vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Al paragone del conoscere della filosofia quello della poesia sembrò diverso e, più che un conoscere, un
produrre, un foggiare, un plasmare.
Ma affinché l’universalità, la divinità e la comicità che le si attribuisce, non venga fraintesa e materializzata
col restringerla esclusivamente a un particolare tono di poesia, o, peggio ancora, non se ne faccia il
programma di una poesia da attuare e di una scuola che dovrebbe a ciò attendere, giova tradurre quelle parole
in altre che meno si prestano a siffatto equivoco.
Il più umile canto popolare, se un raggio d’umanità vi splende, è poesia, e può stare a fronte di qualsiasi altra
e sublime poesia.
A rendere l’impressione che la poesia lascia di sé nelle anime, è affiorata spontanea sulle labbra la parola
“malinconia”, ma è nondimeno l’aiuola dove noi godiamo, soffriamo e sogniamo, questo innalzarsi della
poesia al cielo è insieme un guardarsi indietro che, senza rimpiangere, ha pur del rimpianto.
La poesia è piuttosto il tramonto dell’amore nell’euthanasia del ricordo.
c) L’espressione prosastica: l’espressione prosastica non altrimenti si distingue dalla poetica se non come la
fantasia dal pensiero, il poetare dal filosofare.
Si afferma che dentro la poesia deve lavorare e lavora la critica, senza di cui non si conseguirebbe la
perfezione o bellezza. Ma la critica vera e propria, consistendo nella distinzione del reale dall’irreale, scolora
e fa morire la poesia.
Non certamente i veri poeti hanno il parto facile, e non è buon segno la facilità onde ogni cosa si tramuta
subito in verso.
Rifiutando l’estraneo e inefficace intervento della critica nella creazione della poesia, ammonendo che a colui
a cui “natura non volle dire” la parola della poesia, non la diranno “mille Ateni e mille Rome”, si rigetta il
contraddittorio concetto di genio privo di gusto e si ribadisce per contro l’unità e identità di genio e gusto.
Giudicare importa qualificare distinguendo il reale dall’irreale, che è quanto la poesia non fa e non può fare e
non cura di fare, beata di sé stessa.
Ora, se il pensiero non ha altro ufficio che di discernere le immagini del reale da quelle dell’irreale,
l’espressione prosastica, diversamente dalla poetica, non consisterà in espressioni di affetti e sentimenti, ma
di determinazioni del pensiero; non dunque in immagini, ma in simboli o segni di concetti.
Diverso e opposto è l’ideale che il prosatore coltiva o che non va verso la sensuosità dell’immagine ma verso
la castità del segno. In quanto è simbolo o segno, l’espressione prosastica non è parola, come per un altro
verso non è parola la manifestazione naturale del sentimento, o sola parola è veramente l’espressione poetica;
il che scopre il senso profondo dell’antico detto che la poesia è “la lingua materna del genere umano”, e
dell’altro che “i poeti vennero al mondo innanzi dei prosatori”. La poesia è il linguaggio nel suo essere
genuino.
La prima parola, non fu un vocabolo da vocabolario, ma un’espressione in sé compiuta, la prima poesia. Si
pensò che quel primo e poetico linguaggio poi si pervertisse e decadesse a lingua pratica e strumento
utilitario, e solo per miracolo di genio venisse di tanto in tanto ritrovato da pochi eletti, che ne facevano
riscaturire e riscintillare al sole il lucido ruscelletto.
Ma il linguaggio non si è mai pervertito e non ha mai perso la propria poetica natura; e quella immaginaria
lingua utilitaria non è altro che il complesso delle espressioni impoetiche, cioè, delle sentimentali e delle
prosastiche, e infine delle oratorie.
Anche nel quotidiano esprimersi e conversare, è dato vedere se, come di continuo, s’innovino e s’inventino
immaginosamente le parole e fiorisca la poesia, una poesia dei più vari toni, severa e sublime, tenera,
graziosa e sorridente.
d) L’espressione oratoria: dei suoni articolati si vale l’attività pratica per suscitare particolari stati d’animo,
ed è questa l’espressione oratoria. Per l’oratoria possiamo semplificare con gl’imperativi: “Orsù!”, “Presto!”,
“Via!”, “Giù”, e simili. Ma essa se ne vale come suoni e non come parole.
L’espressione oratoria si distingue da ogni altra sorta di pratica solo empiricamente, e non per alcun carattere
sostanziale. Gli antichi retori, oltre il persuadere, davano a compito dell’oratore anche il “docere” e il
“delectare”.
L’ampliamento dell’oratoria, sì da accogliere insieme col fine del persuadere l’altro dell’intrattenere, pone,
accanto all’oratore dei tribunali e delle assemblee, gli operatori di commozioni per intrattenimento, dalle più
gravi e tragiche alle più leggere e giocose, dalle sacre alla profane, dalle più elevate alle più basse:
drammaturgi, romanzieri, attori, mimi, buffoni, equilibristi, atleti.
L’oratoria è una forza impoetica, antiletteraria, istrionica.
