Riassunto esame Storia Contemporanea, prof. Formigoni, libro consigliato Storia della Politica Internazionale nell'Età Contemporanea
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Il commercio estero diventa oggetto di un crescente interesse con l’esigenza di nuovi mercati da
conquistare, e viene soggetto a regolazione, vincoli, controlli e orientamenti da parte dei governi.
Diventano sempre più rilevanti i trattati commerciali bilaterali: la competizione economica si fa anche
nazionale, con vere e proprie “guerre doganali”, e indebolisce se possibile ancora di più le basi del
concerto europeo. Da qui all’imperialismo, il passo è breve.
Di questi anni è anche una nuova corsa alle armi, la cui produzione viene affidata anche a imprese private
sostenuti da commesse pubbliche, sulla base del modello prussiano. E dopo il caso eclatante della guerra
civile americana cambia il giudizio culturale sulla guerra, intesa ora come competizione nazional-statuale.
Il sistema bismarckiano
Dopo il 1871 a poco a poco si afferma il nuovo quadro, con quattro potenze nazionali che sono Stati
industrialmente avanzati, e due Stati plurinazionali militarmente forti [Austria e Russia].
L’abilità diplomatica di Bismarck, la dinamica industriale e tecnologica del paese, la forza militare e la
crescita demografica assicura al Reich la leadership continentale, che Bismarck comunque gestisce con
prudenza. Mira a stabilizzare la situazione, conscio che ormai il concerto europeo è inefficace: si deve
procedere con relazioni bilaterali, evitando una qualunque coalizione antitedesca. Da queste esigenze
nasce il “sistema bismarckiano” una rete di alleanze e intese bilaterali che assicurano a Berlino una
semi-egemonia.
Bismarck deve confermare il legame conservatore con la Russia e sfruttare le aperture dell’Austria dopo
l’Ausgleich: da qui il Dreikaiserbund, “Intesa dei tre imperatori” del 1873.
Poi è necessario mantenere la Francia, animata dallo spirito di revanche nazionalista dopo il 1870, in
posizione isolata, ma in qualche modo inserita nel contesto diplomatico per non aumentare il
risentimento. Compito facilitato dalla crisi in cui versa la Terza Repubblica, economicamente e
demograficamente più modesta rispetto alla Germania.
Sui Balcani però si aggrava il dissidio austro-russo. Entrambi nutrono mire espansionistiche sull’area, e la
corrente culturale panslavista invoca un intervento imperiale russo volto all’unificazione e direzione dei
popoli slavi. Nel ’75 si apre così una nuova fase della questione d’Oriente: le insurrezioni in Bosnia e
Bulgaria contro l’impero ottomano vengono represse da quest’ultimo con ferocia. Le grandi potenze
cercano un accordo, ma la Gran Bretagna di Disraeli vuole evitare un indebolimento turco, mentre
l’Austria è preoccupata da una possibile espansione russa nell’area. Bismarck intanto ricerca una
soluzione al dissidio austro-russo, volendo però evitare un coinvolgimento militare.
Nel ’77 i Russi dichiarano guerra ai turchi e arrivano a Costantinopoli, intenzionati a liberare i Balcani
dalla presenza ottomana: ma Gran Bretagna e Russia reagiscono. Nel ’78 Bismarck, presentandosi come
“onesto sensale”, convoca un congresso a Berlino, nel quale si prendono diversi provvedimenti:
- riduzione dello stato bulgaro e allargamento della Serbia
- Albania e Macedonia sotto controllo ottomano
- La Bosnia viene consegnata agli Asburgo
- La Romania viene dichiarata Stato sovrano
- La Gran Bretagna ottiene Cipro
La risoluzione permette il ritorno di una relativa stabilità. Bismarck però dovrà fare vere e proprie
acrobazie diplomatiche per mantenerla: nel 1879 stipula un accordo segreto con l’Austria, un vincolo di
reciproca fedeltà militare in caso di necessità. Nel 1881 viene poi rinsaldato il Dreikaiserbund, e nel 1882
viene firmata la Triplice Alleanza fra Austria, Germania e Italia, preoccupata di venire isolata nel quadro
internazionale.
