò che è buono ed equo, cioè del principio di giustizia, del potere pubblico imperiale
e di quello privato, volto alle soluzioni delle controversie dei singoli.
In quegli anni di grande confusione, Carlo Magno è quello dotato di maggiore probabilità di successo, quello
in cui si ripone la fiducia per ricostruire un Occidente più ordinato, dove ciascun popolo possa trovare una
propria pacifica collocazione. Questo, significò che il Papato era nelle mani dei Re Franchi.
Il regno carolingio, cresciuto grazie all’investitura e all’appoggio del papato era così giunto ad una posizione
di dominio sull’Europa, ma ora che inglobava lo stesso papato, lo riduceva ad anello della propria potenza.
Questo era quindi il punto da risolvere: come gestire questo nuovo rapporto con i nuovi dominatori. Nel 799,
Carlo si vide giungere in Francia, umiliato e fuggiasco in seguito ad una rivolta di avversari interni, Papa
Leone III (c’era stato questo tentativo di rapimento). Lo accolse con tutti gli onori, e poi lo fece ritornare a
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Roma sotto scorta armata e con largo corteggio di prelati. I Romani non lo volevano. Il Papa è in una
situazione di grande difficoltà. E allora venne Carlo in persona a convincerli. In sua presenza e
pubblicamente Leone III, che in quanto Papa non poteva essere giudicato da nessuno, dichiarò di non
essere colpevole. In questo contesto, apparentemente poco significativo, maturò una singolare invenzione
politica.
L’incoronazione di Carlo Magno fu infatti sostanzialmente una invenzione politica: si trattò infatti di una
strategia politica per sistemare i rapporti tra il Papa e il nuovo Dominatore franco. Alcuni giorni dopo la
discolpa pubblica del Papa, Carlo, il suo seguito, lo stesso Leone III, ecclesiastici, aristocratici, popolo
romano, si trovarono in S. Pietro per celebrare il Natale del Signore, era l’anno 800. Ad un certo punto della
cerimonia, una fonte raccontò che quando finita la Messa Carlo stava per uscire dalla chiesa, Leone III
prese una corona e la mise sul capo del Re dei Franchi, mentre la folla gridava tre volte: accarum piissimo
augusto, coronato da Dio grande pacifico imperatore, vita e vittoria.
I fatti, quindi, in realtà andarono molto più semplicemente e meno ierocraticamente di quanto narra la
leggenda, e di come viene raffigurato nel famoso dipinto custodito nei Musei vaticani (l’Imperatore
inginocchiato davanti al Papa).
È quindi il Papa che forza un po’ le cose e, facendo leva su questa immagine che ormai Carlo si era
procurato, trova questa idea dell’Imperatore voluto da Dio, per rivendicare l’origine di quel potere divino, e di
riflesso la legittimità del conferimento del suo potere da parte del Papa. Di fatto, nel prosieguo della storia,
effettivamente ciò significò una sorta di ossequio nei confronti dei pontefici; quell’ossequio che aveva
delineato Gelasio: il Papa è superiore all’Imperatore per il fatto di essere responsabile della sua condotta
morale. Ma l’incoronazione di Carlo Magno da parte del Pontefice, significò imprimere il carattere di sarcertà
all’Impero carolingio. Un imperatore in Occidente mancava da più di tre secoli e solo la Chiesa, con molte
difficoltà, aveva in qualche modo tenuto in vita la romanità.
Ciò ebbe dei risvolti giuridici, con riferimento alla natura del potere di assoluto rilievo, condizionandone la
nascita del potere occidentale che rimarrà impressa per secoli. Insomma, questi elementi, soprattutto:
principio gelasiano, fatti storici contingenti, personalità di Carlo Magno di fronte al suo popolo e alla
cristianità, porteranno a quella concezione del potere come provvidenziale e che, in quanto tale, doveva
provenire dalle mani del pontefice. Con la Renovatio Imperii, si parla infatti di Sacro Romano Impero (che
cadrà nientemeno che nel 1870) ma che si troverà nel basso medioevo a fare i conti con i singoli re e con la
riscossa per la formazione degli stati nazionali.
Importante è l’analisi delle parole di acclamazione della folla, al momento dell’incoronazione di Carlo Magno,
che sono poi quelle che ufficialmente si trovano impresse nei sigilli ufficiali dell’Impero: "Carolus
serenissimus augustus a Deo coronatus magnus et pacificus imperator Romanum gubernans
imperium qui et per misericordiam dei rex Francorum atque Langobardorum)" → Carlo serenissimo
augusto incoronato da Dio (qui è impresso il rinnovato carattere della sacertà che non si riferisce tanto alla
cristianità, lo erano ormai anche i longobardi, ma alla volontà di Dio. Vicario di Dio non significa più Deus
presens, ma Deo coronatus), grande e pacifico (garante della pace e del principio di giustizia)
imperatore, colui che governa l’Impero Romano (per la prima volta torna l’idea dell’impero Romano dopo
secoli di vacatio).
La sarcertà dell’Impero deriva dalla legittimazione del potere. D’altronde l’impero era anche romano perché
Carlo aveva estremo bisogno di appoggiarsi alla romanità, che significava anche cristianità: un modo per
presentarsi con autorevolezza di fronte ai propri sudditi. Ed ecco come nasce l’idea dell’imitazione di
Costantino, e con essa l’errata interpretazione di Cesaro-papismo, poiché anche Costantino fu il primo
grande imperatore capace di gestire i rapporti con la Chiesa.
Lo sforzo di uscire dalla condizione limitante di re germanico di un popolo singolo, per innalzarsi all’altezza
di Imperatore universale e sacro, spinge Carlo Magno e i dotti a lui legati, e fatti confluire a corte da tutte le
parti d’Europa, a cercare radici nel passato e a inserirsi nel solco della tradizione più autorevole. Il passato
dal punto di vista dell’ideologia imperiale aveva un solo nome: Costantino il grande. La tradizione più
autorevole della cultura era quella romano-cristiana e Costantino, nell’ideologia del momento, sorpassava
Giustiniano.
Costantino aveva infatti dato una posizione all’ordinamento giuridico della Chiesa nell’ambito dell’Impero
(collegium licitum). Giustiniano invece, dalla fonte di Procopio di Cesarea, sembrò più essere un finto
cristiano servendosi della Chiesa per propri fini e spostando l’asse dell’ideologia imperiale verso quella
Orientale. 55
E Carlo Magno si sforza in tutto ad imitare Costantino il grande. Ad esempio: dove incentrerà il suo Impero
neocostituito? Non a Roma, ma ad Aquisgrana.
Ma soprattutto imiterà Costantino nei rapporti col Pontefice e nella legislazione. Un’altra parte della
storiografia ha sottolineato anche la germanità dell’Impero. Non si abbandona infatti il carattere di germanità
dell’Impero, soprattutto quando la corona passerà dai carolingi alla dinastia germanica.
La concezione di capo militare per Carlo Magno, pur restando, viene poi superata dalla cristianità,
conferendo il carattere della sacertà al suo potere: le due radici germanica e cristiana si fondono tra loro. Ma
tutto questo provocò la reazione di Bisanzio e le lunghe lotte che si conclusero con la Pace di Aquisgrana
dell’812. Con essa i Bizantini riconobbero Carlo come Imperatore dei franchi, ma non imperatore dei
Romani. I sigilli imperiali non potettero più riportare la dicitura “renovatio imperii romani”, ma quella di
“renovatio imperii francorum”.
Vediamo ora come Carlo organizzò il suo Impero. Egli dette al suo Impero un’organizzazione di tipo
accentrato. Solitamente la storiografia suddivide il territorio imperiale in tre zone: la zona centrale, la più
prossima alla capitale di Aquisgrana, sede di un Palatium, cioè di una Corte imperiale; quindi una zona
intermedia e, infine, le marche di confine.
Dal punto di vista organizzativo vi erano due tipi di “braccio destro”: i conti e i missi dominici.
Conti → rappresentanti dell’Imperatore nel territorio, ma non funzionari alle sue dipendenze. I compiti dei
conti sono maggiori e diversi da quelli dei missi dominici: essi esercitano la giurisdizione e le stesse funzioni
dell’Imperatore, ma nelle zone periferiche.
Missi dominici → mandatari dell’Imperatore nel territorio, veri e propri funzionari alle sue dipendenze che
costituiscono la “corte itinerante” del Re e che controlla nelle varie regioni dell’Impero, l’andamento
economico, sociale, delle consuetudini, e lo stesso operato dei Conti. I missi dominici ad hoc erano quelli
che avevano mandato per la soluzione di questioni specifiche. Addirittura, Carlo Magno nell’802 decise di
affidare ogni regione dell’Impero, ad un missus. Decise inoltre di servirsi anche dei Vescovi, significando
con ciò il ripristino di quella funzione della Chiesa nell’arte dell’amministrazione del territorio e della giustizia,
già operanti al tempo di Costantino.
Ma l’idea di rinnovamento imperiale si manifesta con Carlo Magno soprattutto nelle fonte giuridiche, cioè
nella nuova tipologia di lex che si instaura con l’Impero carolingio: la fonte normativa attraverso cui Carlo
Magno legifera è quella del capitulum (capitolari). Il capitolare è un modo di legiferare assai vicino alla
tradizione romana, e non a quella germanica.
Capitulum → legge unilaterale promanata da un Imperatore investito del potere da Dio, manifestazione di
volontà di un capo che esercita un potere legittimo sovrano e universale. Essa non ha bisogno di particolari
cerimonie per essere accettata dai sudditi suoi destinatari. Si tratta di una concezione di legge assai vicina a
quella odierna. Il Capitulum, in qualche maniera, ricalca poi l’idea della Costituzione imperiale, tipica della
tradizione romanistica.
Ci eravamo fermati mettendo a confronto la diversa idea che Oriente ed Occidente avevano dell'Imperatore:
10. Oriente→ “Deus presens”
11. Occidente→ “Rex a Deo coronatus”
L'atteggiamento di Carlo Magno è ben lontano dal cesaropapismo, anche se alcune volte sembra
assumerne il carattere. In ogni caso questa distinzione ci aiuta a non fare confusione.
La concezione germanica del capo militare si innesta su quella cristiana dei due poteri secondo il principio
gelasiano, per cui la legittimazione del potere in Occidente viene da Dio attraverso il pontefice, e questo
innesta nella vita e nell'esperienza giuridica tutto un sistema di rapporti tra l'imperatore e il papa, un
dualismo che è tipico occidentale.
Questo rapporto dialettico tra il papa e l'imperatore sarà l'elemento portante dell'Europa medioevale.
Parliamo ora dei capitolari. L'idea stessa di capitolare ci riporta proprio alla figura accentratrice di Carlo
Magno. Nei manuali più vecchi si era solti introdurre la questione della legislazione franca mettendo in
evidenza le distinzioni tra la concezione germanica e romana della legge. La differenza tra “capitulum” e
“lex”.
Concezione germanica→ La legge è quella norma che il capo concorda insieme ai sudditi. E' una
concezione pattizia della legge, che abbiamo già incontrato quando ci occupavamo della modalità di
promulgazione dell'editto di Rotari(la Tingatio...). Pattuizione non nel senso che la legge doveva essere
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approvata dal popolo, ma nel senso del formulare in astratto una sanzione da contrapporre ad ogni figura di
reato.
La novità della legislazione carolingia rispetto alla tradizione germanica è nei contenuti: non viene formulata
sulla base delle antiche consuetudini o dei diritti già in circolazione, ma ex novo! E' una normazione
assolutamente unilaterale da parte di un sovrano che la elabora personalmente sulla base delle necessità
che volta per volta la pratica di tutti i giorni propone. In questo senso il capitulum è innovativo. Non tanto per
il suo essere una statuizione unilaterale(e che quindi non prevede la pattuizione del popolo), quanto per la
necessità che Carlo aveva di avocare a se la disciplina di tutto quello che di volta in volta si rendeva
necessario disciplinare.
I capitularia si distinguevano in:
Capitularia mundana
11 Capitularia ecclesiastica
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Questo è la riprova che i capitolari andavano a disciplinare tutte le nuove questioni, anche quelle temporali. I
capitularia in questo aspetto si avvicinano quasi alle costituzioni imperiali dell'Imperatore d'Oriente. Anche
quelle erano espressioni di una volontà unilaterale, ma il capitolare ha un elemento caratterizzante: è
espressione di una volontà normativa nuova, che non ripesca norme in vecchie esperienze giuridiche.
Nei rapporti tra l'Imperatore e la Chiesa si parla di “clima costantiniano”, legato proprio al fatto che Carlo
Magno promulga capitolari ecclesiastici. Anche Costantino aveva fatto altrettanto(legislzione in tema di
episcopalis audientia e di privilegium fori, di manumissioni in ecclesia).
Questo clima non è malvisto dalla Chiesa, che era stata appena liberata dai Longobardi e che era premuta
da tutte le parti, che soffriva anche al suo interno(ricorda la lotta iconoclasta...), e che quindi cercava
l'appoggio di un potere forte per trovare difesa.
Era comunque una situazione molto difficile, perchè i Franchi adottando la concezione militare del potere
volevano comunue avere tutto sotto controllo, il che significava anche la Chiesa.
Gli stessi missi dominici di Carlo molte volte erano vescovi, quindi vediamo un coinvolgimento capillare che
talora però sfocia in ingerenza negli affari della Chiesa.
