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La restaurazione dei governi e delle dinastie “legittime” precedenti al 1789 viene condotta con una certa
discrezione. A procedere decisa in questo senso è a sorpresa la Francia, che ripristinando i Borbone vuole
rivendicare una importanza pari a quella delle altre potenze del Congresso. Nel quale i piccoli Stati non
hanno praticamente voce in capitolo: le grandi potenze ormai si considerano “l’Europa”, le leading
powers del Concerto europeo. Il legittimismo si intreccia ai “diritti della potenza”.
Nella cultura dell’epoca si riverbera l’idea di una realtà comune europea, e della fede cristiana come
sorgente di civiltà.
Non tutti però vedono il Concerto allo stesso modo. E così, nel 1815 lo zar Alessandro, Francesco I
d’Austria e Federico Guglielmo III firmano la Santa Alleanza, una lega fra gli Stati cristiani alla quale
non aderiscono la Gran Bretagna e nemmeno il Papa. Una interpretazione, questa, piuttosto tradizionalista
del Concerto: quella del britannico Castlereagh è invece più pratica. Dopo il colpo di coda di Napoleone
[i cento giorni] firma con gli altri vincitori una Quadruplice Alleanza, che scoraggi le azioni unilaterali ma
che al tempo stesso non impegni eccessivamente le grandi potenze.
Nel frattempo, la legittimità degli Stati comincia a basarsi sempre meno sulla tradizione e più sui trattati e
sugli accordi consensuali. Viene progressivamente abbandonata pure la concezione patrimoniale dello
Stato, che diventa un soggetto a sé stante. Avanza anche il diritto internazionale: a Vienna si regola il
protocollo diplomatico e si condanna il traffico degli schiavi [moratoria].
La carta europea viene ri-disegnata pragmaticamente. La frammentata realtà politica tedesca viene ridotta
a una confederazione di 39 stati presieduti dall’imperatore d’Austria (Deutscher Bund), e vengono
inglobati nel territorio i principati della zona del Reno. In Italia viene rinforzato il regno del Piemonte,
mentre l’Austria pone sotto il suo controllo diretto il lombardo-veneto, sotto quello indiretto il resto della
Penisola. La Russia ottiene il controllo della Polonia (e può cominciare a concepire mire espansionistiche
verso l’area dell’Impero Ottomano). La Svizzera indipendente viene ripristinata, e i Paesi Bassi allargati.
In sostanza, nell’area dell’Europa centrale si costituiscono questi “corpi intermedi”, degli Stati cuscinetto
che contengano la Francia e più in generale mantengano gli equilibri fra le grandi potenze. Nel fare
questo è evidente che le rivendicazioni di nazionalità vengono ignorate dal Congresso.
Dopo il ritorno in auge di Napoleone dei “cento giorni” di governo in Francia nel 1815, le grandi potenze
vincitrici a Waterloo determinano il principio di intervento “europeo” negli affari interni di un altro Stato
qualora si insedi un governo non in linea con le regole generali.
Il concerto europeo
Anche la seconda pace di Parigi del 1815 non punisce eccessivamente la Francia, limitandosi a ridurla ai
confini del 1790. Rafforza però la cooperazione del “concerto europeo”, nel quale fin da subito si
distinguono due semi-egemonie che si ritagliano margini per azioni unilaterali, senza però rompere la
solidarietà europea: Gran Bretagna e Russia, rispettivamente in campo economico [dominio sui mari] e
militare.
Per quanto riguarda le altre potenze, la Francia si ritrova comunque limitata, la Prussia è per certi versi in
condizioni minoritaria, e l’Austria di Metternich, il massimo fautore della Restaurazione, manca di una
cultura e di un’amministrazione statuale moderna, è ancora imbrigliata nella frammentazione del
territorio.
Il concerto europeo viene attuato attraverso riunioni periodiche al vertice fra esponenti delle grandi
potenze: Castlereagh definisce questa modalità diplomacy by conference, volta a garantire la governance,
ovvero un controllo condiviso degli eventi.
Dopo i timori iniziali, la Francia viene rapidamente riammessa nei meccanismi del concerto sin dalla
conferenza di Aquisgrana del 1818. La minaccia allo status quo arriva invece dalla proliferazione di
rivoluzioni costituzionali e liberali in tutta Europa. Infatti l’esigenza di ordine e stabilità internazionale
comporta anche una severa rigidità sul fronte politico interno da parte dei governi: da qui l’evoluzione
delle correnti liberali e costituzionali, già a partire dal 1819-21. Il fenomeno si verifica nell’area tedesca,
in Spagna, a Napoli, in Grecia contro l’impero ottomano.
In seguito a questi moti, lo zar di Russia Alessandro I si lascia alle spalle le sue aperture liberali, e
Metternich si fa sempre più inflessibile. Cambia l’ideologia del concerto europeo: se prima la
preoccupazione principale era l’equilibrio fra le diverse potenze, ora centrale diventa l’opposizione alla
“rivoluzione”, minaccia all’ordine. Dove sorgano violazioni dell’ordine costituito, si devono attuare
interventi militari legittimisti.