Infine, nel 1887 vengono stipulati due “accordi mediterranei” fra Londra, Roma e Vienna contro possibili
iniziative francesi e russe sulla costa africana e in Oriente. Nello stesso anno, Bismarck stipula con lo zar,
preoccupato dell’appoggio tedesco all’Austra in vista di una eventuale espansione sui Balcani, un trattato
di “controassicurazione”, che annulla il vincolo austro-prussiano in caso di guerra nell’area.
4. L’età dell’imperialismo e la Grande Guerra
L’età dell’imperialismo e la sfida allo splendido isolamento inglese
Alla fine dell’800 il controllo delle grandi potenze del mondo extraeuropeo non è più di stampo
economico, e quindi indiretto, ma assume tratti politico-militari. Da qui, la definizione di “età
dell’imperialismo”, giustificata intellettualmente dal “fardello dell’uomo bianco”, cioè dal suo compito di
“civilizzazione” dei popoli “arretrati”. E’ l’applicazione alla specie umana del darwinismo, con i più forti
a dominare: da qui al razzismo il passo sarà breve.
Per giustificare questo controllo sul piano giuridico, nella seconda metà dell’800 nel campo del diritto
internazionale si arriva a parlare di “Stati civili” (concetto spesso coincidente con “cristiani”) e di uno
“standard di civilizzazione” come requisito necessario a un paese per avere riconoscimento legale e
soggettività internazionale. Da qui, la tendenza delle “potenze civili” a imporre un “protettorato” su
regimi politici extraeuropei.
Dopo il 1880 diversi paesi non europei entrano in un regime coloniale: nel giro di pochi le potenze
europee si spartiscono buona parte dell’Africa e dell’Asia.
Alla fine del secolo tutte le grandi potenze europee (tranne la Francia repubblicana) si definiscono imperi
“nazionali”, in competizione fra loro. Conseguenza, questa, anche del nuovo quadro politico determinato
dai grandi Stati nazionali accentrati, che per diventare tali avevano dovuto lasciarsi alle spalle velleità
imperialistiche ed universale, ora però recuperate in virtù di un bisogno di espansione territoriale.
Vi sono ovviamente motivazioni economiche: dal 1873, con il crack finanziario di Vienna, la crescita
economica rallenta. A diversi paesi l’integrazione economica liberoscambista della pax britannica non
basta più: adottano allora politiche protezionistiche, così da valorizzare merci e produzione proprie.
Inizialmente la Gran Bretagna può permettersi, grazie alle sue risorse economiche, di proseguire sulla via
liberoscambista. Anch’essa però conosce, dopo gli anni del boom economico, un (relativo) rallentamento
della crescita economica, e si trova di fronte alla sempre più forte competizione imperialistica, che si
intreccia poi alla maggiore richiesta di sicurezza da parte dell’opinione pubblica e al riaprirsi della
Questione d’Oriente nel ’75: il paese deve ricollocarsi politicamente.
Da un parte si prendono ulteriormente le distanze dal sistema europeo, rifiutando la logica delle alleanze
(si parla di “splendido isolamento” inglese) in virtù del primato economico, finanziario e navale.
Dall’altra, il governo è però costretto ad adattarsi alla crescente competizione internazionale: da qui
alcune forme di centralizzazione statuale e la promozione politica degli interessi commerciali del paese.
Si rafforzano poi le posizioni imperiali del paese: addirittura Disraeli, divenuto premier nel 1874, utilizza
l’imperialismo come carattere distintivo del proprio partito. Gladstone si dimostra critico nei confronti di
questo “imperialismo popolare”, ma d’altro canto negli anni del suo governo consolida ed estende
l’Empire, sul quale aumenta il controllo giuridico-istituzionale di Londra. Con il dominio imperiale però
si riducono inevitabilmente le aree d’influenza economica britannica.