Altro elemento di rilievo è la distinzione tra:
Capitula per se scribenda→ Dettati per la disciplina delle situazioni nuove. La loro validità si
estendeva su tutto l'Impero rinnovato.
Capitula legibus addenda→Si aggiungevano alle leggi che già esistevano nei singoli regni di cui si
componeva l'Impero. Un esempio è il “Capitulare Italicum”, una raccolta di capitolari emaati per il
Regnum Italiae che andavano ad aggiungersi alla legislazione che già esisteva in Italia(la
legislazione longobarda). Un aggiornamento che non toglieva di mezzo il vecchio diritto. Ancora una
volta ci troviamo di fronte al principio della personalità del diritto, e ancora una volta osserviamo
come la legislazione italiana si costruisce in modo alluvionale. La loro validità ovviamente era
circoscritta al Regno a cui erano destinati.
Leggiamo un capitolare di Pipino: “Dei vescovi, preti, diaconi o chierici.”
[...] “La grande Sinodo(il conclio di Nicea del 325) ha per tutti decretato che a nessun vescovo o prete o
diacono oppure chierico è permesso avere in casa una moglie, né allo stesso modo un'ancella o un'altia(una
libera) che si trovi in condizioni di adulterio o sia diffamata, a meno che non sia la madre o la sorella o la zia,
né analogamente quello debba trovarsi nelle case dove esse risiedono. E chi fosse così audace da fare ciò,
paghi per composizione il nostro banno alla nostra parte. E dopo che abbiamo comandato di osservare
questo capitolo, e esso sia stato raccomandato a qualcuno del nostro regno per nostro ordine, e qualora
venga fatto in altro modo, ciò che è caro a noi e ai nostri fedeli, chiunque abbia avuto in disprezzo il nostro
ordine paghi con composizione il nostro banno alla nostra parte due volte. E dopo quell'accusato compaia
davanti alla santa sinodo e venga giudicato secondo i canoni”.
In questo estratto si trova un condensato di quello che è il nuovo sistema giuridico introdotto con il nuovo
impero rinnovato. Innanzitutto si va a disciplinare una materia che concerneva l'ordinamento interno della
Chiesa, ma oltre a questo ci sono anche altri elementi:
Il Concilio adottava le proprie deliberazioni attraverso i canoni conciliari, ma poi questi venivano
11 recepiti attraverso i capitolari nell'alveo delle norme imperiali. Questa che potrebbe essere vista
come un'ingerenza però non viene vissuta come tale. Infatti fa comodo alla Chiesa perchè le
pemette di consolidare il suo potere.
Idea della composizione della lite(idea germanica).
11
11 Si fa salvo il privilegium fori dei chierici, perchè viene indicato che il processo del chierico deve
avvenire davanti al Concilio e secondo i canoni conciliari(non secondo una legge imperiale).
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Il clima costantiniano significa proprio questo: che c'è un imperatore che si preoccupa dell'ordinamento
interno della Chiesa, il che comporta un'ingerenza negli affari di questa, e che però questo tipo di imperatore
fa in ragione del bannum, cio è del potere di capo militare. Non in nome del cesaropapismo.
[...]“E piacque a Noi che chiunque tra i nostri fedeli abbia avuto questo atto da Noi disposto per investigare
nel nostro regno abbia investigato in ogni luogo quali uomini eminenti siano stati trovati a perseverare nel
reato, li faccia giurare affinchè la verità venga tramite loro dimostrata”(Imperatore che si comporta da
Episcopus episcoporum...). Di quegli uomini del nostro regno, sia sacerdoti che altri, i quali riguardo alla
nostra giustizia devono indagare e punire le colpe, vogliono offuscare la verità ai missi o ai nostri fedeli per
delle ricompense o per una parentela, tanto che si lascino andare agli spergiuri, ordiniamo e stabiliamo che
se vi fosse il sospetto che abbiano spergiurato siano giudicato sul campo davanti alla croce, affinchè la
verità stessa o lo spergiuro vengano dimostrati, e se vi è stata la volontà di Dio tanto che per mezzo di quei
giudizi la verità o lo spergiuro sono dimostrati, allora vogliamo e comandiamo(“Iubemus atque precipimus”→
linguaggio tecnico) che paghi due volte il nostro banno, come abbiamo decretato sopra e quindi sia giudicato
secondo i santi canoni. Se invece si tratti di un laico, paghi il suo guidrigildo (Il guidrigildo era un istituto di
diritto longobardo→rispetto del diritto vigente!)alla nostra parte”.
Ora abbiamo l'esempio di un capitolare ecclesiastico in senso stretto. Il primo non era completamente
ecclesiastico perchè contemplava anche il reato del laico.
[...]“Comandiamo che i rettori delle chiese battesimali siano tutti di ognuna preti, non diaconi o di ordini
inferiori. A noi piacque anche che i preti delle chiese battesimali, secondo la loro possibilità dimostrino la
dovuta obbedienza alla cosa pubblica(terminologia che non ci aspetteremmo da parte di un re barbaro→ si
rispolvera l'idea di impero romano) e il rispetto dei loro vescovi senza difficoltà, come la necessità e la regola
richiedono. Stabiliamo anche, se l'obbedienza alla cosa publica viene imposta da vescovi, tali che non siano
in grado di adempiere da soli, che i sottoposti forniscano aiuto a seconda della quantità del servizio
imposto(commistione tra potere temporale e spirituale, vescovo come figura giuridicamente rilevante nella
società).
Questo excursus sui capitolari è servita per poter introdurre l'argomento delle falsificazioni.
Si tratta di testi che vengono o scritti dal nulla da qualcuno(che non è l'imperatore) che la fa circolare, oppure
ricostruiti unendo pezzi veri e falsi da fonti diverse.
Chi aveva l'interesse a fare una cosa del genere e perchè? Gli ecclesiastici. Falsificavano sia capitolari sia
decretali per ingenerare la convinzione presso il potere temporale che la Chiesa in realtà aveva un proprio
diritto di lunga tradizione, e che quindi non era necessario che l'imperatore provvedesse a legiferare in quelle
materie.
Sostanzialmente per capire questo fenomeno(del IX-X sec), successivo alla morte di Carlo Magno,
dobbiamo tornare al problema dell'ingerenza del potere temporale in spiritualibus.
Quella dei capitolari ecclesiastici era un'arma a doppio taglio: da un lato garantiva alla Chiesa un certo
ordine al suo interno, e la possibilità di far diventare la norma conciliare norma imperiale, e quindi garantiva
alla Chiesa l'universalità. Dall'altro però significava che era l'Imperatore a gestire le questioni interne alla
Chiesa(tramite i capitularia mundana e i capitularia ecclesiastica).
Ecco perchè dopo la morte di Carlo Magno il clima di rinascita comincia ad affievolirsi, e il clima
costantiniano si trasforma in un clima di lotta. Ecco perchè la Chiesa si inventa una propria tradizione
giuridica.
La storiografia più recente ci dà un'altra lettura, secondo cui la Chiesa falsificò i testi non perchè voleva
liberarsi dall'ingerenza del potere temporale, ma perchè dopo la morte di Carlo sarebbe venuto meno quel
clima di protezione e di collaborazione esercitato dall'imperatore nei confronti della Chiesa. La Chiesa si
sarebbe trovata abbandonata a se stessa, e quindi avrebbe falsificato i testi per creare quel diritto che
sarebbe stato una nuova fonte di protezione.
In ogni caso noi possiamo fermarci al fatto che il clima di collaborazione si era ormai incrinato.
La Collectio Hispana Augustodunensis è un esempio di falsificazione, così come le decretali pseudo-
isidoriane. Entrambe sono importanti perchè andranno ad aggiungersi alle fonti del diritto canonico
attraverso il Decreto di Graziano(il padre del diritto canonico).
Riprendiamo oggi il tema della personalità del diritto, e del ruolo della consuetudine, temi già visti, ma
solo incidentalmente. Vedremo come il concetto di personalità del diritto si modellerà nel tempo e si
trasformerà lentamente, con la renovatio imperii, in territorialità del diritto e inoltre, il ruolo della
consuetudine, per passare infine alle falsificazioni e al problema della divisione dell’Impero carolingio
58
dopo la morte di Carlo Magno nel 814. Dopo questi argomenti potremo affrontare il feudo, quindi la riforma
gregoriana, per passare poi all’età basso-medioevale con i Comuni, le Università, le Corporazioni e lo
studio “frontale” del diritto.
Principio della personalità del diritto. Il principio della personalità del diritto è particolarmente rispondente
al carattere delle popolazioni germaniche che fondano le proprie società sul gruppo e non sull’individuo. Si
tratta quindi di un diritto di gruppo che ben si adatta al carattere nomade della popolazione e che funziona
perfettamente fino a quando la popolazione intorno alla quale il diritto si è formato, non ha contatti con altre
popolazioni. Ma queste popolazioni nomadi, nell’arco dell’alto medioevo, cominciano a stanziarsi formando i
vari regni romano-barbarici nelle regioni della Gallia, della Spagna, della Germania e dell’Italia. Per questo
motivo, abbiamo quindi una prima “corruzione” del principio della personalità del diritto. Tale principio si trova
infatti a dover fare i conti con le altre popolazioni e in particolare con quella romana che, tra l’altro, viveva
secondo un principio opposto del diritto, quello della territorialità.
I modi in cui di volta in volta sono state risolte le problematiche giuridiche sorte nei rapporti tra le popolazioni
barbariche e quelle romane, hanno visto dapprima la creazione a fianco della lex visigothorum, della lex
romana visigothorum. Ma è errato pensare che queste due leggi venissero applicate in modo rigidamente
separato. Si può affermare infatti che la prima stava alla seconda nel rapporto tra species e genus (tra
norma specifica e quella generale). Infatti la L.R.V. era una legge ben più completa della L.V. e quindi poteva
essere efficacemente applicata anche ai Visigoti, laddove la L.V. fosse carente. Raramente, poteva
avvenire anche il contrario. In ogni caso si può ben sostenere che il principio della personalità del diritto non
trovava una rigida applicazione.
Ancor più incrinato è il principio della personalità del diritto al tempo dei Longobardi. I Longobardi, rispetto
ai Visigoti, non riconoscevano la personalità del diritto a livello di diritto pubblico (processuale): i romani
potevano vivere con la propria L.R.V., ma in caso di lite si vedevano applicato il diritto processuale
longobardo, con forti criticità. Un rimedio a tale problema erano le professiones iuris, dichiarazioni
attraverso le quali le persone professavano di vivere secondo la legge della propria gente. Restava
comunque il problema di regolare i rapporti giuridici dei negozi che vedevano interessati popolazioni che
vivevano con un diverso diritto. Per tale motivo la professio iuris poteva essere scelta e dichiarata, di volta
in volta, per regolare ciascun negozio giuridico, diventando così strumento correttivo per risolvere la criticità
della personalità del diritto.
In altri casi, ancora, il diritto applicabile era stabilito sin dall’inizio. Ad esempio, in tema di dote si applicava il
diritto della popolazione cui apparteneva la donna, mentre per tutto ciò che riguardava il vincolo del
matrimonio, il diritto relativo alla famiglia dello sposo.
Degno di nota è il famoso capitolo 91 dell’Editto di Liutprando: de scribis (dei notai) che la storiografia ha
diversamente interpretato: Se qualcuno vuole abbandonare la propria lex e convenire con la
controparte una diversa pattuizione, ciò non è contro legge, perché si tratta di una scelta volontaria
di entrambe le parti, e il documento che viene scritto (dal notaio) sulla base di tale accordo, è
legittimo.
Sulla base del capitolo 91 di Liutprando, la storiografia ha costruito una complessa teoria, affermando che
con questa disposizione, Liutprando avrebbe inteso incrinare il principio della personalità del diritto,
consentendo ad una delle parti di abbandonare il proprio diritto “sub discendere de lege sua” per aderire al
diritto della controparte, quale segno di un importante cambiamento dei tempi e integrazione delle
popolazioni ormai viventi nello stesso territorio da oltre un secolo dall’invasione longobarda. Tuttavia, tale
teoria recentemente è stata revisionata e data conseguentemente una diversa interpretazione al passo “ sub
discendere de lege sua”: si tratterebbe infatti non di lex in senso classico latino, e quindi di diritto
oggettivo, ma piuttosto del significato di diritto soggettivo. Si tratterebbe cioè di una semplice rinuncia a
una pretesa che spetta di diritto e non alla rinuncia a un diritto oggettivo. Tale interpretazione appare
convincente se si tiene conto che ben difficilmente il termine lex avrebbe avuto il significato corrispondente a
quello tecnico giuridico romano classico, di insieme di norme che disciplinano in modo generale e astratto,
cioè, di norma agendi. Appare più probabile, infatti, che il significato fosse quello corrispondente a una
terminologia volgarizzata di facultas agendi.
Di conseguenza, il principio della personalità del diritto non risulta affatto incrinato e resta assolutamente in
vigore come regola generale, pur essendo derogabile da quei rimedi appena visti: regola di volta in volta
della professio iuris; regola generale della distinzione per oggetto in base al gruppo familiare di
appartenenza (es: dote/vincolo matrimoniale).
