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PARTE III
CAPITOLO VII – Dominio senza egemonia
I concetti di “impero” e “imperialismo” sono tornati alla ribalta a partire dal 2001, quando
l’amministrazione americana guidata da Bush Jr, rispose agli attentati del 11 settembre con
l’adozione di un nuovo programma imperiale: “il progetto del nuovo secolo americano”.
Così come la “minaccia comunista globale” era servita nel dopoguerra ad alimentare politiche
aggressive nei confronti dell’URSS e dei suoi satelliti, ora la minaccia del fondamentalismo
islamico e degli “stati canaglia” era la nuova paura su cui far leva per ottenere il consenso popolare
e l’approvazione del Congresso all’invasione dell’Iraq.
Tale progetto ha mancato i suoi obiettivi in poco tempo e in maniere così evidente da rendere nullo
lo sforzo.
La persistenza della sindrome del Vietnam
Arrighi sostiene che il fallimento iracheno sia, a livello di immagine, anche peggiore di quello
vietnamita.
Come in Vietnam, anche in Iraq le crescenti difficoltà incontrate dagli USA nello sconfiggere un
avversario relativamente insignificante sul piano militare, stavano mettendo a repentaglio la
credibilità statunitense su scala mondiale.
La guerra in Vietnam è stato l’evento centrale della crisi spia dell’egemonia americana; da quella
crisi, tuttavia, a partire dagli anni ’80 e poi ’90, dove scaturire la Belle époque americana,
ulteriormente rafforzata dal crollo dell’Unione Sovietica.
L’uscita di scena dell’Unione Sovietica ha sgombrato il terreno alla legittimazione, da parte del
consiglio di sicurezza dell’Onu, delle azioni di polizia internazionale degli State (si veda a tal
proposito la Prima Guerra del Golfo).
Il fantasma della guerra in Vietnam, però, continuava a pesare: gli USA infatti non si impegnarono
più in conflitti di quella portata, ma al massimo in missioni di pochi mesi.
Lo shock dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono ha capovolto la situazione, fornendo il
casus belli necessario a smuovere l’opinione pubblica americana.
Ma ancora nella guerra in Afghanistan, che pure ha riscosso un ampio appoggio, l’amministrazione
Bush si è dimostrata poco disposta a rischiare perdite americane.
Infatti, scrive Arrighi, il vero obiettivo non era la guerra al terrorismo, ma quello di dare un nuovo
ordine geopolitico al Medioriente.
Tuttavia alla vittoriosa guerra lampo su Baghdad, a partire dal giugno 2003, ha fatto seguito un
sempre più grande numero di vittime americane, mentre il rendimento, in termini economici e
politici si è ridotto.
A partire dal 2005 l’esercito americano ha cominciato ad attraversare una fase di deterioramento
qualitativo e morale del tipo di quello sperimentato a suo tempo in Vietnam.
La superiorità di forza delle truppe di invasione americane rispetto alla resistenza locale irachena è
assai maggiore che in Vietnam e proprio su questo si fondavano le speranze dell’amministrazione
Bush di poter rovesciare quel verdetto. Allo stesso tempo questa superiorità rende il fallimento in
Iraq assai più pesante di quello in Indocina.
La strana morte del progetto della globalizzazione
L’idea che ci si trovi di fronte alla crisi terminale dell’egemonia americana si fa più pregnante se
passiamo a considerare gli effetti della guerra in Iraq sul ruolo centrale degli Usa nell’economia
politica globale. L’invasione dell’Iraq doveva essere la prima mossa di una tattica che si proponeva
di utilizzare la forza militare per imporre il controllo degli Stati Uniti sul rubinetto delle riserva
globali di petrolio e quindi sull’intera economia globale.
L’inatteso risultato ha portato a domandarsi cosa vi fosse di così minaccioso per gli USA negli
sviluppi della globalizzazione, da spingere i neo conservatori a correre i rischi dell’avventura
irachena.
La presidenza Bush e l’orientamento neo cons in generale, ha mostrato una netta avversione nei
confronti del concetto di “globalizzazione”. Vista come un insieme di regole che possono limitare la
discrezionalità della presidenza e indebolire gli USA.
Nial Ferguson, paragonando le condizioni della finanza statunitense con quelle della finanza inglese
di un secolo prima, ha sottolineato che ne caso inglese “egemonia” significava anche “supremazia
monetari”. Gli Stati Uniti oggi sono, invece, il maggior debitore a livello mondiale.
Possiamo dunque riassumere così la condizione di dominio “senza supremazia finanziaria” degli
USA: come per l’Inghilterra a un corrispondente livello di declino, l’aumento del deficit della
bilancia dei pagamenti degli USA segnala un peggioramento della competitività delle aziende
americane, sia all’estero, sia sul mercato interno.
Eppure l’Inghilterra aveva un impero coloniale da cui estrarre le risorse necessarie al mantenimento
della propria supremazia.
Quando, però, ha incominciato a incontrare difficoltà nel far pagare alle colonie i costi dell’impero,
essa ha finito con l’indebitarsi con gli Stati Uniti. Col tempo questa situazione ha costretto Londra a
liquidare il proprio impero e ad arrendersi al ruolo di “socio di minoranza”.
Tutto ciò è però avvenuto a seguito di due guerre disastrose per la Gran Bretagna, sul piano
economico.