Anche nella nuova gara coloniale la Gran Bretagna assume un ruolo di prim’ordine. Dopo aver ottenuto il
controllo dell’Egitto con la repressione della rivolta del 1879-82, il governo acquisisce una serie di
territori che vanno dal Cairo al Capo di Buona Speranza. Ma in Africa nel frattempo si sviluppa anche il
dominio coloniale francese, e nell’ambito della Scramble for Africa nel 1898 si sfiora lo scontro sulla
questione del controllo del Sudan (poi però si arriva al compromesso).
La politica coloniale francese è animata dalla volontà di cercare prestigio internazionale, prendendo atto
della momentanea impossibilità di perseguire la revanche antitedesca. Inoltre il governo ritiene, che il
mercato europeo sia ormai “saturo”, e che ci si debba quindi assicurare dei mercati protetti per le proprie
esportazioni.
I russi rinforzano ulteriormente le proprie mire sull’Asia centrale, senza però rinunciare del tutto al
“panslavismo” nei Balcani, nonostante la battuta d’arresto del 1878. Anche l’Italia si inserisce nella
competizione occupando l’Eritrea e la Somalia e puntando poi all’Etiopia. Infine, in seguito all’iniziativa
belga nel Congo, si convoca una conferenza internazionale a Berlino nel 1884-85, nella quale si cercano
di fissare alcuni principi generali della competizione coloniale.
La Weltpolitik tedesca
Le tensioni imperialistiche contribuiscono a logorare ulteriormente il sistema europeo. Aumentano poi
anche i competitori: è rilevante soprattutto il nuovo orizzonte politico tedesco.
Nel 1890 il kaiser Guglielmo II impone a Bismarck le dimissioni sulla base di un dissidio sulla gestione
della politica interna: il cancelliere non riesce più a controllare la spinta populista, che spinge proprio in
direzione imperialista.
La leadership di Guglielmo II punta a una politica estera unilaterale, disinteressata dell’equilibrio del
sistema. Prende piede la volontà di perseguire una weltpolitik, ovvero una politica tedesca su scala
mondiale, in virtù dell’espansione economica e demografica, volta anche a compattare la società tedesca,
attraversata da tensioni. Da qui le iniziative in Cina, nel Pacifico, in Asia e in Africa centrale, e
l’incremento della marina militare dopo il 1898.
Il nuovo corso politico tedesco ovviamente preoccupa diverse potenze, innanzitutto la Gran Bretagna.
Guglielmo II inoltre non si preoccupa di smorzare i toni, parlando di una vera e propria Machtpolitik
(politica di potenza). Decide di conservare soltanto l’alleanza con Vienna, mentre viene meno il legame
con la Russia.
Si sviluppa allora, nei primi anni ’90, un’alleanza difensiva franco-russa, contrapposta alla Triplice
Alleanza. Si configura quindi un nuovo quadro bipolare (per adesso comunque non vincolante).
Il riallineamento europeo
Fra il 1894 e il 1905 l’Asia orientale diventa un’area nevralgica.
Il Giappone adotta nei confronti di Corea e Cina la stessa politica di imposizione subita dagli occidentali
fino a metà ‘800. Ma anche Francia, Russia e Germania guardano alla Cina con interesse, e impongono al
Giappone un ridimensionamento delle conquiste territoriali. Inoltre, in chiave antibritannica, criticano la
politica “della porta aperta”, e premendo sul governo di Pechino ottengono delle sfere d’influenza protette
ed esclusive.
Quando poi anche il governo britannico si adatta al nuovo clima, chiedendo una zona d’influenza
esclusiva, l’unica potenza a sostenere ancora la libertà di commercio sono gli Stati Uniti. Nel 1900 poi le
potenze europee cooperano militarmente per reprimere la rivolta xenofoba dei boxers.
Per quanto riguarda il resto del mondo, la Germania rafforza la sua influenza sull’impero ottomano, e si
parla addirittura della costruzione di una ferrovia Costantinopoli-Baghdad. L’Italia cerca di espandersi nel
Corno d’Africa, ma nel 1896 viene sconfitta ad Adua. Francia e Inghilterra, come già ricordato, sfiorano
lo scontro in Africa.