Vediamo ora come le criticità legate al principio della personalità del diritto viene affrontato sotto l’ impero
carolingio. 59
È qui necessario partire da un presupposto e, cioè, che diversamente da quanto era avvenuto con le
precedenti invasioni barbariche, solo col Sacro Romano Impero, i numerosi popoli di stirpe diversa si trovano
tutti ad essere assoggettati ad un unico imperatore. Per tale motivo, possiamo affermare che il principio della
personalità del diritto, sotto l’impero carolingio ebbe la sua massima estensione di applicazione. Ciò
potrebbe contrastare rispetto alle considerazioni svolte nella precedente lezione (n.d.r. 12.4) in base alle
quali Carlo Magno emana leggi sotto forma di espressione unilaterale della sua volontà e destinate a valere
per tutti i sudditi dell’impero. In realtà, i due aspetti sono perfettamente compatibili. La renovatio imperii è
infatti un momento di trasformazione, motivo per cui convivono contemporaneamente esperienze giuridiche
diverse, vecchie e nuove. Si tratta di un’epoca che preparerà il passaggio al principio della territorialità del
diritto.
Questi due aspetti diversi possono convivere tra loro, se consideriamo il modo di concepire la figura del re
da parte delle popolazioni germaniche, che è quella tipica del capo militare. Non c’è ancora in quest’era una
concezione politica del capo che si avrà invece con le generazioni successive. Si tratta di un imperatore che
riceve il potere da Dio (a deo coronatus) e ciò conferisce legittimità a quel potere che, altrimenti, sulla base
territoriale non si sarebbe retto: quelle popolazioni pur essendo state vinte, non si sarebbero in lui
riconosciute. Si tratta di un potere su base cristiana, che trae origine dal principio gelasiano. Ciò non toglie,
tuttavia, che l’esercizio di questo potere, pur legittimato, avveniva alla maniera dei re germanici, ovverosia,
come capo militare.
E alla stessa maniera dei re germanici, veniva gestita la questione giuridica: cioè si lasciavano in vigore i
diritti che appartenevano a ciascun popolo conquistato. Questo, in fondo, era anche l’unico modo per
mantenere pacifica la convivenza. Una diversa situazione non sarebbe stata possibile: un diritto comune
esteso a tutte le popolazioni conquistate non sarebbe stato né possibile, né rientrava nella mentalità di Carlo
Magno e dei popoli barbari.
L’unica novità riguarda l’introduzione di qualche disposizione che potesse essere valida per tutto l’impero,
laddove ce ne fosse bisogno: si tratta, come già visto, dei capitula generalia (per se scribenda) e dei
capitula legibus addenda. C’è quindi sì di una tendenza a introdurre una legislazione valevole per tutto
l’impero, ma si tratta di una legislazione parziale e che convive coi diritti dei singoli regni inglobati sotto il
sacro romano impero.
L’attenzione nel prendere sotto controllo la situazione giuridica in tutti i territori dell’impero si coglie anche da
altri aspetti. Furono infatti elaborati dei sistemi di accertamento dei diritti e delle consuetudini applicati nei
vari regni, attraverso funzionari imperiali appartenenti alla alta burocrazia laica: i missi dominici. L’altro
sistema, l’abbiamo già visto, era quello della professio iuris, che al tempo di Carlo Magno, veniva esercitata
sene semper, cioè registrata al momento della nascita, su appositi registri.
Oltre a tutto ciò si aggiunge il problema delle consuetudini: anche per queste furono elaborati dei sistemi per
accertare quali fossero le consuetudini che vigevano nei vari luoghi. In particolare se ne ricordano due:
lauda menta curiae → giudizio del tribunale. Si trattava di un processo di accertamento giudiziale tendente
a dichiarare l’esistenza della consuetudine.
inquisitio per testes → indagine attraverso i testimoni, cioè attraverso la testimonianza dei personaggi più
anziani che potessero confermare con maggior sicurezza quella particolare consuetudine.
Quello della personalità del diritto è quindi un tema molto complesso che ha trovato risposte diverse in tempi
diversi e che, comunque, porta con se un altro elemento di grandissimo rilievo che, se compreso, farà
meglio capire l’epoca successiva: si tratta della crescente coltivazione negli animi, nel corso di tutto l’alto
medioevo, dell’idea della legge romana come la legge generale di tutti; una legge che da personale della
popolazione romana, per la sua raffinatezza e superiorità poteva efficacemente essere utilizzata da tutti,
quando vi era un problema della lacuna nel diritto personale. Si potrebbe quindi parlare di una “base
personale allargata” che poteva valere, non per una singola gens o nazio, ma per tutto l’impero.
In tal modo si pongono le basi per l’idea di quello che sarà il diritto romano come ius commune, cioè del
diritto romano come lex generalis omnium.
Tutto ciò nonostante non si può ancora parlare di diritto applicato su base territoriale. Il diritto romano sarà
studiato nelle università ancora come diritto legato alla persona, pur se riferibile a una generalità di persone,
a tutto il popolo del sacro romano impero. Verrà ricordato come un “diritto senza territorio”.
Per pensare alla territorialità del diritto, vera e propria, si deve necessariamente volgere lo sguardo al
feudo, l’unica istituzione medioevale dove il territorio diventa elemento costitutivo di quella stessa istituzione.
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A tale proposito si riporta una riflessione di Calasso, che pone bene in evidenza la differenza tra questi due
principi, e di come a un certo punto della storia medioevale riaffiori l’idea del territorio come elemento
portante anche per la nuova idea di diritto.
Abbiamo esempi di professio iuris collettive, di terre, cioè, i cui abitanti dichiarano tutti insieme di vivere
secondo una data legge. In questo tipo di professio iuris fa già capolino il principio del territorio, poiché si
tratta di popolazioni di stirpe diverse accumunate dal solo territorio. Si tratta quindi di un’applicazione del
principio della personalità del diritto che si estrinseca al pari del principio della territorialità del diritto.
E non ha importanza se talvolta questa legge è la longobarda. Il fenomeno si spiega con altre ragioni, e non
è detto che questo processo della rinnovata territorialità del diritto si identifichi sempre col prevalere della
legge romana.
Per esempio, nel Mezzogiorno d’Italia, il diritto che andrà territorializzandosi sarà proprio il diritto longobardo
e non il diritto romano, anche perché nell’esperienza giuridica del Mezzogiorno d’Italia c’era stato il momento
del diritto bizantino ma che aveva avuto vita breve per la riscoperta del diritto giustinianeo. Ma quello che
manterrà maggiore forza sarà proprio il diritto longobardo, anche perché con la caduta dei longobardi sotto
Carlo Magno, i due Ducati longobardi più importanti di Spoleto e Benevento sopravvissero e caddero molto
più tardi.
Il fatto storico nuovo vero non è però questo, ma un altro: il territorio emerge accanto alla persona. Ne è
prova un fenomeno molto interessante che proprio in questi secoli (dell’impero carolingio) si va profilando:
quello per cui i fondi, dopo il secolo IX si dirà spesso i feudi, incorporano la legge del loro possessore
originario e la conservano nei successivi trasferimenti, qualunque sia la legge dei nuovi possessori.
Prima di questo evento si sente comunque sempre più l’esigenza di uniformare questa esperienza giuridica
che dipendeva tutta dallo stesso imperatore. E questa esperienza avviene col tempo, da un lato, mediante il
ricorso della legge romana come legge generale di tutti, dall’altro, dovendo risolvere i problemi di ordine
pratico relativi alla convivenza di popolazioni diverse insistenti su una stessa area, che porterà ad
incorporare quindi il diritto di un gruppo, o del possessore di quell’area, al territorio.
Questo è uno degli elementi più importanti perché è quello che prepara il rapporto ius commune / ius
proprium dell’età basso-medioevale. Il ius proprium, che è ormai un diritto territorializzatosi nel comune, nel
feudo o castello, e il ius commune, cioè il diritto romano che non è un diritto territoriale ma un diritto legato al
popolo di tutto l’impero. Da qui partirà poi il problema della scienza giuridica che cercherà di mettere
d’accordo queste due manifestazioni di diritto, queste due concezioni così diverse tra loro.
Di tutte le contese di cui saranno oggetto, essi verranno giudicati con la loro legge, proprio come se della lite
fossero non oggetti ma soggett,i e si parlerà, in questo senso, di lex fundi (la legge del fondo). A ben
guardare però, è ancora il principio della personalità della legge che domina (cioè delle persone che vivono
in quel territorio). Ma il fenomeno è importante come uno dei tramiti attraverso i quali la legge si è spaccata
dalla persona fisica oscurando quell’idea politica che stava dietro il principio stesso. Si dovrà fare molto
cammino per arrivare alla legge territoriale, ma già si deve tener conto del fatto che quella legge personale
comincia ad attaccarsi a un territorio.
Sintesi della lezione: giacché il principio della personalità del diritto lega il diritto alla persona, si crea il
problema del rapporto tra persone che appartengono a nationes diverse e quindi con diritti diversi. Nel corso
dei regni barbarici e di tutto l’alto medioevo questo contrasto si risolve in modi diversi: al tempo della L.R.V.,
mediante la contemporanea applicazione delle due leggi (L.V. e L.R.V.) con riflessi dell’una nei confronti
dell’altra; sotto il regno longobardo, attraverso la professio iuris e stabilendo a priori nel più ampio margine
possibile quale sia la legge personale da applicare; sotto l’impero di Carlo Magno attraverso le professiones
iuris, attraverso la lauda menta curiae, attraverso l’inquisitio per testes, attraverso i missi dominici e, ancora,
attraverso le professiones iuris collettive, strumento che più avvicina il diritto al principio della territorialità.
Lo stesso si osserva a proposito del feudo, perché nel feudo si applica il diritto del possessore del feudo, che
mette le radici su quel territorio e che cioè deve essere osservato anche quando il possessore del feudo
cambia.
Nel confronto tra territorio e personalità del diritto, si può scorgere la preparazione di quel sistema ius
commune- ius proprium che sarà tipico dell’età basso-medioevale, quando cioè nasceranno i comuni, con il
loro diritto territoriale.
Oggi parleremo del feudo, tornando fino alle origini del concetto e ripercorrendo le tappe che ne hanno
segnato lo sviluppo. Questo ci servirà da un lato per affrontarne la definizione così come ci viene presentata
dai libri di storia(feudo= vassallaggio + beneficio + immunità) con un certo senso critico, e dall’altro per
capire i mutamenti di cui il basso medioevo è frutto. 61
Il primo dei citati mutamenti sul quale vogliamo soffermarci è il sempre maggiore rilievo del concetto di
territorio, che progressivamente viene ad affiancarsi per importanza e ad intrecciarsi con il concetto di
gruppo. Il gruppo, lo ricordiamo, è un elemento essenziale della cultura germanica, che trova espressione
nella personalità del diritto di cui tante volte abbiamo parlato. In questa concezione l’individuo viene sempre
considerato come membro di una stirpe, e ogni stirpe ha dei suoi precisi caratteri, propri a lei soltanto.
La novità in questo intreccio è che il territorio diventa(aggiungendosi al gruppo) un secondo criterio di
individuazione della personalità del diritto. Fatto non da poco, le cui conseguenze ci permetteranno tra l’altro
di comprendere meglio la dialettica tra jus commune e jus proprium che si svilupperà nel basso medioevo.
Quando un popolo si stabilizza su un territorio, gruppo e territorio diventano una cosa sola ai fini
dell’individuazione della personalità del diritto. Questo ci interessa perché il feudo è un altro canale
attraverso il quale il territorio emerge accanto alla persona.
A questo punto, cos’è il feudo?
L’enciclopedia ci dice che esso è un rapporto fiduciario (fidesfeudo) costituito di 3 elementi:
12. Vassallaggio
13. Beneficium
14. Immunità
Questa definizione è esatta, ma come tutte le schematizzazioni va bene intesa, perché se male interpretata
può essere fuorviante.
Non dobbiamo pensare che questi tre elementi fossero mescolati fin dalla nascita del feudo(epoca
carolingia), ma dopo la fine dell’anno 1000. Il loro intreccio è graduale, grazie al fondamentale collante
delle consuetudini nascenti dalle particolari esigenze politiche dell’epoca di riferimento. Il feudo infatti è un
compromesso tra due poli opposti:
Potere imperiale
Poteri locali
Compromesso che riflette la problematicità del rapporto tra questi poteri. Il compromesso infatti non è
spontaneo come come la consuetudine, ma è vera e propria composizione politica. Attenzione quindi a quale
senso vogliamo qui attribuire al termine consuetudine.
Per addentrarci meglio nelle problematiche in questione dobbiamo comprendere la situazione giuridica,
politica e amministrativa dell’epoca carolingia e post-carolingia.
Come ha fatto Carlo Magno a tenere unito un impero fatto di tanti popoli vinti?
In due modi: da un lato traendo legittimazione dal legame con la Chiesa( Sacro Romano Impero…), e
dall’altro grazie al rapporto di vassallaggio che instaurava con i capi militari.
Vassallaggio che tuttavia non nasce con l’impero carolingio. Questo tipo di rapporto esisteva già presso i
Romani, e prendeva il nome di commendatio: un libero giurava fedeltà e sottomissione ad un altro soggetto
in cambio di armi e protezione.
I Visigoti lo chiamavano patrocinium, intendendo invece una sottomissione dei deboli ai potenti per poter
ottenere una difesa adeguata nel processo.
Questo tipo di rapporto permette all’imperatore di vincolare a se i signori locali con un rapporto più forte di
quello che nasce dal semplice legame di sudditanza derivato dalla conquista militare. Non dimentichiamoci
che l’imperatore si sta relazionando con popoli vinti, e che per questi popoli il re era il capo militare, il più
valoroso in battaglia eletto dal popolo in armi. Anche da questo si capisce quanto fosse difficile e
complessa(erano tanti i popoli vinti!) la situazione di Carlo.
