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PER SOLDUM ET LIBRAM PRO RATA CREDITORUM, detto
anche CRITERIO DEL CONCORSO, si ovviava al criterio della
graduazione e ogni credito si pagava in proporzione all’attivo, ossia
si stabiliva che rapporto c’era l’attivo e il passivo e ciascun creditore
sulla base di quel rapporto sarebbe stato soddisfatto. Se, ad
esempio, ci sono tre creditori, il primo ha un credito di 5000, il
secondo di 3000 e il terzo di 2000, dunque vi è un passivo
fallimentare di 10000, e l’attivo fallimentare è 1000, sia secondo il
criterio della meritevolezza intrinseca sia secondo il criterio del
tempo tutto andrebbe al primo, invece con il criterio del concorso,
poiché l’attivo è il 10% del passivo, ogni creditore ha diritto al 10%
di quanto avrebbe diritto. Questo criterio aveva delle proprie
eccezioni nella tutela del ceto mercantile e la prima eccezione è
quella della dote che era in prededuzione, cioè la dote veniva
estromessa dall’attivo fallimentare. La funzione della dote, infatti,
era quella di sostenere le spese matrimoniali e veniva portata dalla
moglie al marito che diveniva l’unico amministratore del patrimonio
della famiglia, dunque in caso di fallimento la dote tornava alla
moglie ricorrendo ad una finzione, cioè si equiparò il fallimento alla
morte del marito. La moglie del mercante fallito generalmente era
figlie di mercanti e ciò rientrava nella tutela del ceto mercantile. Man
mano che ci si avvicina all’età moderna abbiamo delle eccezioni
vere e proprie, cioè vengono individuati dei crediti, come i crediti
della repubblica, che non possono essere considerati alla pari degli
altri crediti ma costituiscono un’eccezione. Nel 1548 una
provvisione di Cosimo I de Medici stabiliva che i detentori delle
cose del fallito potevano soddisfarsi su queste e, qualora vi fosse
un residuo del proprio credito, vi era un concorso con gli altri
creditori. 19/11/15
Nello statuto mercantile di Bologna del 1509 vengono inseriti varie
eccezioni al concorso come i crediti del comune e i crediti garantiti
da fideiussione e i crediti garantiti da pegno, addirittura in questo
statuto si escludevano dal concorso i crediti il cui titolo risultasse da
atto pubblico precedente di 12 anni dal fallimento esclusi i crediti
commerciali. In una addizione, cioè un’aggiunta alle rubriche
precedenti, del 1577 il legislatore si rende conto della compresenza
dei due criteri, dunque considera principalmente il criterio del
concorso ma quello della graduazione comincia ad essere proposto
e ad essere visto come conforme al diritto comune. Nell’addizione a
questo statuto del 1609 il legislatore bolognese abbassa quel
termine di 12 anni a 5 anni e poi a 4 anni e il criterio del concorso
viene visto come privilegio riconosciuto ai mercanti e ciò porta ad
un capovolgimento della prospettiva perché la graduazione ritorna
ad essere la regola generale e il criterio del concorso diviene la
regola particolare. Nel regio edicto del 1733 del duca Carlo
Emanuele III di Savoia vi è il ritorno all’antico realizzata in maniera
perfetta, ovvero la dimostrazione di come lo stato assoluto spazzi
via il diritto mercantile cancellando l’idea del concorso e stabilendo
di collocare ognuno dei creditori secondo la propria anteriorità. Il
concordato fallimentare è l’accordo tra le parti, cioè tra creditore e
fallito, in pendenza del fallimento che ha l’effetto di chiudere il
fallimento, dunque una sorta di transazione di tipo particolare fatta
nell’esclusivo interesse dei creditori e la transazione è
il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni,
pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che
può sorgere tra loro. il concordato fallimentare era un accordo sic
stantibus rebus, cioè, stando così il fallito, pagava secondo quello
che aveva ma se in futuro avesse avuto un altro patrimonio avrebbe
dovuto finire di pagare i propri debiti e il fallimento teneva conto sia
del numero dei creditori sia dell’ammontare dei crediti. Il primo
effetto ovvio del fallimento è la regolamentazione dei rapporti tra
creditore e debitore secondo l’accordo concordato, l’altro effetto è
che questo concordato comporta la rimozione del bando, ossia il
fallito può ricominciare la propria attività come faceva prima. Per
quanto riguarda le sanzioni accessorie, si varia da città a città. Il
salva-condotto era un istituto che serviva nell’agevolare la
stipulazione del concordato. Sussiste un’eccezione significativa a
questo modo di vedere il concordato e il salva-condotto, cioè la
LEGISLAZIONE VENEZIANA che, oltre ad avere particolarità
tecnologiche, ha una politica del diritto diversa in quanto si tiene in
considerazione anche l’interesse del fallito, infatti il fallimento non
doveva ritenersi doloso se il fuggito consegnava patrimonio e
scritture contabili e il salva-condotto doveva essere concesso
automaticamente affinchè il fallito potesse stipulare il concordato
poiché era cosa doverosa dare aiuto a coloro che fallivano. Il
professore veneto Zordan sostiene che la particolarità della
legislazione veneziana è dovuta alla propria insularità. In realtà
Venezia era la città che aveva più rapporti con l’Oriente e questo
faceva sì che a Venezia ci fossero numerosi fallimenti dovuti anche
agli infortuni dei mercanti durante i viaggi. Quando Venezia si
espande fino ad arrivare all’Adda deve fare i conti con un diritto
diverso dal proprio e con le proteste dei mercanti di terra ferma che
vogliono mantenere il proprio diritto. di conseguenza nello statuto
mantovano del 1520 il fallimento viene visto come reato e viene
stabilito che la fida, cioè il salva-condotto doveva essere connesso
d’ufficio senza i l parere dei creditori i quali a propria volta non
dovevano obbligatoriamente attuare il concordato. Tuttavia i
mercanti veneziani si rivolgono al doge insoddisfatti della facilità di
risolvere i fallimenti e il doge interviene in una ducale stabilendo
che i salva-condotti dovevano essere accordati con il consenso di
creditori e fallito, pena la revoca, inoltre viene ribadito
l’atteggiamento di pietas che il fallito meritava da parte dei creditori
dicendo che i magistrati dovevano cercare di convincere i creditori
ad attuare il concordato.