Il nuovo quadro fa si che in Gran Bretagna monti il dibattito sulla politica estera: diverse voci mettono in
discussione la logica dello “splendido isolamento”, richiedendo più investimenti per la sicurezza (nel
1884 aumenta il budget della Royal Navy) e una politica di alleanze. A dare una spinta ulteriore per un
altro ricollocamento politico del paese dopo quello degli anni ’70, arriva la guerra anglo boera del
1899-1902. La Gran Bretagna cerca infatti di inglobare nei propri possedimenti le colonie boere, abitate
da bianchi, dell’Orange e del Transvaal: una prima spedizione militare nel 1895 si rivela un fallimento,
ma gli inglesi non si arrendono nel 1899 scoppia la guerra che si rivelerà più impegnativa del previsto,
che si conclude comunque con la vittoria nel 1902.
Intanto il leader unionista (contrario cioè all’autonomia irlandese, questione che a fine ‘800 torna alla
ribalta) Chamberlain preme perché ci si allei con la Germania così da sostenere la sfida francese e russa,
anche sulla base di una convergenza fra la “razza” anglosassone e quella “teutonica”. Si tenta un
avvicinamento, ma i tedeschi gestiscono in modo maldestro l’iniziativa diplomatica, facendo saltare tutto.
E così dal 1902 la classe dirigente britannica cambia ottica: ora proprio la potenza tedesca viene vista
come la maggiore minaccia. Vengono prese in considerazione strategie nuove, come il protezionismo
imperiale o l’Imperial Federation dei dominions bianchi autonomi, per reggere la competizione coloniale,
ma per il momento prevale ancora la linea liberoscambista.
Nell’ottica di un nuovo sistema di alleanze, la Gran Bretagna nel 1902 ne stringe una col Giappone. Il
quale nel frattempo si scontra con la Russia in Cina settentrionale e in Corea, arrivando alla guerra aperta
nel 1904. Ma né gli inglesi né i francesi intervengono a fianco dei propri alleati, in virtù dell’entente
cordiale del 1904 che verte sul riconoscimento reciproco delle rispettive sfere d’influenza in Marocco
(Francia) ed Egitto (Gran Bretagna)
Nel frattempo cambiano i rapporti fra Francia e Italia. Se prima, negli anni del governo Crispi, fra i due
paesi si era combattuta una guerra doganale dannosa per l’economia italiana, nel 1899 c’è il reciproco
riconoscimento degli interessi in Marocco e in Tripolitania, e nel 1902 si stringono pure alcuni accordi
politici in parte contrastanti con la logica della Triplice Alleanza. Iniziano così i “giri di valzer”
caratterizzanti anche la politica estera di Giolitti, che giunge a patti con la Gran Bretagna.
Intanto la Russia, sconfitta dai giapponesi e scossa dalla rivoluzione di Pietroburgo del 1905, che però lo
zar riesce a gestire, riduce le sue ambizioni sull’Estremo Oriente. Così si rivolge di nuovo ai Balcani, e
nel 1907 l’accordo anglo-russo sulla divisione delle sfere d’influenza nella zona segna la conclusione del
Great Game fra i due paesi.
Di fronte a questi cambiamenti, Guglielmo II tenta di indebolire il legame franco-russo cercando di
ricucire i rapporti con lo zar, ma senza successo. Con la prima “crisi marocchina” cerca poi di far lo stesso
con l’entente cordiale anglo-francese, ma nella conferenza di Algeciras non riesce nel suo intento.
Comincia a configurarsi così un bipolarismo europeo allargato e definitivo: da una parte la Triplice
Alleanza, dall’altra Gran Bretagna, Francia e Russia.
Gli Stati Uniti e i nazionalismi antieuropei
Proprio alla conferenza di Algeciras del 1906 convocata per risolvere la questione marocchina
partecipano anche gli Stati Uniti, che fino ad allora avevano mantenuto la distinzione fra i due “mondi”
continentali.