Ecco perché il legame con la Chiesa(abbiamo visto il potere collante della religione dal punto di vista
dell’ordine pubblico) e il vassallaggio.
Riassumendo, il vassallaggio è un rapporto fiduciario tra il sovrano ed il signore locale, che gli giura fedeltà
politica. Il sovrano dal canto suo promette mantenimento e difesa.
Ma non si può capire a fondo l’esplicarsi di questa fides senza soffermarsi sul rito della commendatio, rito
preciso e solenne che portava con se tutta una serie di effetti giuridici e sacrali.
Omagium Il cavaliere si inginocchiava di fronte al signore con le mani giunte, e le metteva nelle mani di
quest’ultimo, che contraccambiava alla fedeltà promettendo armi e mantenimento.
62
Parte della storiografia ha equiparato la solennità e la portata della promessa di fides del vassallo al suo
signore a quella dei due sposi che si uniscono in matrimonio.
Parliamo ora del secondo elemento del nostro schema: il beneficium, che si riferisce al territorio.
Già sotto i Merovingi il re era solito concedere un territorio al più valoroso in battaglia. Carlo Magno(a
proposito della gradualità di cui parlavamo prima) comincia a concedere un pezzo di territorio imperiale ai
soldati in occasione della riforma che sanciva il passaggio da milizia a piedi a milizia a cavallo( i soldati
dovevano poter nutrire e mantenere il cavallo).
Tuttavia nel periodo carolingio vassallaggio e beneficio rimangono tendenzialmente separati tra loro. Il
territorio veniva dato in concessione fino alla morte del beneficiario, non vita natural durante. Inoltre, proprio
per il suo carattere personale e fiduciario, rapporto non era conferibile a titolo di eredità.
Il beneficio non era usato solo in ambito militare, ma anche dalla Chiesa per poter garantire il sostentamento
dei preti e del loro esercizio di cura d’anime.
Da un lato vediamo dunque un rapporto signore-vassallo(RAPPORTO PERSONALE), e dall’altro il
beneficium(RAPPORTO REALE).
Quando questi due rapporti(personale e reale) si uniranno, persona e territorio cominciano a comporsi tra
loro per poi confluire nel feudo visto così come noi lo conosciamo.
Con la morte di Carlo Magno(814) si apre un’asprissima lotta per la successione e l’unità dell’impero va a
sgretolarsi. Ma i successori di Carlo continueranno a fare leva sul vassallaggio per rinsaldare il proprio
potere. Questo sistema a doppio binario diventa così un espediente.
Ci resta da parlare del terzo elemento del feudo: l’immunità.
Essa viene considerata l’elemento c.d. negativo del feudo. In che senso?
Nel senso che l’immunità limita la capillarità del potere dell’imperatore, il quale in cambio della fedeltà deve
lasciare i pieni poteri al vassallo sul suo territorio. E’ dunque il signore locale che amministra gli affari,
riscuote le tasse ed esercita la giurisdizione(= quale diritto applicare e come).
Nega in un certo senso l’autorità imperiale, lasciando l’imperatore fuori dalla gestione del feudo.
Come diventò immune il feudo?
Nel tardo impero le terre immuni(prive di munera = tasse) erano quelle imperiali.
N.B: Non tutte le signorie diventano feudi, sta all’imperatore decidere. Il suo potere non è capillare, ma
decide lui in che misura.
Il passaggio da personalità a territorialità del diritto prelude al futuro rapporto tra jus commune e jus
proprium che caratterizzerà il basso medioevo, con il quale la figura dell’imperatore andrà un po’ in crisi.
Bisognerà aspettare il Barbarossa per vedere l’impero risollevarsi.
Perché è importante tutto ciò? Perché il concetto di stato nazionale muove i suoi primissimi, timidi
cassettini quando questi poteri territoriali entrano in collisione con un potere che finora era stato unico ed
universale.
Di fronte a questa minaccia e alla necessità di ricostruire un impero che di unitario aveva solo il nome, le 3
componenti di cui abbiamo parlato(vassallaggio, beneficium, immunità) si comporranno grazie a varie
dinamiche dando origine al feudo così come lo conosciamo noi oggi.
Il punto di crisi per il potere imperiale arrivò con l’ereditarietà del feudo, che tra l’altro è una caratteristica
specifica del feudo italiano.
Con il capitolare di Quierzy dell’827, Carlo il Calvo stabilì l’ereditarietà dei feudi maggiori. Ovviamente
va ben intesa, perché il principio della personalità del rapporto si mantiene: il signore si reimpegnava ad
investire il figlio del vassallo in caso di morte.
Ereditarietà sì dunque, ma seguendo il faro della personalità.
Nel 1027 l’ereditarietà viene sancita anche per i feudi minori. In Italia questo provoca la c.d.
polverizzazione dei feudi. Tanti feudi piccolissimi, tanti piccoli frammenti, a ciascuno dei quali si trasmette
anche il diritto e la giurisdizione…il diritto è ormai incorporato nel territorio.
Per risolvere le problematiche introdotte dalla polverizzazione dei feudi, tutti questi piccoli microcosmi si
uniranno in quelli che poi saranno i Comuni.
LA RIFORMA GREGORIANA 63
Essa costituisce la tappa-cerniera tra alto e basso medioevo. L’ingresso nel basso medioevo si
caratterizza per le notevoli novità socio-culturali e dell’esperienza giuridica. La novità più importante è
costituita dalla nascita delle università e dalla nascita di una scientia iuris, ossia studio del diritto separato
dalle altre discipline, che si accompagna alla riscoperta dei testi giustinianei. I secoli dell’impero carolingio
hanno posto una serie di elementi di preparazione di queste novità, che passano anche attraverso la cd.
rivoluzione pontificia, come è stata recentemente denominata la riforma gregoriana. Questa tappa si situa
appunto a cavaliere tra alto e basso medioevo. Il documento in cui si consolidano i programmi riformatori del
papa (dictatus papae) è infatti del 1075. Questa tappa ha in sé molti dei vecchi problemi che si trascinavano
da secoli all’interno della Chiesa, oltre che nei rapporti dialettici tra chiesa e impero, ma porta con sé anche
molti elementi nuovi che si concretizzano nella riscoperta del Corpus Iuris giustinianeo, nella nascita di una
scientia iuris autonoma e di un diritto canonico vero e proprio, e quindi nella fondazione del Decreto di
Graziano come prima fonte del diritto canonico che verrà inserita nel Corpus iuris canonici.
Per comprendere i caratteri della riforma gregoriana dobbiamo fare un passo indietro. Verso la fine
dell’epoca carolingia e soprattutto nella fase post-carolingia, il mito dell’impero accentrato, dell’imperatore
capo della cristianità, del populis unius civitatis, si sfalda, con una lotta tra signori locali per il seggio
imperiale. Da questo contesto, anche la Chiesa risulta svantaggiata. Tutti questi elementi porteranno ad
evidenza la necessità di riformare l’ordinamento interno della Chiesa. La Chiesa-ordinamento aveva avuto il
suo primo impulso con l’editto di Costantino: ancora nella raccolta di decretali pseudo-istoriane del IX sec.
(decretali false) va a confluire una lettera di un papa, nella quale si afferma che Costantino, piissimus
imperator, non soltanto aveva permesso la possibilità di divenire cristiani, ma aveva anche permesso alla
Chiesa di espandersi e di diventare un ordinamento (collegium licitum). E’ proprio questo il modo in cui va
letto l’editto di Costantino. Ai tempi dell’impero post-carolingio, il fermento attorno alla Chiesa-ordinamento è
ancora vivo, perché è un periodo di crisi dell’impero che, pur essendo appena rinnovato, non riesce ancora a
camminare, non ha ancora la base unitaria che Carlo Magno aveva cercato di costituire (nasce con Carlo
magno l’idea di Europa). Per far sì che l’Impero non resti solo un nome, in questo senso dovranno lavorare
molto sia gli imperatori, sia anche i papi che, fin dai tempi di Siricio, andavano ad allargare ed affermare
l’ordinamento della Chiesa.
Una lettura dei Capitularia regnum francorum ci fa comprendere in che termini si presenta la crisi
dell’Impero, e conseguentemente dei problemi giuridici che ci si trova a dover affrontare. Nell’811
Carlomagno fece fare un’inchiesta sulle condizioni dell’Impero, mandando i missi dominici ad indagare quale
fosse il diritto applicato nelle varie parti dell’Impero, quali fossero le condizioni degli abitanti, a controllare
l’operato dei Conti: le risultanze dell’inchiesta presentarono un quadro disastroso. Se era vero che l’Impero si
era formato nell’800, dopo un solo decennio si sentivano già gli elementi di crisi, perché in realtà l’Impero si
elevò sempre solo alla personalità di Carlo, non ad un effettiva Idea imperiale costituita. Finito Carlo, finì
l’Impero, formato da troppe genti e situazioni molto diverse tra loro. Nella cronaca leggiamo quindi che
…i più poveri lamentano di essere stati defraudati dei loro beni, accusando di ciò i vescovi, gli abati, i loro
rappresentanti laici, i Conti e i loro subordinati.
Questo è un segno che anche la Chiesa era malfunzionante all’interno: i Vescovi avevano come primo
compito nell’espletamento del loro officium quello di avere cura dei poveri (episcopus=sorvegliante), e non di
spogliarli dei loro beni. E’ un periodo di confusione, corruzione e disgregazione, anche all’interno della
Chiesa.
Essi dicono poi che chi non vuole lasciare i suoi beni alla loro mercé, viene incriminato con un pretesto
qualsiasi e condannato o costretto a rimanere così a lungo in servizio presso l’esercito che cade in miseria e
finisce con il dover consegnare o vendere tutti i suoi beni.
Essi erano quindi lontani da casa così spesso e così a lungo per questioni militari che, lasciando le terre
incolte, quando tornavano la terra era bruciata e si trovavano costretti a vendere. Era un espediente per
punire chi si ribellava, costringendolo alla fine a vendere i beni.
Il problema della translatio imperii.
Gia alla fine dell’impero carolingio ci troviamo quindi di fronte ad una anarchia amministrativa. Carlomagno,
tenuto conto anche di questo problema, aveva cercato di stabilire come si sarebbe dovuto dividere l’impero
dopo la sua morte. Di questa fase è importante sottolineare il criterio che venne usato per la divisione. I figli
di Carlo erano tre (Carlo, Pipino e Ludovico), ma era quantomeno inopportuno dividere il neo ricostituito
Impero in tre parti. Anche sulla scorta della teoria gelasiana, che fu alla base della ricostituzione (un solo
imperator a deo coronatus, capo della cristianità, dell’impero sacro) era inammissibile tale tripartizione. Il
problema venne quindi risolto mediante il criterio della divisio imperii (Divisio Regnorum - 804) sulla base
della divisione della Trinità. La questione religiosa, come vediamo, entra profondamente in ambito politico.
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Carlo gestì la successione al trono imperiale dei tre figli con un compromesso, che salvasse da un lato i diritti
ereditari dei figli, dall’altro l’unità dell’Impero. Lo schema che seguì fu quello della Trinità: come Dio è uno e
trino, così nell’Impero la sovranità doveva essere unica e comune tra i figli, mentre l’amministrazione poteva
anche essere divisa in tre grandi regioni in cui venne diviso l’Impero. La sorte volle poi che la divisione
rimanesse inoperante perché Carlo e Pipino premorirono a Carlomagno e rimase solo Ludovico. Sul
momento il problema sembrò scomparire, per ripresentarsi comunque più avanti, già con Ludovico: il
sistema che proseguì aveva come criterio di riferimento non tanto la divisio imperii quanto la ordinatio
imperii (decreto del 817). Ciò comportò che dei tre figli di Ludovico, uno solo sarebbe stato l’erede al trono
imperiale, Lotario. Torna in mente la successione alla cathedra petri, che non avviene nella persona ma
nell’officium, nella carica di vicario di Cristo. Vediamo quindi anche nel caso dell’Impero la matrice religiosa
del principio, modellato sulla Trinità: unità nella carica, divisione nella amministrazione concreta. Quindi solo
Lotario (primogenito) sarà erede al trono, mentre gli altri figli di Ludovico, Pipino e Ludovico il germanico (nel
frattempo infatti i Franchi si sono imparentati con i tedeschi, con il conseguente successivo passaggio del
trono alla dinastia tedesca) avrebbero avuto soltanto l’amministrazione della parte occidentale dell’Impero
(Pipino) e della parte orientale (Ludovico il germanico), in accordo con l’imperatore unico. Si va quindi a
profilare una idea di territorio che inizia a divenire caratterizzante, permeando tutta l’esperienza politica e
giuridica. Si avranno, da lì in poi, aspre lotte per l’accesso alla carica imperiale.
Dopo la morte di Carlo Magno, rimase quindi un solo figlio, Ludovico detto il Pio perché aveva un
carattere mite, riempì la corte imperiale di monaci, e cercò di governare l’impero in termini religiosi: fu anche
questo a portare al passaggio dalla divisio alla ordinatio imperii, su stampo trinitario. Il suo programma
naufragò comunque molto rapidamente.
Questo è un periodo di grande confusione per varie ragioni:
- lo stato di anarchia con cui Carlo Magno lascia il proprio impero ai figli;
- le lotte per la successione che derivarono dalla ordinatio imperii;
- il problema delle chiese private.
