II
Una norma dimenticata delle XII Tavole?
L'articolo di Ugo Coli sui limiti di durata delle magistrature romane costituisce il
contributo più completo sul tema. Lo studioso tracciò una contrapposizione tra
due categorie di magistrature, quelle a durata fissa (che cessavano alla scadenza)
e quelle senza scadenza (che terminavano solo in conseguenza dell'abdicatio del
magistrato, esaurite le incombenze a cui la magistratura era destinata).
Coli affrontò il problema della durata del decemvirato legislativo*.
I decemviri superarono i limiti della generica annualità della carica magistratuale.
Nelle fonti vi è traccia di un impegno tra i magistrati del 450 a.C. volto a
mantenere il dominio perpetuo. Testimone principale è Tito Livio secondo il quale
trascorso il primo anno di carica della nuova magistratura, non essendo ancora
ultimata l'opera legislativa, si instaurò, a seguito di un voto popolare, il secondo
decemvirato; quest'ultimo restò in carica oltre il limite. Le idi di maggio (15
maggio) erano la data per il passaggio dei poteri dai vecchi ai nuovi magistrati ma
le elezioni non si tennero e la data segnò l'inizio di un potere paragonabile a
quello del re e la continuazione dei soprusi.
Altra testimonianza è quello di Dionigi d'Alicarnasso, il quale sottolinea l'attesa da
parte della popolazione di nuove elezioni, che dovevano apparire quindi scontate.
Dionigi definisce privati i decemviri dopo le idi di maggio. Secondo Dionigi i
decemviri, quando giunse il tempo delle elezioni, contro le consuetudini e le
leggi, in mancanza di un decreto del senato o del popolo, si mantennero al loro
posto.
Probabilmente la norma consuetudinaria fu scritta nelle XII Tavole, pubblicate
secondo la tradizione durante il primo decemvirato. La norma era stata rispettata
dai decemviri del 451 a.C. che, dopo un anno, posero fine al loro incarico e
crearono i nuovi decemviri.
Appio, invece, pur non negando l'esistenza della norma, afferma la
straordinarietà del decemvirato, costituito senza altri limiti che non fossero quelli
dell'opera legislativa, cronologicamente non determinabile. Tale discorso è
inficiato dal fatto che il primo decemvirato era regolarmente scaduto alla
scadenza del suo anno di carica.
L'annualità della magistratura costituisce un principio della costituzione romana
repubblicana.
Una fonte narra la fondazione della repubblica attraverso una deliberazione
popolare che avrebbe stabilito il limite di durata della carica consolare. Lo stesso
concetto è ribadito da Dionigi.
Livio racconta l'instaurazione della dittatura ad Alba Longa, avvenuta
nell'accampamento dove morì il re albano, capo dell'esercito. L'esordio della
narrazione liviana sulla storia repubblicana sottolinea la conquistata libertas.
Fondamento giuridico della libertà sono il potere delle leggi, più forte di quello
degli uomini, e l'annualità delle magistrature. Livio sottolinea l'importanza della
limitazione cronologica del potere sommo come origine del nuovo ordinamento.
I primi consoli conservarono tutti i poteri dei re; si fece solo in modo che non
apparisse raddoppiato il terrore.
Merita un cenno un'ulteriore fonte che puntualizza la durata annuale delle
magistrature romane. Si tratta di un celebre tratto contenuto nel De legibus in
cui Cicerone scrive “magistratus annui sunto”.
Va ricordata l'esigenza che condusse al decemvirato legislativo: nell'analisi del
contenuto normativo delle XII Tavole non si può dimenticare che l'aequare
libertatem (di cui parla Livio) significò per i plebei la definizione dei poteri dei
magistrati patrizi. Ciò che si chiedeva era sostanzialmente la fissazione di limiti
obiettivi alla magistratura. La scrittura delle norme sulla provocatio (norma che
prevedeva la possibilità che a un condannato a morte potesse essere trasformata
la pena capitale in altra pena se così stabilito da un giudizio popolare) e sulla
durata della suprema carica della civitas sembrano corrispondere perfettamente
a questa esigenza.
Tentativi palingenetici moderni delle XII Tavole:
Aymar du Rivail e Alessandro d'Alessandro, pur trattando del diritto decemvirale,
non fornirono una restituzione palingenetica dei precetti pervenuti attraverso
citazioni della letteratura classica.
Il primo tra i moderni a proporre una sistematica raccolta delle norme
decemvirali fu Oldendrop.
Hotman, nella sua ricostruzione, utilizzò per la prima volta un materiale
vastissimo, quasi corrispondente a quello a nostra disposizione.
Solo con Gotofredo il lavoro sulle XII Tavole prende la sistematica, le forme e i
contenuti cui siamo abituati. Gotofredo si impegnò anche in una raccolta delle
fonti sulla magistratura decemvirale. Il suo grande lavoro divenne una sorta di
guida per Dirksen e Schoell, i due grandi sistematori ottocenteschi del materiale
decemvirale.
Postilla:
Il saggio dedicato al testo di Dionigi non ha l'intento di dichiarare con assolutezza
l'esistenza di un precetto decemvirale fino ad oggi non riconosciuto, ma di
annettere al dibattito sulla storia del testo delle XII Tavole il chiaro riferimento
ad una norma sulla durata della magistratura.