Con la fine dell’espansione della frontiera occidentale nel 1890 il paese va alla ricerca di “nuove
frontiere”, forte della propria economia (che ben presto diventerà la prima al mondo). L’occasione è
offerta dalla questione di Cuba, che nel 1895 si ribella alla dominazione spagnola. Gli Stati Uniti
scendono in campo contro l’imperialismo spagnolo nella guerra ispano-americana del 1898, e con la
vittoria ottengono anche una certa influenza sull’isola. Nel 1902 vengono poi annesse le Filippine,
formalmente come “territorio non incorporato”.
Aumenta poi la presenza commerciale statunitense in Cina, e la preoccupazione per la crescita della
potenza giapponese nel Pacifico. Roosevelt, con il “corollario” alla dottrina Monroe del 1904, giustifica
l’interventismo in centro America, dove impone protettorati ad Haiti, Nicaragua, Santo Domingo e
inaugura il canale di Panama. Nel frattempo viene avviata la costruzione di una potente flotta da guerra, e
si sostengono le imprese finanziarie e commerciali all’estero, mantenendo però le tariffe doganali
protezioniste per favorire il mercato interno. Il democratico Wilson, eletto nel 1912, continua la nuova
politica mondiale americana.
In Europa la crescita della potenza americana non impensierisce la Gran Bretagna, sulla base della
convinzione che fra i due paesi vi sia una “relazione speciale”, e viene sottovaluta dagli altri paesi, che
all’inizio del XX secolo devono fare i conti con sempre più forti resistenze nazionaliste, paradossalmente
ispirate dalla cultura europea, nei propri domini imperiali. Da qui le rivoluzioni in Persia (che però
fallisce) e nell’impero ottomano (dove dal 1912 si instaura una dittatura militare); le rivendicazioni
d’indipendenza fra le popolazioni arabe; il nazionalismo cinese, con il Guomindang guidato da Sun
Yatsen che nel 1911 instaura la repubblica, ma che per il momento non riesce ad affrancarsi dal dominio
europeo e giapponese.
I nazionalismi di massa
In questi anni aumenta quindi l’attività politica internazionale, alla quale cominciano ad interessarsi anche
le masse. Questo nuovo interesse “popolare” per le dinamiche internazionali sfugge però di mano ai
governi, che ben presto si fanno condizionare nelle scelte diplomatiche dai “nazionalismi di massa”, dove
per nazionalismo si intende quella dottrina che mette la gloria della propria nazione al vertice della
politica.
In Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, e persino negli imperi plurinazionali asburgico e zarista, si
affermano associazioni patriottiche volte a un “nazionalismo integrale”, che porta a instaurare un clima da
guerra civile non solo sul piano europeo, ma anche nazionale: chi non condivide le posizioni della “vera
voce della nazione” diventa automaticamente un traditore e un nemico.
Ovviamente ci sono anche posizioni alternative a quelle nazionaliste: si ricordi ad esempio
l’internazionalismo proletario del Manifesto di Marx ed Engels, le correnti pacifiste cattoliche ed
evangeliche, le Società per la pace (dal 1901 si comincia ad assegnare il premio Nobel per la pace), i
movimenti anti-imperialisti e pacifisti in Gran Bretagna e Stati Uniti a seguito delle guerre anglo-boera e
ispano-americana e quelli anti-militaristi. E in fondo anche i sistemi economici stessi non possono che
essere “internazionali”, in quanto improntati all’integrazione: addirittura diversi economisti, prima della
guerra mondiale, sostengono che in Europa non ci sono i presupposti per un nuovo conflitto in virtù del
sistema commerciale internazionale (tesi che verrà presto smontata).
Con la conferenza internazionale di Aja del 1899, promossa dallo zar Nicola II, si cerca di far incontrare
queste correnti con la diplomazia europea, ma i risultati sono scarsi. Le posizioni nazionaliste, grazie
anche a una efficace propaganda, acquistano sempre più rilevanza nella sfera dell’opinione pubblica.
Il bipolarismo instabile e la polveriera balcanica
Il bipolarismo configuratosi in Europa è altamente instabile, anche per la struttura stessa delle alleanze:
nel blocco austro-tedesco la Germania non riesce a esercitare un controllo totale sull’impero austriaco, e
lo stesso discorso vale per l’asse franco-russo. Inoltre, la debolezza delle potenze “minori” in tale sistema
va a scapito anche di quelle “maggiori”. Va ricordato infine che la posizione britannica, nonostante una
indubbia vicinanza alla Duplice Intesa, non è ancora chiaramente definita.