Si andava infatti profilando anche il problema della cd. Chiesa privata: laici e anche ecclesiastici
detenevano in proprietà i luoghi di culto. Ancora oggi in certe aziende possiamo vedere la presenza di
piccole cappelle: sono retaggi feudali delle chiese private di allora, quando ogni feudo, ogni signoria aveva il
proprio luogo di culto, essendo di proprietà del signore locale. Dove il beneficio feudale veniva concesso su
terre che appartenevano alla Chiesa, finiva che il territorio e anche la carica veniva data da un laico. Se
nell’ambito del territorio dell’impero il territorio si mescolava con il sistema feudale e veniva dato in feudo un
territorio che era di proprietà ecclesiastica, finiva che insieme al territorio si dava anche la carica (ecco i
vescovi-conti).
Il rapporto tra poteri centrali e feudi è un rapporto dialettico (=di competizione). Da un lato i re (es. i figli di
Carlo che non avevano ricevuto la corona imperiale) nei confronti dell’imperatore unico, i signori feudali nei
confronti dell’imperatore, i signori fondiari verso i signori feudali e verso l’imperatore: tale variegata
situazione porta a forti lotte di egemonia.
Non disponendo di una fedele classe di funzionari, il potere centrale cercherà sempre di ottenere una base
unitaria, di fronte al pullulare di realtà locali separate. Gli imperatori (soprattutto a partire da Ottone I) faranno
ciò anche approfittando dei contrasti tra feudatari, appoggiando spesso quelli più deboli contro i più potenti, e
soprattutto prendendo le difese degli enti ecclesiastici, specie dei vescovadi, che soffrivano la potenza dei
grandi signori laici. A non pochi vescovi Ottone I concesse gli stessi poteri che avevano i conti, e in
particolare la giurisdizione nelle città dove essi operano, con conseguente limitazione dei poteri del conte
laico del luogo, che si vede ridotte le proprie competenze solo alle zone rurali. E non potendo nominare una
massa di territori grande come tutta l’Europa, Ottone concentra la sua azione sui regni di Germania e d’Italia,
di cui era titolare, e si preoccupa di controllare il papato. Dal Papa infatti dipendeva la consacrazione
imperiale e dal territorio della chiesa romana passava ogni ambizione di politica. Egli da un lato dava la
carica di conte al vescovo, dall’altro dava talora ai laici, come beneficio feudale, terre della Chiesa. Come si
spiega questa confusione? Bisogna tenere presente il problema degli imperatori post-carolingi di trovare una
base unitaria all’Impero.
Le radici e i presupposti della riforma gregoriana (1075) vanno trovati proprio in questo quadro del periodo
post-carolingio e ancora prima nel tardo impero carolingio.
Il problema nasceva nel momento stesso in cui il Papa incoronava l’Imperatore, perché, in quanto capo della
cristianità, aveva finito con l’avere il potere di soggiogare il pontefice. E il fatto che l’impero avesse la
necessità di trovare una base unitaria e che questa fosse ravvisabile della cristianità, spiega come mai i Papi
rimasero invischiati e sottoposti al potere imperiale. L’imperatore faceva leva sull’unità cristiana per trovare
quell’unità che altrimenti l’impero non aveva.
Il problema scoppiò quando si pose la necessità di dividere l’impero. La carica imperiale rimase di uno solo,
ma l’amministrazione coinvolgeva anche gli altri (con il titolo di re). Accanto al problema dei rapporti tra i re e
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l’imperatore, era forte quello dei rapporti tra i titolari di grandi beneficia e i re e l’imperatore, senza
considerare piccoli e grandi feudi, i vescovi, etc. E ciò coinvolse anche la Chiesa con il problema delle chiese
private, in spregio ad una antichissima norma di diritto canonico che vietava il commercio delle res sacrae. Il
problema delle chiese private portò scompiglio nell’ordinamento della Chiesa, e si acuì ancora di più nel
momento in cui Ottone I, per cercare di tenere dalla sua parte i vescovi in vista della ricostituzione di una
base unitaria dell’impero, concedeva ai vescovi poteri comitali (gli stessi dei conti laici), e in particolare poteri
di giurisdizione. Egli aveva finito addirittura per concedere alla stessa persona la carica di conte e di
vescovo, dando così avvio al problema della lotta per le investiture, ossia la lotta tra papato e impero per
definire chi dovesse presiedere alla nomina delle cariche ecclesiastiche, non ultima quella suprema di
pontefice. Questo problema sarà affrontato proprio dalla riforma gregoriana. Fino a questo momento il
pontefice era stato nominato dall’imperatore o dalle famiglie dell’aristocrazia romana, ma comunque con il
consenso dell’imperatore. C’era quindi una assoluta mescolanza di problemi temporali e spirituali,
mescolanza che aveva portato anche al problema delle falsificazioni, tese a rilanciare l’idea dei poteri dei
vescovi e del pontefice. Un esempio delle esigenze portate dalle decretali pseudo-istoriane:
I vescovi debbono poter insegnare, condurre, gestire, senza alcuna intrusione da parte di altri.
I vescovi devono essere temuti dai sudditi (auctoritas), da coloro che abitano nel territorio in cui si trova il
vescovo e devono accettare di essere da questo corretti e giudicati.
Nelle decretali pseudo-istoriane (IX secolo) vanno a confluire lettere di papi, canoni conciliari, decretali
pontificie, capitolari carolingi, fonti che molto spesso venivano rimaneggiate e ricomposte a mosaico a
seconda delle esigenze, oppure venivano addirittura create dal nulla per poi attribuirle ad un soggetto
individuato (le citazioni sopra riportate vengono attribuite a papa Anacleto).
A noi non interessa il fatto che il documento sia falso, ma il fatto che circolasse come vero, producendo i
relativi effetti. Gli stessi riformatori gregoriani sorvolarono sul fatto che alcuni documenti fossero falsi, anche
perché riconoscerlo sarebbe stato controproducente: la Chiesa aveva infatti sempre cercato di costruire una
tradizione normativa che potesse dare un fondamento all’ordinamento giuridico della Chiesa, fin dai tempi
delle false decretali. La tradizione normativa che la Chiesa cerca di costruire (anche in modo falso) ha come
obiettivi:
- il rilancio dell’auctoritas episcopale (vedasi citazione sopra riportata)
- il rilancio del ruolo dell’officium del pontefice
- sancire un ordine interno nella vita della Chiesa, in un momento di grande confusione (clero sbandato,
vescovi che diventavano conti, vescovi che derubavano i poveri, cariche ecclesiastiche conferite da signori
laici o dall’imperatore, etc.).
In merito al secondo punto (rilancio del ruolo del pontefice):
Le cause, i processi più difficili devono essere decisi dal pontefice.
Il pontefice funge anche da giudice d’appello.
La giurisdizione diventa il perno su cui costruire l’ordinamento della Chiesa.
Per il terzo punto (ordine interno della Chiesa), ad esempio:
Nessun chierico può fare commercio dei sacramenti divini.
Quindi fin dai tempi delle decretali pseudo-istoriane si prepara in un certo senso la riforma gregoriana, che
mirerà proprio all’obiettivo di risolvere i tre problemi sopra visti e che sono tutti originati dalla mancanza di un
ordinamento normativo preciso nell’ambito della Chiesa. Per costruirlo, la riforma gregoriana farà leva sul
Corpus iuris giustinianeo che, in quel momento, non veniva più visto come calato dall’alto ma trovava ora
una base fertile per divenire operante e quindi nuove motivazioni per essere riscoperto e studiato.
Per capire l’importanza della Riforma gregoriana ai fini dello sviluppo della scuola giuridica e della riscoperta
dei testi giustinianei, e di un corpo normativo a fondamento di un diritto canonico, è necessario ritornare ai
fatti che caratterizzano l’impero carolingio e, ancor più, quello post-carolingio.
Sotto l’Impero carolingio c’era stato un movimento di riforme su i più vari fronti della vita dell’Impero, sia sotto
il profilo culturale che economico (tra cui la riforma monetaria), che trovano giustificazione nella personalità
di rilievo che ebbe proprio Carlo Magno. Ma una base unitaria è comunque difficile da raggiungere se
pensiamo che sotto il sacro romano Impero sono confluiti popoli diversi con proprie tradizioni culturali e
giuridiche altrettanto diverse.
Una unità giuridica fu difficile da realizzare e mantenere e, infatti, la legislazione capitolare non andò a
sostituirsi alle legislazioni in vigore presso i vari popoli confluiti nel sacro romano Impero. Ciò non avvenne,
sia in ragione della vigenza della personalità del diritto, sia perché una tale imposizione sarebbe stata
considerata sbagliata, non scaturendo da un’esperienza giuridica concreta. Si trattò quindi di un intervento
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limitato e parziale ad alcune materie: Capitularia generalia (situazioni nuove che colmavano lacune) +
Capitularia legibus addenda (si integravano alle leggi che già esistevano).
La situazione fu ancor più critica con la morte di Carlo Magno, quando viene meno la sua figura personale,
così abile politicamente. Il primo nuovo problema fu quello della successione imperiale. Per comprendere
meglio i concetti di Divisio Imperii e di Ordinatio Imperii, bisogna tenere presente la concezione di potere
tipica delle popolazioni germaniche che è, innanzitutto, militare, comportando ciò che i territori dell’Impero
sono considerati di proprietà del Sovrano. La concezione di potere che vige per tutto il medioevo, fino alla
nascita dei Comuni, è infatti una concezione patrimoniale. Le popolazioni barbariche non conoscevano
l’istituto del testamento e fondavano la società sulla famiglia. Pertanto i beni passavano dal soggetto ai suoi
discendenti senza la necessità di alcun testamento. Fu invece la Chiesa che viveva secondo il diritto romano
a introdurre, nella mentalità giuridica delle popolazioni barbariche, l’idea della successione testamentaria.
Ma con la successione imperiale sorge un duplice problema: da un lato quella dell’eredità delle terre
dell’Imperatore (eredità materiale) e, dall’altra, quella della successione della carica imperiale (eredità
politica). Mentre le terre potevano essere divise, la carica politica no! La concezione unitaria del sacro
romano impero non lo permetteva. La soluzione al problema fu già avviata dallo stesso Carlo Magno che
divise il territorio dell’Impero in tre parti, ciascuna per ognuno dei tre figli, conferendo il titolo di Imperatore
solo ad uno di essi. Questo sistema di successione alla carica imperiale fu ancor più esplicitato poi dall’unico
figlio di Carlo Magno rimasto in vita (Ludovico il pio), mediante lo schema della Ordinatio Imperii, che si
modellava su quello trinitario. L’idea di Ordinatio e non di Divisio e quello trinitario (Dio uno e trino), era in
grado di mantenere l’unità della carica imperiale. L’Impero uno e trino: un’unica dignità della carica imperiale
che veniva esercitata e amministrata attraverso i singoli i re (fratelli minori) e i relativi regni che facevano
parte dell’Impero.
Ma l’Ordinatio Imperii, si rivelò poi abbastanza debole: ci fu una sorta di divisione tra i territori orientali e
quelli occidentali dell’Impero, ciascuno dotato di un re. L’impero Occidentale che voleva presentarsi
(soprattutto all’Oriente) come Impero unito, in fondo non lo era più: prevaleva l’elemento territoriale di
autonomia di ciascun regno. Il problema di presentò soprattutto all’inizio del X sec. con l’Imperatore Ottone I.
Lettura: “L’Impero cerca una base”: Il rapporto tra poteri centrali e feudi spiega lo strutturarsi dell’Impero di
Ottone I. Non disponendo di una fedele classe di funzionari con cui raggiungere direttamente i sudditi,
Ottone I si rafforza di volta in volta approfittando delle divisione tra i feudatari, appoggiando i più deboli
contro i più forti e, soprattutto, prendendo le difese degli enti ecclesiastici, specie dei vescovati che più
soffrivano la prepotenza dei grandi laici.
Nelle decretali pseudo-isidoriane che si formano tra il IX e il X sec., cioè nell’età postcarolingia, c’è una lunga
serie di testi che mirano a rilanciare la auctoritas dei Vescovi e del Pontefice, per rimettere ordine all’interno
della Chiesa che è talora invischiata negli affari laici, subendone le prepotenze. Si mira a ribadire il
privilegium forii degli ecclesiastici, un privilegio riconosciuto già da Costantino e ribadito successivamente da
numerosi concilii, che comportava il diritto degli ecclesiastici di essere giudicati da appositi tribunali
ecclesiastici e non dai tribunali laici (un tema delicatissimo quello del giudice naturale ancor oggi). Nelle
stesse decretali vi è inoltre un coro di disposizioni che mira ad impedire che gli ecclesiastici si mescolino in
negozi secolari per evitare di trattare col potere laico a discapito della purezza della fede. Si tratta, quello del
rapporto col potere laico, di un problema piuttosto spinoso per la Chiesa ma l’unico in grado di offrirgli un
certo grado di protezione. Lo stesso Imperatore era capo e difensore della cristianità e quindi i grandi Signori
laici, da un lato garantivano protezione alla Chiesa che era portata ad entrare in contatto con questo potere,
ma al tempo stessa ne usciva sopraffatta, soprattutto in questo periodo post-carolingio ove c’è una politica
imperiale, quella di Ottone I, che tende a “laicizzare” la Chiesa. Ciò avviene attraverso la nomina dei cd.