Ragionevolmente, gli antichi retori insistevano che l’arte oratoria non dovesse giudicarsi “ab eventu”, cioè
dall’ottenere nel caso particolare l’effetto a cui mirava e che era la persuasione. Anche le opere
d’intrattenimento si giudicano solo dal modo in cui si dispongono i mezzi a ciò adatti, e non dall’effetto.
L’arte oratoria è di natura pratica e non già estetica, peperò va commisurata alla qualità delle persone sulle
quali deve esercitarsi.
Affermava Quintiliano, poeti e oratori si danneggiano a vicenda se non tengono sempre presente che “sua
cuique proposita est lex, suus cuique decor”.
Come l’oratoria d’intrattenimento ebbe avversari che addirittura le negavano il diritto all’esistenza; così
quella di persuasione già fin dall’antichità fu riprovata, e definita “fallendi ars”, non retta da “bona
coscientia”, ma solo dalla perseguita “victoria litigantis”.
Kant afferma la sua totale disistima per l’oratoria, in quanto arte che si giova delle debolezze degli uomini. Il
fiorire dell’oratoria andò a paro con la decadenza dello stato e delle virtù patriottiche in Atene e Roma.
L’uomo di cuore caldo e generoso parla con efficacia ma senz’arte.
e) Il “ricorso”: l’azione, giunta a compimento, si rivolge su sé stessa, par che torni indietro, si rifà
sentimento, e col sentimento ricomincia un nuovo ciclo.
Il sentimento nella sua autonomia extrapoetica non è altro che la stessa vita pratica, la quale è, tutt’insieme,
azione e sentimento dell’azione, azione e piacere e dolore. E la pratica si chiama “sentimento” solo nel suo
passare a materia di teòresi, quando, non essendo più attualità di azione, è sentita e riguardata nel solo aspetto
di passione.
La risoluzione del concetto di sentimento in quello di vita pratica salda il circolo spirituale.
Il poeta, come Ulisse, come Enea, è “multa passus”, e, nondimeno, che cosa ammirava Federico Schiller in
Volfango Goethe, così esperto di tante passioni, così intellettuale e così affinato di cultura, se non, proprio,
l’ingenuità?
f) L’espressione letteraria: l’espressione letteraria nasce da un particolare atto di economia spirituale, che si
configura in una particolare disposizione e istituzione.
L’espressione letteraria è una delle parti della civiltà e dell’educazione, simile alla cortesia e al galateo, e
consiste nell’attuata armonia tra le espressioni non poetiche, cioè le passionali, prosastiche e oratorie o
eccitanti, e quelle poetiche, in modo che le prime, nel loro corso, pur senza rinnegare sé stesse, non
offendano la coscienza poetica e artistica. E perciò, se la poesia è la lingua materna del genere umano, la
letteratura è la sua istitutrice nella civiltà.
“Ornatus” veniva definita la forma letteraria, la forma “elegante”. Bisognava però sempre avere un riguardo
al contenuto, al quale bisognava sempre aver l’occhio, studiando quel che gli era conveniente. Se ciò non si
osserva, l’espressione cade nella varia affettazione del preziosismo, della pedanteria, della gonfiezza, della
leccatura; come, d’altro lato, col trascurare l’ornato, ricasca nella primitiva rozzezza.
Si modifica il “genio”, prendendo l’altro nome, che ha la medesima etimologia, “ingenium”, e che suggerisce
più direttamente il pratico congeniale. E non si richiede più quell’abbandono che era così caro nella poesia,
ma, per contrario, si raccomanda di aver sempre chiaro il fine prefisso e non perderlo mai di vista.
Alla letteratura è estraneo il “sacro furore”, la “divina mania”, l’”ispirazione” del genio; ma non le è estranea
la seria sollecitudine per le cose da dire, l’affetto per il pensiero, per l’azione, per il sentimento, e richiede
anch’essa calore e spontaneità, lo “scriver di vena”.
g) I domini della letteratura: conforme alla genesi che ne abbiamo ragionata, le opere della letteratura si
distribuiscono in quattro classi, la prima delle quali è l’elaborazione letteraria del sentimento. Questa
elaborazione ha luogo mercè la mediazione della riflessione, che scioglie un determinato sentimento dalla
fantasia che già lo avvolgeva e idealizzava, e le ristabilisce nella sua realtà.
L’aggirarsi tra le vicende personali e sentimentali: tale è, sostanzialmente, tutta la letteratura, feracissima, del
lirismo, delle effusioni, delle confessioni, in versi o in epistole, in diari o in memorie.
Non s’identifica con l’autobiografismo, giacchè nell’autobiografia si sottomette o si cerca di sottomettere i
propri sentimenti e le proprie azioni al giudizio morale e storico, e qui, invece, li si rappresenta senza
giudicarli, prestando soltanto loro la parola fatta.
Nella letteratura di effusione, l’uomo parla di sé stesso come individuo, avvinto tenacemente alla sua pratica
individualità, e perciò, anche nell’ottima, non trepida la verecondia dell’individuo innanzi al tutto.
Forse più ricca e varia è la letteratura di motivo oratorio. Solo piccola parte ne fermano le orazioni dei
tribunali, dei parlamenti; e il resto bisogna cercarlo nei poemi celebratori delle glorie dei popoli, delle città e
degli stati, negli inni nazionali e di partito, nelle commedie di carattere, in odi parenetiche