Invece gli Usa si sono indebitati molto più rapidamente e in misura assai più rilevante.
Washington ha dovuto competere aggressivamente sui mercati finanziari mondiali per attirare
capitali; tuttavia i capitali, a differenza dei contributi indiani alla bilancia dei pagamenti
dell’Inghilterra, non arrivavano a titolo gratuito.
Tale meccanismo ha generato un flusso crescente di reddito a favore di investitori residenti
all’estero, che a sua volta ha reso più difficile il raggiungimento del pareggio della bilancia dei
pagamenti.
Prima dello scoppio della bolla borsistica, alla fine degli anni ’90, i capitali che affluivano negli
States erano essenzialmente privati.
Allo scoppiare della il flusso di capitale ha assunto un connotato politico e i governi che hanno
scelto di finanziare l’espansione del deficit delle bilance dei pagamenti degli USA hanno potito
godere di un forte potere contrattuale nelle loro scelte economiche.
Ad oggi i maggiori detentori di quote di debito americano sono il Giappone e la Cina.
All’amministrazione Bush si presentava il problema di come finanziare il “progetto per il nuovo
secolo americano” partendo da una posizione di pesante indebitamento con l’estero.
C’erano quattro possibilità:
1. Aumentare le tasse: era fuori discussione poiché Bush aveva vinto le elezioni con un
programma di forti riduzioni fiscali
2. Aumentare ancora di più l’indebitamento estero: questa scelta era ostacolata da ragioni
economiche (necessità di mantenere bassi tassi di interesse per stimolare la ripresa
dell’economia dopo il crollo di Wall Street tra 2000-2001) e politici (l’amministrazione
Bush non voleva concedere a governi stranieri ulteriori armi di pressione sulle scelte
politiche americane).
3. Rendere la guerra economicamente autosufficiente: impossibile da realizzare
4. Sfruttare la posizione di privilegio del dollaro: operare svalutazioni.
Lo sfruttamento del privilegio valutario del dollaro da parte degli USA può al massimo ritardare, ma
non certo evitare, un loro drastico riposizionamento strutturale che tenga conto della forte riduzione
di competitività del sistema americano nel quadro dell’economia globale.
Nel caso si dovesse verificare un nuovo crollo del dollaro, paragonabile a quello occorso negli anni
’70, sarebbe molto più difficile (per non dire impossibile) per gli Stati Uniti riguadagnare il
predominio sul sistema monetario globale.
Se l’abuso del privilegio valutario da parte degli americani dovesse sfociare in un nuovo crollo del
dollaro, i governi europei e quelli dell’Oriente asiatico si troverebbero in una situazione assai più
favorevole, rispetto a 25 anni fa, per indirizzare i capitali verso valute alternative al dollaro.
Insomma l’occupazione dell’Iraq, lungi dall’inaugurare un nuovo secolo americano, ha anzi messo
a repentaglio la credibilità della potenza americana, ha deteriorato la centralità degli USA e del
dollaro e ha rafforzato la tendenza della Cina a proporsi come alternativa agli USA come ruolo di
paese guida, soprattutto nell’area dell’oriente asiatico.
CAPITOLO VIII - La logica territoriale del capitalismo
Il concetto di imperialismo indica, in termini generali, un’estensione o un’imposizione di potere o
influenza su altri stati o comunità prive di un ordinamento statale. Quello americano però è stato
definito “imperialismo capitalistico”, inteso come fusione di logica di dominio territoriale e potere
economico in cui è questo secondo aspetto a prevalere.
Harvey interpreta il progetto di Bush come il tentativo di prolungare l’egemonia degli USA, pur
nelle condizioni di integrazione economica globale controllare Iraq, Iran e le riserve petrolifere
del Caspio consentirebbe agli USA di mantenere il controllo di fatto dell’economia globale.
Sovraccumulazione ed espansione finanziaria
Arrighi delinea qui quelli che vengono chiamati cicli di accumulazione sistemica, che hanno avuto
nel passato 4 centri di riferimento: Genova, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti. Nessuno di questi
soggetti, che di volta in volta ha guidato la formazione e l’espansione del capitalismo mondiale,
corrisponde al modello di stato-nazione.
La sua analisi vuole richiamare l’attenzione sul processo che trasforma organizzazioni capitalistiche
di volta in volta crescenti negli attori principali dell’espansione di un sistema di accumulazione e di
governo che sin dal principio comprende una molteplicità di stati.
Il I° ciclo sistemico (che va dal XV fino ai primi anni del XVII secolo) prende il nome di “genovese
iberico” poiché si riferisce alla rete transcontinentale di commerci e intermediazione finanziaria che
consentiva alla classe capitalistica genovese di trattare con i maggiori sovrani europei, soprattutto
portoghesi e spagnoli, i quali a loro volta ottenevano così i fondi per intraprendere campagne
militari che avrebbero portato alla formazione di un impero e di un mercato su scala mondiale.
II° ciclo (dal tardo XVI secolo al tardo XVIII secolo) : Olanda. Il paesaggio geopolitico creato in
Europa dalla riorganizzazione spaziale di dimensioni planetarie posta in essere dai regimi iberici
non lasciava più spazio per strategie di potere capitalistico del tipo che aveva fatto le fortune dei
genovesi. Se gli olandesi riuscirono a creare un