“Vescovi-Conti”, cioè attraverso una politica imperiale che nel mezzo dell’anarchia dei diversi poteri locali
costituiti da feudi, signorie, regni, ecc., appoggia i più deboli e tra questi anche la Chiesa, costituendo in tal
modo una base di appoggio e sostegno alla politica imperiale stessa.
Venivano quindi concessi poteri comitali ai Vescovi, cioè pieni poteri di giurisdizione e non soltanto per
quelle materie sulle quali i Vescovi avevano già la giurisdizione sin dai tempi di Costantino, ma poteri senza
limiti: gli stessi a capo dei Conti laici e a discapito dei medesimi Conti laici, che restano solo nelle campagne,
mentre i poteri comitali vengono sempre più spesso conferiti ai Vescovi e quindi nelle Civitatis, sedi vescovili.
Non potendo dominare una massa di territori grande quasi come l’Europa, tanto si estendeva il vecchio
Impero carolingio, Ottone I concentra la sua azione sui regni di Germania e di Italia di cui è titolare, parte
orientale dell’Impero, e si preoccupa di controllare il papato, dal quale pretende fedeltà e la cui nomina
sottopone a conferma (privilegium Ottonis del 962). Perché da un Papa dipendeva la consacrazione
imperiale (i Papi incoronavano gli Imperatori e quindi l’imperatore si sceglieva il Papa, poiché l’applicazione
del principio gelasiano comportava una politica di interessi reciproci e la garanzia dell’incoronazione di
imperatori scelti dalla politica imperiale) e perché dal territorio della Chiesa romana passava ogni ambizione
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di politica mediterranea. Nella parte orientale del nuovo Impero d’Occidente c’era il Papa, e la politica
passava nelle mani del Papa e questo veniva scelto dall’Imperatore attraverso le famiglie dell’aristocrazia
romana.
Accanto a tutto ciò va aggiunto il problema della Chiesa infeudata, cioè del beneficium del territorio (e del
conseguente rapporto reale) concesso in feudo dall’Imperatore come fosse proprio, anche se invece era di
pertinenza della Chiesa. Ciò non poteva che comportare una grave mescolanza tra elementi spirituali con
elementi secolari e che porta al fenomeno del Clero concubinario: un modo di mantenere la proprietà
terriera attraverso la successione.
In questo progressivo degrado risiedeva la mancanza di una base unitaria dell’Impero. L’Impero si era potuto
costituire perché il Papa “aveva gettato la corona in testa a Carlo Magno” e perché l’impresa contro i
longobardi ed altri popoli era risultata favorevole. Ma in realtà non vi erano i presupposti di una unità di
culture e di esperienze di vita che potesse effettivamente garantire tale unità.
Con riferimento alla doppia interpretazione (già vista) delle decretali psudo-isidoriane e, cioè, una secondo la
quale esse sarebbero sorte per opporsi contro l’ingerenza del potere laico negli affari della Chiesa e, l’altra,
più recentemente avanzata dalla storiografia, secondo cui la Chiesa si sarebbe spronata nel darsi un proprio
diritto di lunga tradizione, potendo fare a meno che l'imperatore provvedesse a legiferare in quelle materie,
entrambe le teorie sembrano valide non opponendosi tra loro ma, anzi, mettendosi in relazione l’una all’altra.
Infatti, mentre con Carlo Magno vige il c.d. “clima costantiniano” di collaborazione tra Chiesa e Impero e che
mira ad una espansione dell’ordinamento giuridico della Chiesa, ancorché con frequenti e forti interventi del
potere laico negli affari ecclesiali, dopo Carlo Magno l’intervento imperiale negli affari della Chiesa è di
tutt’altro genere e, lo abbiamo visto, con Ottone I, dove vi è un intento nel soggiogare la Chiesa,
invischiandola nella gestione degli affari temporali attraverso il sistema feudale, i Vescovi-conti.
Ed ecco quindi la reazione della Chiesa: la “Riforma gregoriana” con Gregorio VII che si scaglierà proprio
contro questa ingerenza del potere laico negli affari della Chiesa, con un’opera intesa a porre ordine al
proprio interno e anche nei rapporti con il mondo imperiale.
Intorno all’anno 1000 la protesa si leva più forte che mai, dai monasteri e, in particolare, dal Monastero di
Cluny, un monastero benedettino dove Oddone di Cluny riuscì a fare rivendicare alla Chiesa il potere di
approvazione delle consuetudini sulla base della ratio et veritas, una concezione etica della consuetudine
che si era andata creando nei secoli dell’alto medioevo, ma soprattutto della disapprovazione delle
consuetudini prave.
Oddone di Cluny parte dal problema che la consuetudine del momento, quella secondo cui erano i signori
laici a gestire le cariche ecclesiastiche, era sbagliata e contraria (prava) rispetto alle ripetute e ricche
disposizioni dei Canoni conciliari, dove era stabilito invece che le cariche ecclesiastiche dovevano essere
gestite dal pontefice e che, pertanto, continuavano a rimanere disapplicati perché non erano riusciti a
diventare norme dell’Impero come invece sarebbe dovuto avvenire e, cioè, attraverso il recepimento di una
norma imperiale, ad esempio attraverso un capitolare.
Per comprendere quella concezione della consuetudine etica si deve ritornare a quella Costituzione di
Costantino che innovava alquanto il rapporto tra consuetudine e legge, nell’ambito di un processo di
volgarizzazione del diritto romano classico, dove la consuetudine aveva invece un posto preminente rispetto
alla legge. Con Costantino si inverte quest’ordine: la consuetudine ha una sua importanza, ma non fino al
punto da essere preminente rispetto alla ratio e alla lex.
Durante i secoli del medioevo, quella ratio di cui si trovava traccia nella costituzione di Costantino, era stata
unita dalla Chiesa all’idea di veritas, intesa come principio divino. Per tale motivo quella consuetudine non
poteva valere come legge e da qui partano i monaci cluniacensi: attraverso una motivazione e uno
strumento giuridico in grado di sradicare una consuetudine (sbagliata) che si era andata affermando nei
secoli altomedioevali. E così farà più tardi Gregorio VII quando riprenderà dalle cancellerie pontificie il
Digesto, il Corpus iuris giustinianeo, proprio per rifondare e rilanciare la monarchia pontificia: il diritto
diviene protagonista della riforma.
Che fine aveva fatto il principio gelasiano ai tempi della riforma gregoriana? Il principio gelasiano di lunga
tradizione era stato ripresentato dai falsificatori a proprio uso e consumo. Infatti…
Nelle decretali pseudo-isidoriane era andata a finire quella famosa lettera che Gelasio aveva scritto
all’Imperatore (due sono le autorità su cui il mondo è retto: l’autorità sacra del pontefice e la potestas
dell’Imperatore: duo quippe sunt…). Solo che proprio sotto la tendenza falsificatrice si dà un significato
diverso: non più di una superiorità sul mero piano spirituale, ma anche politica.
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Gregorio VII fa ancor più di quanto non fosse ancora stato fatto dalle decretali pseudo-isidoriane: nella parte
in cui si diceva che il Papa era superiore all’Imperatore in spiritualibus, proprio il termine “in spiritualibus”
viene eliminato e… il significato cambia!
Già i monaci cluniacensi avevano ottenuto di riportare al Papa il potere della nomina delle cariche
ecclesiali. Ma il Papa era anche molto lontano rispetto a tutti i punti periferici dell’Impero. Quale fu quindi il
colpo di genio di Gregorio VII? Quello di stabilire che il Papa non poteva essere eletto dall’Imperatore! Egli
doveva essere eletto dal Collegio dei Cardinali. Solo così è stato possibile colpire nel punto più vitale quel
sistema che nei secoli aveva portato alla degrado della Chiesa. Questo portò a scatenare l’ira
dell’Imperatore, Enrico IV, un uomo di pessimo carattere (un toscanaccio), che dichiarò decaduto il Papa,
ma che questi, a sua volta, scomunicò (con la successiva famosa “umiliazione di Canossa”).
La Chiesa rivendica così quelli che sono i propri poteri di un ordine interno nell’ambito del proprio
ordinamento: fuori il clero simoniaco e quello concubinario; il Papa ha poteri giurisdizionali ed è sovrano,
comportando ciò il fatto che non possa essere giudicato da nessuno.
Nasce il Dictatus papae, che è alla base della riforma gregoriana e che contiene 27 assiomi o preposizioni
che in parte fissano gli obiettivi del Pontefice e in parte dettano disposizioni che fissano gli obiettivi della
Chiesa. Si nota una forte corrispondenza con le decretali pseudeisidoriane, pur di due secoli prima:
Che la Chiesa Romana è stata fondata da Dio e da Dio solo.
Che il Pontefice Romano è l'unico che può essere giustamente chiamato universale.
Che lui solo può deporre o ripristinare i vescovi.
Che in qualunque concilio i suoi legati, anche se minori in grado, hanno autorità superiore a quella
dei vescovi, e possono emanare sentenza di deposizione contro di loro.
Che il Papa può deporre gli assenti.
Che, fra le altre cose, non si possa rimanere nella stessa casa con coloro che egli ha scomunicato.
Che a lui solo è legittimo, secondo i bisogni del momento, fare nuove leggi, riunire nuove
congregazioni, stabilire abbazie o canoniche; e, dall'altra parte, dividere le diocesi ricche e unire
quelle povere.
Che solo lui può usare le insegne imperiali.
Che solo al Papa tutti i principi devono baciare i piedi.
Che solo il suo nome venga pronunciato nelle chiese.
Che questo sia il solo suo nome al mondo.
Che a lui è permesso di deporre gli imperatori.
Che a lui è permesso di trasferire i vescovi secondo necessità.
Che egli ha il potere di ordinare un sacerdote di qualunque chiesa voglia.
Che colui che egli ha ordinato può dirigere un'altra chiesa, ma non può mantenere posizioni inferiori;
e che un tale non può ricevere gradi superiori da alcun altro vescovo.
Che nessun sinodo sia detto sinodo generale senza il suo ordine.
Che nessun capitolo e nessun libro sia considerato canonico senza la sua autorità.
Che una sentenza da lui emanata non possa essere ritirata da alcuno; e che soltanto lui, fra tutti,
possa ritirarla.
Che egli non possa essere giudicato da alcuno.
Che nessuno osi condannare chi si appella alla Santa Sede.
Che a tale Sede vengano sottoposti i casi più importanti di ogni chiesa.
Che la Chiesa Romana non ha mai errato; né mai errerà per tutta l'eternità, secondo le Scritture.
Che il Pontefice Romano, se è stato eletto canonicamente, è senza dubbio alcuno fatto santo dai
meriti di San Pietro; secondo quanto detto da San Ennodio, vescovo di Pavia, e da molti santi padri
che lo hanno sostenuto. Secondo quanto contenuto nei decreti di San Simmaco papa.
Che, per suo comando e col suo consenso, sia legale per un subordinato di presentare accuse.
Che egli possa deporre o ripristinare vescovi senza convocare un sinodo.
Che colui il quale non è in pace con la Chiesa Romana non sia considerato cattolico.
Che egli possa liberare i sudditi dall'obbligo di obbedienza a uomini malvagi.
(N.B: La prof. ha citato solo quelli in grassetto)
Con la riforma gregoriana cominciano a farsi delle collezioni di Canoni. Ce ne erano già state in precedenza:
la Collectio Dionisiana, la Collectio Ispana dei tempi di Papa Gelasio. Ma le collezioni che si sviluppano al
tempo della riforma gregoriana, ovviamente, risentono dei nuovi obiettivi che Gregorio intende perseguire e
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che diventeranno il fondamento del Decreto di Graziano: le cd. collezioni pregrazianee: Decretum di Ivo
di Chartres, la Panormia, la Tripartita. Ma anche la Collectio canonum di Anselmo da Lucca, ecc.
Sotto la riforma gregoriana di sviluppano quindi delle collezioni canonistiche che recepiscono gli indirizzi
della riforma stessa e, in alcuni casi, come per il Decretum di Ivo di Chartres, ne vengono anche attenuati
alcuni toni eccessivi.
Calasso: Ispirata a questa idea fondamentale (unione e concordia tra regnum e sacerdotium), le collezioni
di Ivo di Chartres lasciano da parte alcune intemperanze gregoriane (non più ierocrazia assoluta, ma
concordia) e con una nuova e originale selezione di testi, antichi e recenti, ci si sforza di operare la sutura tra
l’ordinamento ecclesiastico e il civile che in quegli anni turbolenti sembravano irrimediabilmente condannati
al contrasto inconciliabile. La lotta tra poteri diventa lotta tra diritti: diritto civile e diritto ecclesiastico e
canonico. Non ci stupirà di trovare che il decreto di Graziano si apra proprio con la gerarchia delle fonti,
secondo cui le leggi civili sono subordinate al diritto naturale. Riecheggia inoltre il fraseggio gelasiano: i due
elementi su cui si regge il genere umano sono il diritto naturale che è contenuto nel vangelo e nella bibbia, e
le leggi civili.
Le leggi civili subordinate al diritto naturale, era frutto della riforma gregoriana che era riuscita a mettere
insieme, non solo i due poteri, ma anche i due diritti. Ecco che cominciano le prime vere collezioni di diritto
canonico a presentare in che cosa differiscono rispetto a quelle del passato: nella differenza che presentano
nel rapporto tra i due ordinamenti, quello civile, temporale e quello canonico ecclesiastico spirituale; norme
canoniche che sono superiori a quelle civili.