Nelle conferenze al vertice fra il 1820 e il 22 emerge la contraddizione fra la volontà di azioni unilaterali
dei singoli stati nelle proprie sfere d’influenza e la necessità di una convergenza europea. L’Austria
interviene a Napoli e Torino, mentre si presenta complesso il caso spagnolo: Ferdinando VII, dopo la
Costituzione di Cadice del 1812, chiede aiuto al concerto europeo per venire restaurato. La Francia ritiene
la Spagna una propria zona d’influenza; la Gran Bretagna si chiama fuori dalla politica interventista,
sostenendo che il concerto debba intervenire solo dove vengano messi in dubbio gli assetti territoriali, ma
senza condizionare l’evoluzione politica interna degli Stati. Già in questo caso si incrina quindi la
cooperazione al vertice, con la Francia che viene autorizzata all’intervento militare nonostante la
perplessità britannica.
L’America
A complicare la questione spagnola si aggiunge negli stessi anni il problema delle colonie in America. I
creoli, spagnoli e portoghesi di seconda e terza generazione nati su suolo americano, ipotizzano un
affrancamento dalla madre patria. In Europa si comincia a discutere se si debba intervenire o meno: gli
Inglesi anche in questo caso si oppongono, e possono permettersi di porre un veto all’intervento in quanto
controllano praticamente tutto l’Atlantico. Cercano di coinvolgere pure gli Stati Uniti nel dibattito, ma il
presidente americano Monroe non si allea con Il Regno Unito, adottando una linea unilaterale.
E’ in questa occasione che nel 1823 viene pronunciato il principio dell’ “America agli americani”. La
dottrina Monroe [riassumibile in tre principi: di non-colonizzazione e non-intervento nel territorio
americano da parte degli europei, e quello di non-interferenza da parte degli Stati Uniti negli affari del
Vecchio Continente] rimarca la diversità netta dei due sistemi, europeo [ancora espressione della politica
di potenza delle monarchie] e americano [mondo libero della democrazia repubblicana]. E’ già palese
l’eccezionalismo americano, che porta gli Stati Uniti, in fase di espansione economica e territoriale con il
continuo allargamento della frontiera occidentale, sorretto dalla convinzione che fosse inevitabile
“l’estensione della sovranità su tutto il continente nord-americano” [negli anni ’40 si parlerà di Manifest
Destiny], a sottrarsi a qualsiasi logica di concerto.
L’intreccio liberal-nazionale
In Europa, nel frattempo, il concerto deve fare i conti con l’ostacolo rappresentato da due principi lasciati
sul campo dalla fase rivoluzionaria conclusa nel 1815:
nazionalità: a ogni nazione deve corrispondere uno Stato. E’ un ideale favorito dalla cultura romantica
dell’epoca e potenzialmente sovversivo sul piano politico: può mettere in discussione il legittimismo
dinastico configuratosi dopo Vienna. In Italia e Germania questo principio pone il problema della
necessità di unificare la frammentata realtà politica. Per i grandi imperi plurinazionali, come quello
asburgico o quello russo, rappresenta invece una minaccia di disgregazione. Sono le elite culturali e
politiche a fomentare l’idea di nazione, anche laddove non se n’era mai trovata traccia con vere e proprie
operazioni culturali e politiche, volte al recupero storiografico/scientifico e filologico delle origini
nazionali. Operazioni non prive di ambiguità: ad esempio, dopo che Fichte aveva sostenuto nei Discorsi
alla nazione tedesca del 1807-08 che “dovunque c’è una lingua c’è anche una nazione”, vennero create ad
arte lingue come quella serbo-croata. In altri casi invece si soprassiede sul pluralismo linguistico, come
nelle elite coloniali americane “creole” e in Svizzera.
Movimenti politici improntati sul principio di nazionalità si affermano soprattutto nell’Europa
centro-orientale, e in particolare in quella balcanica, dove la decadenza dell’impero ottomano lascia
spazio alla proliferazione di “micronazionalismi”. Ma si diffondono anche in Occidente [Irlanda, i baschi
e la Catalogna in Spagna]. Ogni movimento persegue un’ottica particolarista, utilizzando la retorica della
“missione nazionale” che diventa quasi una “religione della patria” [Vincenzo Gioberti scrive Del primato
morale e civile degli Italiani]: ma la cultura romantica favorisce un certo grado di interazione, nell’ottica
di una comune opposizione alle “prigioni dei popoli” che erano gli Stati fissati a tavolino a Vienna. Si
pensi alla “Giovane Europa” di Mazzini.
Liberalismo: il progressivo irrigidimento del concerto europeo fomenta le opposizioni
liberal-costituzionali, che presto vanno a costituire una sintesi con le istanze di nazionalità. Si diffonde al
contempo una nuova cultura economica di stampo liberista, sotto la spinta del capitalismo imperniato
sulla libera iniziativa individuale e della rivoluzione industriale, critica del mercantilismo. Adam Smith
ipotizza un sistema di mercato mondiale autoregolato che favorirebbe i rapporti pacifici fra i popoli. Il
liberismo si afferma lentamente in Gran Bretagna, paese all’avanguardia dei nuovi sviluppi intellettuali.
La svolta arriva nel 1830-32 e si manifesta appieno nel 1846 con l’abolizione delle leggi protezioniste sul
grano. A metà del secolo quella britannica è l’economia “superdominante”. Lo Stato inizia a sostenere
l’influenza economica dei propri cittadini: da qui il rafforzamento delle reti consolari e la politica del
ministro degli Esteri Palmerston, figura centrale del 1830 al 1865: “aprire e assicurare la via ai mercanti”.
Si guarda soprattutto ai mercati dell’Estremo Oriente, e si riduce di conseguenza la rilevanza delle
questioni continenta