CONTRATTO DI SOCIETA’ 23/11/15
Il contratto di società è quel contratto con il quale due o più persone
conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività
economica allo scopo di dividerne gli utili. Questa nozione è
apparentemente perfetta, infatti contiene un elemento oggettivo,
cioè due o più persone, c'è un elemento materiale, cioè beni e
servizi, e c'è un elemento teleologico, cioè lo scopo di dividerne gli
utili. Tuttavia, come diceva Giavoleno, ogni definizione nel diritto
civile é pericolosa perché dà luogo a delle problematiche
interpretative non di seconda rilevanza. Se andiamo a vedere con
un'analisi storica gli antecedenti normativi di questa
disposizione,constatiamo nel codice civile italiano del 1865 la
definizione di contratto di società che fa riferimento non alla società
commerciale ma alla società civile ed è una definizione identica a
quella attuale ad eccezione del fatto che la definizione del codice
del 1865 fa riferimento alla comunione a scopo di godimento.
Accanto alla ricostruzione storica possiamo vedere nel nostro
codice se ci sono elementi di connessione con altri articoli riguardo
al tema della società. Se confrontiamo l'ART. 2082 e l'ART. 2247, in
entrambi si parla di impresa ma nel primo di impresa personale
nell'altro di impresa collettiva. Il profilo del contratto è disciplinato
dal codice civile e fa sì che si possano delineare i rapporti tra soci e
tra soci e terzi, invece l'aspetto dell'impresa come istituzione
collettiva era disciplinato dal codice di commercio. La nozione
dell'ART. 2247 presenta una particolarità, cioè il fatto che si basi sul
l'esercizio IN COMUNE dell'attività economica. Perciò ci sono stati
dei tentativi di interpretare in maniera elastica quest'aspetto
dell'attività economica in comune per rendere più blanda la
definizione contenuta nell'ART. 2247, ad esempio Galgano
sottolinea come l'esercizio comune coincida con l'assunzione del
rischio ma ciò risulta una forzatura perché ci possono essere
conseguenze anche in una società personale. Alcuni autori hanno
cercato di spiegare la complessità nata dall'ART. 2247 facendo
riferimento ad una distinzione tra la società di persone e la società
di capitali, come le società per azioni, che vedono il prevalere
dell'aspetto patrimoniale prevalente su quello personale. Secondo
alcuni questa ripartizione avrebbe una sua origine nel XVI secolo
con la nascita del capitalismo, in realtà questa distinzione ha origini
medievali, infatti l'attività economica svolta dalle società ha una
ragion d'essere che le portano ad avere fini diversi escludendo
l'univocità e proprio nel Medioevo sono nate società con l'esercizio
in comune e società con soci che si occupano del conferimento dei
beni e del soddisfacimento dei propri esclusivi interessi, o meglio vi
è la società propriamente detta, che è esemplata sulla compagnia
medievale, e vi è la società impropriamente detta, che trova propria
origine nei contratti di finanziamento basso-medievali come i
contratti di commenda dove i finanziatori sovvenzionavano il
mercante che era l'unico a svolgere l'attività economica. La società
propriamente detta si basa fondamentalmente sulla famiglia il che
non significa coincidenza con la famiglia stessa. Intanto dobbiamo
dire che la famiglia mercantile del basso-medioevo era l'insieme dei
padri, dei fratelli, dei figli legittimi e non legittimi, delle sorelle, delle
madre e delle nuore. Se il padre svolgeva l'attività di mercante, tutti
svolgevano l'attività di mercante non obbligatoriamente tutti
insieme, ad esempio nelle filiali c'erano i figli e in caso di fallimento
tutti i soci fallivano. Naturalmente famiglia e compagnia non erano
la stessa cosa perché la compagnia non era un consorzio di tutta la
vita ma dava una via d'uscita ai soci saldando crediti e debiti, inoltre
nella compagnia ci potevano essere degli estranei, ossia soggetti
non legati da vincoli di parentela,