Infatti, tutto il potere deriva da Dio, e allora gli Imperatori non possono essere contrari alle leggi della Chiesa.
Un salto di qualità, dove la questione giuridica diventa la questione portante! Ed ecco perché il diritto
comincerà ad avere un posto autonomo nell’ambito degli studi umani.
Gli storici fanno risalire la nascita della scienza canonica con il decreto di Graziano “Concordia
Discordatium Canonum”, composto intorno l'anno 1140 - 1150. Autori come il tedesco Somm la ritengono
opera teologica perché non è ben distinta la parte canonica da quella teologica.
Sono quattro le tappe per la realizzazione della riforma giuridica:
nuovi atteggiamenti pratici e teorici della riforma gregoriana
11 consolidazione dell'arte ermeneutica nel XII secolo
11 progressi della scienza teologica (Sic et non di Abelardo)
11 formazione della scienza giuridica (scuola bolognese di Irnerio)
111
La riforma gregoriana è importante per la formazione della scienza giuridica. Terminerà con il concordato di
Worms del 1122. La riforma è detta anche rivoluzione gregoriana. Il maggior esponente è Gregorio VII che
diviene papa nel 1073 e scrive il Dictatus Papae nel 1075.
Importante è la nascita del monachesimo con l’abbazia di Cluny, che accentra il potere nelle mani del papa
di Roma. Si formano monasteri sparsi che fanno capo all’abate di Cluny, che a sua volta dipende
direttamente dal papa sottraendolo all’influenza del potere locale, all’ingerenza dell’imperatore nelle nomine.
Il Dictatus è fatto da 27 proposizioni tra cui il primato del papa.
Dal punto di vista delle fonti la riforma è importante perché si può notare come esse possono essere a
favore o contro la chiesa. Fino all’ VIII secolo le fonti sono raccolte in ordine cronologico.
Per i diritto della chiesa le fonti sono:
la Bibbia
le Decretali (Epistulae)
i Frammenti di diritto romano
I passi dei Padri della Chiesa (S. Agostino, S. Ambrogio dall’VIII secolo)
I Concili ecumenici
I Concili Provinciali
le Decretali sono delle risposte che un papa dà ad un vescovo che gli poneva una fatto concreto
riprendendo lo stile dei rescripta del diritto romano. 70
I passi dei Padri della chiesa sono considerati alla stregua della Bibbia perché essi nell’esposizione sono
influenzati direttamente dallo Spirito Santo.
I concili all’inizio furono soprattutto orientali e influenzati dall’imperatore bizantino.
Le fonti sono coordinate dalla logica.
Fino alla riforma ci sono soprattutto decretali e concilii in ordine cronologico.
Altre opere importanti sono:
15. Decreto di Burchardo di Worms scritto fra il 1008 e il 1010 riformulato poi da riformatori
gregoriani.
16. Il Decretum, la Panornia, la Tripartita di Ivo di Chartres;
17. De Prudentia Dispensatione Ecclesiasticorum Sanctionum, De escumminicatis vitandis, De
reconciliatione lapsorum e fontibus iuris canonici di Bernoldo da Costanza
18. Liber de misericordia et iusticia di Algero da Liegi
Tutti gli autori a parte Burchardo operano all’interno della riforma gregoriana.
A partire dal XI secolo sono importanti la nascita delle scuole situate nei monasteri. Gli insegnamenti si
suddividevano nello studio del
Trivium (retorica, dialettica e grammatica
Quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica)
La conoscenza logica altomedioevale è soprattutto platonica, Aristotele verrà riscoperto a partire dalla fine
del XII secolo.
Quindi il sillogismo è sconosciuto agli autori altomedioevali o è filtrato dalle opera di S. Agostino o nelle
traduzioni di Boezio.
Il metodo euristico platonico si basa sulla distinctio: scomposizione in genus e specie; attraverso una serie di
subdistinzioni si arriva al genus infimo. Queste suddivisioni portano ad avere una conoscenza più precisa del
genus e dividerlo dalle varie specie.
La distinctio è presente in tutte le scuole bolognesi dei glossatori.
Molto importante è lo sviluppo della teologia.
Abelardo con il Sic et non darà sviluppo allo studio sistematico delle verità di fede (teologia).
Prima di lui con il termine di teologia si indicavano le persone che si distaccavano dalla fede cristiana, i
pagani.
L’opera di Abelardo è considerata l’opera dalla quale Graziano prenderà il metodo per la riconciliazione delle
antinomie.Grande influenza è esercitata dalla scuole bolognesi del diritto, cioè la scuola dei glossatori ed
Irnerio.
Il Decretum di Graziano si divide in tre parti:
101 distinzioni → D50C3 (segnatura) con C si indicano i Canoni o fonti
36 cause → al C33q3 viene introdotto un trattato: il De penitentia
De consacratione → D1 riguarda i Sacramenti ed è composto da 5 distinzioni.
All’interno dei canoni ci sono i dicta che sono delle note teoriche, dei tentativi di riconciliazione delle
antinomie.
I dicta si possono trovare sia all’inizio che alla fine dei canoni:
D50daC1 = distinctio 50 dicta ante canone 1
D50dpC1 = distinctio 50 dicta post canone 1
All’interno dei dicta sono presenti molti passi tratti dalla glossa ordinaria alla bibbia, e vengono attribuiti a
Strabone a partire dal periodo carolingio. È stato dimostrato invece che fosse opera di Raoul e Anselmo di
Laon, importanti maestri di teologia per XI secolo, che saranno gli insegnanti di Abelardo.
All’interno dei dicta si trova il metodo della distinctio e quattro orazioni:
71
11 ratio significationes : senso che gli autori volevano dare ai testi, cioè l’odierna ratio legis a tutela di
realtà diverse;
111 ratio temporis: due norme non sono in contrasto fra loro perché emanate in tempi diversi,
criterio temporale: la posteriore deroga l’anteriore;
111 ratio loci: le norme sono state promulgate per contesti territoriali diversi e quindi la norma
particolare deroga la generale;
111 ratio despensationis: un rapporto di regola eccezione fra le norme; cessate la necessità
che hanno indotto la regola generale cesserà anche la particolare.
Per il diritto canonico le uniche norme che non sono soggette a dispensa sono le regole di diritto naturale. Le
dispense sono concesse solo dal papa.
Per quanto riguarda il decreto di Graziano vi sono molti problemi in ordine alla datazione e a lui stesso. Per
quanto riguarda la datazione, la storiografia si orienta fra il 1140 e il 1150 perché all’interno dell’opera ci
sono canoni del I concilio lateranense (1123) e del II concilio lateranense (1139), non si trovano invece
canoni del III (1179).
Il Vetulani, studioso polacco del primo 900, sostiene che il decreto debba essere datato verso i primi anni 20
del 1100. Questo studioso si accorse che nell’opera erano presenti dei passi di diritto romano, sicuramente
inseriti successivamente alla prima stesura.
Gli studi hanno evidenziato delle differenze nella scrittura del manoscritto.
Friedberg, alla fine del 1800, fa una interpretazione critica di sette manoscritti di origine tedesca.
Presentavano forti divergenze con altri manoscritti presenti in Europa, alcuni presentavano un decreto in
forma abbreviata con una struttura diversa dalle altre, era mancante della terza parte e di una parte del De
penitentia.
Questi manoscritti furono considerati fino al 90 come delle abbreviazioni, riduzioni del decreto originale.
Erano invece dei testi scritti dallo stesso autore in periodi successivi. Il testo entrato nelle scuole dei diritto
aveva quindi subito delle profonde variazioni, aggiungendo canoni di diritto romano che prendono il nome di
palee.
Di Graziano si sa poco, sicuramente era presente a Venezia nel 1143.
Martedì 24.04.2007
Nel 1917 la Chiesa si dà un codice, ed è l'ultima istituzione a farlo: il Corpus Iuris Canonici (modificato nel
1983). Esso è composto da:
11 Decretum;
11 Liber extra (1234) Gregorio IX;
11 Liber sextus (1289) Bonifacio VIII;
11 Clementinae (Clemente V);
11 Extravagantes et Extravangantes communes (Giovanni XXII).
Il Decretum raccoglie fonti eterogenee, mentre le altre sono collezioni di decretali. Il Migne (seconda metà
del 1800) effettua due raccolte di manoscritti e raccoglie opere dei latini e dei greci, fin dai primi secoli:
Patrologia latina (all'incirca 216 tomi, scritti verso tra il 1844 e 1867);
Patrologia greca (166 volumi, scritti verso tra il 1857 e 1866).
Il Decreto di Burcardo di Wroms è contenuto nella Patrologia latina, nel tomo 160. Di quest'opera fu fatta
un'edizione critica nel 1970. Perciò l'edizione del Migne (era un abate) era fallace perché si basava solo su
tre manoscritti e riprendeva l'edizione cinquecentina del 1549 (dopo l'invenzione della stampa, prima
manoscritti fatti con fogli di pergamena che era fatta di pelle di pecora).
Le collezioni canoniche si suddividono in due grandi gruppi:
72
Riforma carolina:
pseudo isidoriana – decretali pseudo isidoriane.
Riforma gregoriana:
Ivo di Chartres;
Bernoldo da Costanza;
Algero da Liegi;
Decreto di Graziano.
Prima del Decreto di Graziano, era tutto ius antico della Chiesa, mentre le raccolte di decretali fanno parte
dello Ius Novum che si sviluppa dalle decretali che diventeranno norme di ius generale.
Fino al sec. VIII ci sono raccolte di carattere cronologico. Il Liber Decretum di Burcardo si pone a cavallo di
queste due epoche, perché presenta caratteri precedenti a lui.
Importante per tutte le raccolte successive decretali pseudo isidoriane, riporta problemi falsi. La raccolta
pseudo isidoriana è una tra le raccolte più significative, soprattutto per la mole di manoscritti che circolano.
Il nome Isidoro evoca ai medioevali il Vescovo di Siviglia (V sec.), il più importante Vescovo e saggio.
“L'etimologia” verrà ripresa completamente da Graziano nelle prime ???? della prima parte (trattato delle
fonti).
La “Pseudo” isidoriana, (perché venne attribuita a Isidoro di Siviglia) è la più importante dei falsi della storia
canonistica. La sua paternità è incerta.
Per dare autorità alle fonti, bisognava dotarle di antichità: più erano antiche e più avevano valore. Questa
massima viene ripresa, per quanto riguarda la canonistica, da una lettera di Isidoro di Siviglia. La lettera si
trova nella patrologia latina tomo 83; epistola G, che il vescovo spedisce a Massone di Merida.
Nella colonna 901, paragrafo 13 → se c'è una discordanza nei concili, l'autorità più antica o la migliore.
Questa massima diventa il principio che muove le falsificazioni.
Infatti la falsificazione non è un prodotto di fantasia dell'autore, ma si cerca di retrodatare concilii, lettere
decretali, o attribuirli a una persona che gode di un'alta autorità all'interno della Chiesa. Per quanto riguarda
le pseudo isidoriane sono state a lungo considerate di Isidoro di Siviglia, attribuendogli appunto falsamente
ad un autore dotato di grande autorità.
La falsificazione è sempre solo di tipo formale, mai sostanziale. La falsificazione inoltre si ritrova non solo nel
campo ecclesiastico ma anche nei rapporti tra privati; molti infatti in questo periodo sono gli atti mendaci,
basti ricordare che Rotari nel suo editto prevedeva il taglio della mano per quei notai che avevano prodotto
un falso (infedeli).
La falsificazione si basa sul concetto dell'autorità e autenticità; un concetto diverso da quello dei nostri tempi.
Infatti, oggi un atto per essere autentico deve essere munito di data, paternità e luogo ove è stato redatto,
mentre per i medioevali un testo è autentico nel momento in cui è rivestito di auctoritas, e questa auctoritas
nel caso della Chiesa era rappresentata da tutti quei testi (sacri) il cui fine era la salvezza, anche perché essi
rappresentavano la veritas.
La società medioevale era infatti fortemente spirituale, quindi il falsario nel momento in cui faceva un falso
poteva essere salvato laddove agisse nell'interesse della comunità dei fedeli e quindi della Chiesa stessa.
Infatti la Chiesa conosceva il reato di mendacium →la volontà di creare un falso ingannado il prossimo per
un interesse privato. Non è questo il caso delle falsificazioni. Si trattava di un peccato che riguardava la
persona e che non andava a colpire il popolo.
Le falsificazioni isidoriane passano alla tradizione e perdono la caratteristica della falsificazione diventando
vere e proprie fonti.
Decretorum libri XX di Burcardo (edizione critica curata da Fransen Gerard).
Molti autori dei primo del 900, tra i quali Fournier (il primo a fare una storia sulle collezioni canoniche)
considera il decreto di Burcardo opera di scarso interesse. Sarà ad opera di Fransen che se ne avrà una
rivalutazione con la pubblicazione in una edizione critica che si basa su un grande numero di manoscritti e
quindi perde importanza l'edizione curata dal Migne. 73
Come molte collezioni di canoni, il decreto è preceduto da una prefazione, molto importante per capire
l'intento dell'autore; le prefazioni saranno molto importanti per le collezioni della c.d. pre-riforma gregoriana.
All'interno delle prefazioni si trovano le prime indicazioni per concordare le antinomie tra le fonti.