* Decemviri è un termine latino che significa "dieci uomini" e che indica una commissione della
Repubblica romana. I differenti tipi di decemvirato includevano: la scrittura delle leggi con
imperium consolare, il giudicare sulle liti, l'attendere ai sacrifici, la distribuzione delle terre.
III
Quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset
(
tutto ciò che il popolo avesse infine ordinato, )
sarebbe stato ius e sarebbe stato considerato approvato
Tra le norme di diritto pubblico delle XII Tavole grande rilevanza ha quella
relativa al problema della successione nel tempo degli iussa del popolo che recita
“Quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset”.
La critica storiografica ha assunto nei riguardi dei testi che tramandano la regola
diversi punti di osservazione e ne ha sostenuto l'anacronismo (situazione in cui
appaiono oggetti o personaggi che, per ragioni storiche e cronologiche, non
sarebbero potuti comparire): la norma sarebbe comprensibile solo in un contesto
giuridico più recente di almeno un secolo rispetto alle XII Tavole.
Forse un mutamento di prospettiva può risultare utile ad una rivalutazione della
tradizione. In merito Livio analizza la posizione di Fabio (forse Marco Fabio
Ambusto), interrex che pretendeva, contro i plebei, di poter rogare una coppia di
patrizi per il consolato. Fabio sostenne con successo, per il periodo 355-321 a.C.,
che il voto popolare costituiva un iussum postremum rispetto alle leggi licinie-
sestie, e perciò un ius.
Sempre Livio testimonia come Appio Claudio, celebre censore nel 312/310 a.C.,
non avesse lasciato la carica alla scadenza dei 18 mesi previsti dalla Lex Emilia
del 434 rispettata dal collega. Appio Claudio sosteneva che solo i censori in carica
nel corso dell'emanazione della Lex Emilia erano tenuti al rispetto della durata
fissata, non anche coloro che erano stati eletti successivamente.
È chiaro che Fabio e Claudio ponevano sullo stesso piano il iussum normativo e
quello elettivo.
Si possono proporre due considerazioni.
In primo luogo, la norma in questione è unanimemente posta nella XII Tavola sulla
base di un luogo di Ausonio, che colloca alla fine del testo decemvirale il ius
populi commune; quindi si colloca nello stesso ambito nel quale si può pensare di
inserire una legge sulla durata della magistratura.
In secondo luogo, i decemviri che tennero la magistratura nel secondo anno,
tendendo alla tirannide, sostenevano, secondo le fonti, di non cessare dalla
carica al termine della scadenza annuale e non provvedevano quindi alla
subrogatio che avrebbe dovuto ricondurre la città sotto i consoli. Unico appiglio
costituzionale per non abbandonare la carica, oltre a quello di dover completare
il lavoro legislativo, poteva risiedere nella norma “Quodcumque postremum
populus iussisset, id ius ratumque esset”, che costituisce un cosiddetto diritto
sopra il diritto.
Si potrebbe pensare ad un inserimento della norma nel testo decemvirale anche
in funzione del mantenimento del potere da parte dei decemviri, i quali
assumevano il iussum populi che li aveva posti al vertice della città come
momento costituente non sottoposto alle normali regole di vita della città.
Ciò corrisponde alla netta frattura individuata dalla storiografia antica, che fa
prospettare a Livio il passaggio dal consolato ai decemviri come una vera e
propria mutatio della forma civitatis e alla romanistica moderna il fatto che il
decemvirato costituì un tentativo di una nuova costituzione.
Postilla: Sulla votazione popolare della Lex Licinia Sextia de consule plebeio
Proposta dai tribuni Caio Licinio e Lucio Sestio Laterano nel 367 a.C, la Lex
Licinia Sextia de consule plebeio ha consentito la possibilità ai plebei di accedere
al consolato. La legge è interessante per comprendere lo svolgimento dei rapporti
tra patrizi e plebei, dalla forte diversità giuridico sacrale iniziale, ai residui di
diseguaglianza che permangono in età medio e tardo-repubblicana.
Il problema tocca in primo luogo la questione dell'impossibilità per dei magistrati
della plebe di proporre rogationes e ottenere ritualmente un voto dei comizi
centuriati. Tale sistema era aggirabile sotto il profilo politico attraverso la
cooperazione di un magistrato patrizio.
Non c'è dubbio che le proposte di Licinio e di Sestio fossero state dapprima
discusse e deliberate (come plebisciti) nell'assemblea plebea. Il problema è se
tale posizione politica fosse o meno formalizzata con un voto nel 367. Che un
accordo vi fosse è attestato dalle elezioni, a partire del 366, di consoli plebei; la
storiografia negazionistica si basa sul fatto che non resta nelle fonti il ricordo di
una votazione delle leggi.
Una fonte rilevante afferma che la Lex de consule plebeio si era sostanziata in un
formale iussum populi.
Livio narra di una crisi costituzionale del 355 dovuta ad uno scontro tra patrizi e
plebei. Dopo una decina di anni nei quali aveva funzionato la lex relativa alla
divisione dei due posti di console tra i due ordini, l'interrex Marco Fabio Ambusto
richiedeva la creatio di due patrizi, opponendosi all'intercessio dei tribuni della
plebe (aprovata nel 367) con la citazione di una legge decemvirale. Alla fine i due
appartenenti al patriziato, Sulpicio e Valerio, saranno eletti.
IV
Lege agere e poena capitis
E' noto il testo di Gaio nelle Istitutiones. In esso il giurista, dopo una breve
introduzione, descrive il più antico processo romano, quello del
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