C'è un incipit, con una lettera dedicatoria. Le collezioni canoniche hanno un'intitolazione, delle rubriche (nei
manoscritto sono in rosso) e accompagnano l'inizio di ogni canone).
La rubrica ha carattere sintetico e descrivono il canone che seguirà (in breve quindi). Perché è proprio il
canone che ci dà il principio.
Nel decreto di Graziano i dicta si pongono in basso o subito dopo la rubrica.
Burcardo (965 – 1025) nasce da una famiglia nobile di Esse (sotto l'impero dei Sassoni). Ottone III lo
eleggerà Vescovo di Worms (1000 – 1025). Ottone III venne istruito da Geberto di Aurillac. Burcardo avrà un
rapporto privilegiato con Ottone III e farà parte della schiera dei seguaci dell'imperatore. Burcardo darà
importanza anche all'imperatore (oltre che al Papa) . Infatti i concilii per tutto il medioevo sono indetti dagli
imperatori.
Il Decreto di Burcardo è formato da 20 libri, divisi in titoli e poi in canoni:
sugli Ordini sacri; sulla Chiesa; sul Battesimo e sulla Cresima; sull'Omicidio; sul Matrimonio; sull'Imperatore,
principi e laici; sulla fornicazione. Poi abbiamo un testo molto importante (libro IXX) sui penitenziali. Il XX
libro è un trattato sulla dogmatica che è stato introdotto dai riformatori gregoriani, tratta della escatologia e di
tutte le dottrine che riguardano il destino finale dell'uomo.
Burcardo utilizza fonti che trae da collezioni precedenti, come:
Canoni dei concilii; capitolari; brani patristici (ma se ne trovano in numero minore rispetto al periodo
successivo della riforma gregoriana, ma che sono importanti perché creeranno quella sorta di commistione
tra diritto e teologia); frammenti di diritto romano; brani biblici ( o meglio delle sacre scritture); penitenziali
(raccolte per i confessori che contengono dei tariffari (pene) per le colpe, mettendo in evidenza l'intento
pratico dell'opera ma saranno scarsamente considerati dai riformatori gregoriani).
Il merito di questa raccolta è di aver raccolto circa 1785 canoni o frammenti e per la prima volta sono raccolti
con carattere sistematico e non cronologico.
L'opera si trova a cavallo tra la riforma carolina e la riforma gregoriana, perché pur riservando un ruolo
importante al Papa di Roma, non disconosce il potere dell'Imperatore e le sue ingerenza. Inoltre si trova in
completa antitesi con quei principi spirituali che sono molto sentiti tra i riformatori gregoriani che combattono
contro il nicolaismo (concubinato e matrimonio dei vescovi e di tutto il clero). Infatti, all'interno del decreto
troviamo passi di piena tolleranza di questa pratica; inoltre Burcardo, di origine tedesca, riconsce il valore
dell'ordalia, che gli autori successive della riforma gregoriana che elimineranno a favore di una prova
testimoniale.
Si deve tuttavia notare che si riconosce per la prima volta l'importanza delle lettere decretali e l'importanza
dell'approvazione dei concili da parte del Papa di Roma, pratica che diventerà prassi dopo la riforma
gregoriana.
I riformatori gregoriana modificarono l'opera, aggiungendo e tagliando in più punto (ad esempio il XX libro è
stato aggiunto successivamente). Il testo di Burcardo (a differenza di quello di Graziano) non è normalmente
considerato un testo vivo (che subisce cioè continue trasformazioni nel tempo).
L'autore utilizza il termine “libelli” e non di decreto come si fa di solito, questo probabilmente evidenziando
l'umiltà con cui Burcardo ha compiuto l'opera. Il testo prosegue scrivendo questo testo all'episcopo Brunico,
suo fedele vassallo, preposto alla sua stessa sede. Il testo prosegue dicendo che per molti giorni, questo suo
familiare e intimo carissimo fratello lo ha esortato a scrivere il testo. Prosegue inoltre indicando le fonti che
utilizzerà, mettendo insieme in un unico corpo, passi tratti dalle sentenze dei padri, dai canoni e dai diversi
penitenziali, affinché questa raccolta possa essere d'aiuto a tutta la comunità. ...E specialmente perché,
all'interno delle diocesi, in diritto dei canoni, e il giudizio sulle pene sono confusi e vari; e come se essi
fossero completamenti trascurate: un'esigenza pratica dovuta alla confusione e all'impoverimento degli usi e
costumi dell'età carolingia.
Una parte importante (pag. 46), VI libro, che indica i destinatari dell'opera: i discepoli (scolari), i maestri
(d'arte) e i dottori, affinché gli studenti possano apprendere ciò che un giorno dovranno dire.
L'opera verrà utilizzata con scopi diversi dagli intenti dell'autore e sarà utilizzata come fonte da diversi autori
(più in Francia che nel territorio italico - Graziano non la utilizzerà molto nella sua C.D.C.). È comunque una
tappa importante perché la ritroveremo in molti testi e soprattutto per il suo carattere sistematico e non più
cronologico. 74
Bernoldo da Costanza. Le opere di Bernoldo si trovano in PL 148 (Patrologia Latina) in MGH
(Monumenta Germaniae Historica).
Tractatus de vitanda excommunictorium comunione de reconciliatione lapsorum (1081)
Tractatus de prudenti dispensatione eccleesiasticarum sanctionum
Bernoldo nasce in Germania nel 1054 († 1100) da un prete sposato, viene istruito da Bernaldo che fu
sostenitore della riforma gregoriana. Per tutta la vita le sue opere si caratterizzarono per un forte sostegno
alla riforma stessa.
Compone delle cronache sui papi e i libelli, che ci vengono tramandate da un unico manoscritto (di S. Paul)
che contiene appunto tutti i suoi scritti, meno tre, e che fu trovato nel XVIII secolo da uno studioso tedesco.
Bernoldo viene eletto nel 1088 Vescovo di Costanza da Ottone, futuro papa Urbano II, legatario del papa
Gregorio VII.
Con Urbano II prenderà vigore la dispensa come sistema di regola/eccezione all’interno del diritto canonico.
Già con Gregorio si inizia a sentire il problema della fonti.
In questo periodo i passi della Chiesa assumono nuovo importanza. Secondo Bernoldo non può esistere
contraddizione fra i testi canonici perché come nessuno si azzarda a dire che all’interno dei passi della
Bibbia vi siano delle contraddizioni, lo stesso deve avvenire per i testi canonici. Pur tuttavia molti scrittori
successivamente trovarono nella Bibbia, sia nel vecchio che nel nuovo testamento delle contraddizioni.
La datazione è incerta. L’opera si divide in due parti, la prima tratta della scomunica e della
111
riconciliazione dei lapsi. La seconda, per la prima volta, tratta delle fonti del diritto canonico. Nell’ultima
parte vengono esposte delle regole di interpretazione delle antinomie fra le fonti.
Per la prima volta in un testo si tratta di regole ermeneutiche tanto che molti scrittori, fra cui Grabmann e
Fournier, considerano Bernoldo come il creatore del metodo scolastico e quindi di quel metodo di
contrapposizione e di risoluzione delle antinomie attraverso l’utilizzo della dialettica, quindi di un metodo
scientifico e razionale.
La storiografia ne riconosce la primogenia ad Abelardo; Grabmann sostiene che se venisse comparato il
prologo del Sic et Non di Abelardo con le regole che si trovano nelle varie opere di Bernoldo, sarebbe
chiaro che è il primo a trarre dal secondo piuttosto che essere un innovatore lui stesso.
Le regole sono (colonna 1058):
11 confrontare i vari canoni , con le diverse sentenze, poiché la lettura di un canone potrà chiarirne altri;
11 considerando i contesti di tempo, luogo o persona , ci potremmo accorgere che una norma
ricontestualizzata (nel tempo, luogo e persone) può essere né assurda né contraddittoria;
11 non omettere di analizzare le cause, i motivi e le origini di quelle statuizioni, andando ad indagare in
tutte le statuizioni precedenti e successive;
11 indagare sulla dispensa . Poiché i santi Padri possono aver promulgato dei canoni per dispensa e
quindi necessari in un determinato periodo o essere delle norme di carattere generale (quindi non
essere soggette a dispensa e valere per sempre).
Queste regole vengono ritrovate anche ampliate in scritti di autori successivi. Bernoldo per primo attribuisce
la possibilità di dispensa al papa. Nella seconda parte si parla delle fonti del diritto canonico.
Nella colonna 1194 si trova scritto:
“Per quanto riguarda le istituzioni della chiesa una parte viene dagli Apostoli, una parte dai pontefici della
chiesa (decretali, decreta e rescripta), parte dagli scritti dei Padri, che poi i pontefici romani confermarono”
Essendo i primi concili promulgati dal papa per i canoni emessi in queste situazioni non vi era necessità di
verifica della loro veridicità. Per eliminare la possibilità di scritti apocrifi era necessaria, prima del loro utilizzo,
la conferma dei canoni da parte del pontefice di Roma.
Non venne eliminato del tutto il problema perché all’interno di una collezione contenente scritti il cui testo è
stato verificato e confermato dai pontefici, può essere stato inserito successivamente uno scritto apocrifo.
75
Per quanto riguarda le fonti, Bernoldo non pone una gerarchia; per lui tutti gli atti che provengono dal papa
hanno un valore superiore a quelli dei concili ecumenici o provinciali. Vedeva infatti nella figura del papa, la
massima autorità della cristianità.
Nello stesso trattato Bernoldo afferma che il papa di Roma è il Judex totius ecclesiae.
Invita ad investigare in tutti i manoscritti, a ricercare nelle varie edizioni, opere o manoscritti, per meglio
comprendere gli eventuali passi oscuri. Infatti soprattutto all’inizio gli atti dei concili erano in greco e nella
traduzione potevano esserci degli errori.
Questa regola è importante perché ne farà uso Aberlardo nel Sic et Non.
La lettera a cui Bernoldo risponde introducendo questa regola gli era stata inviata da Weihrich di Treviri.
Fino alla riforma gregoriana tutti i concili, sia ecumenici che provinciali erano indetti dall’imperatore. Molti
canoni potevano perciò confliggere con quanto era sostenuto dal papa, Per ovviare a canoni non concordi
Bernoldo sostenne che il papa doveva confermare quanto sostenuto nei canoni dei vari concili. Tutti i
canoni non confermati non dovevano essere seguiti. Da Gregorio VII in poi il problema non sussisterà più in
quanto i concili erano indetti dal papa stesso.
Per quanto riguarda il secondo trattato, la data di scrittura è indicativamente fissata nel 1091; è un
111
piccolo trattato che contiene le opinioni dei Padri, apparentemente contrastanti con riguardo ai
sacramenti amministrati da coloro che sono stati scomunicati.
“Bisognerà indagare negli scritti con animo aperto, intelligenza attenta a cogliere ogni aspetto e particolare,
così ciò che a primo adito ci pare contraddittorio, in realtà non lo è”
In quest’opera Bernoldo ritorna sugli apocrifi, nella colonna 1267:
“Ci sono molti passi dei Padri falsamente ascritti, apocrifi”
Pone l’accento sulle ritrattazioni, prendendo spunto da S. Agostino che alla fine della vita scrive le
“Ritrattazioni”, in cui fa una riconsiderazione delle sue opinioni espresse precedentemente, modificando il
suo pensiero.
Anche Abelardo si rifà a questa regola: in caso di antinomie è necessario verificare se vi è stata ritrattazione
da parte dell’autore.
Emerge la necessità di trovare regole per eliminare le antinomie fra le fonti ma anche per attuare seppure
sporadicamente delle conciliazioni.
Ivo di Chartres fu autore di tre compilazioni: il Decretum (1092) che contiene 3757 canoni, la Panormia e la
Tripartita.
Il Decretum è una raccolta sistematica molto importante per il periodo in quanto il reperimento dei canoni
non era compito semplice.
Gli estratti delle raccolte dei passi dei Padri della Chiesa (S.Agostino, S. Ambrogio) erano detti florilegia.
Il Prologo è considerato un vero e proprio trattato di ermeneutica e comprendeva il Decretum e la
Panormia (riduzione del decretum). La Tripartita è invece una collezione divisa in tre parti.
Algero da Liegi fu invece autore del Liber de Misericordia e justitia.
Ieri abbiamo parlato delle glosse in parallelo.
Oggi parleremo di altri generi letterali utilizzati dalla scuola dei glossatori, incontrando da un lato summae e
summule, e dall’altro solutiones contrariorum e questiones.
SUMMAE Non cadiamo nell’errore di pensare che siano dei sunti. In realtà sono cosa ben diversa: sono
una trattazione sistematica e completa di alcune parti del Corpus Iuris giustinianeo(soprattutto il Codex). La
loro caratteristica più evidente è l’assenza del testo di legge originale posto a latere(così come l’abbiamo
incontrato nelle glosse in parallelo), che viene però spiegato ed articolato attraverso un vero e proprio
ragionamento che si colloca all’interno del corpo del testo. Questo ragionamento trae sempre il primo passo
dall’analisi delle singole parole(così come avveniva nelle prime glossette), ma l’interpretazione che ne
scaturisce è riproposta in modo argomentato e costituisce il corpo del testo. Abbiamo visto ieri che le glosse
di similia mettevano in relazione tra loro varie parti del corpus ricreando l’intero panorama normativo
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I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Moses di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del diritto italiano 1 e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Trento - Unitn o del prof Natalini Cecilia.
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