Altro elemento di destabilizzazione è la corsa agli armamenti. Già dal 1890 le maggiori potenze
incrementano le spese militari. Con la seconda conferenza dell’Aja del 1907 si cerca di controllare il
riarmo navale, ma il tentativo non va in porto, soprattutto a causa della rivalità anglo-tedesca.
In questo quadro già tormentato, la polveriera balcanica rischia di innescare a più riprese la guerra. La
crisi strisciante dell’impero ottomano dà il via libera all’affermazione di nazionalismi locali; dal 1906 si
ripropone con forza nell’area il dissidio austro-russo, con la Serbia che incita i movimenti slavi sottoposti
al dominio asburgico a ribellarsi. Movimenti che potevano contare sulla protezione della Russia, in nome
del panslavismo.
Nel 1908 scoppia la crisi bosniaca: l’Austria procede unilateralmente all’annessione della Bosnia
Erzegovina, nonostante le proteste russe. Nel 1911 nasce una seconda crisi marocchina, con la
contrapposizione fra Francia e Germania, che protesta contro l’occupazione militare francese: nonostante
il compromesso raggiunto, la crisi surriscalda gli animi. Nel frattempo Giolitti, pressato dai nazionalisti,
si decide a occupare Tripolitania e Cirenaica (l’attuale Libia), indebolendo così ulteriormente l’impero
ottomano.
Decisi a sottrarre la Macedonia dal controllo turco, Serbia, Bulgaria, Montenegro e Grecia costituiscono
la Lega balcanica (appoggiata diplomaticamente dalla Russia), e vincono la prima guerra balcanica del
1912. Poi però l’alleanza si incrina con le rivendicazioni territoriali avanzate dalla Bulgaria, che viene
sconfitta dagli altri membri dell’alleanza nel 1913. Con la pace di Bucarest si decide l’indipendenza di un
principato albanese e la Serbia ottiene il Kosovo. Risultato delle due guerre balcaniche, l’esasperazione
dei nazionalismi dell’area e della tensione in tutto il continente.
La prima guerra mondiale
Nel 1914 arriva infine una crisi che non si riesce ad arginare. In un certo senso alla base di tutto sta una
incidente che, in un quadro nel quale tutti i paesi sono più o meno pronti alla guerra aperta, viene preso a
pretesto per scatenare il conflitto. Quindi, guerra casuale, ma anche prevista.
Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, viene assassinato a Sarajevo (Bosnia) da uno studente
serbo. L’Austria allora lancia un ultimatum severo alla Serbia, ritenuta responsabile dell’attentato.
La Serbia è alleata della Russia, che in un primo momento minaccia soltanto la guerra, ma poi porta fino
in fondo la contrapposizione, anche perché alle prese con una difficile situazione interna. Il meccanismo
bipolare rende la crisi, inizialmente locale e circoscritta, continentale.
La Gran Bretagna cerca di mantenersi fuori dal conflitto, ma dà vita alla Triplice Intesa con Francia e
Russia quando i tedeschi procedono all’invasione del Belgio, neutrale. Londra non può lasciare che la
Germania ottenga l’egemonia europea. Poi all’Austria-Ungheria e alla Germania si aggiungono l’impero
ottomano (che chiude gli Stretti ai traffici russi) e la Bulgaria, mentre con la Gran Bretagna scende in
campo anche il Giappone, interessato alla Cina (controllata dai tedeschi).
L’Italia è, in linea teorica, alleata con gli imperi centrali: tuttavia il governo Salandra inizialmente si
mantiene neutrale, in quanto l’Austria si mantiene vaga riguardo alla ricompensa per gli italiani.
Si apre un dibattito nazionale, nel quale prendono piede spinte interventiste a fianco dell’Intesa: alcuni
vedono nella guerra la possibilità di completare l’opera risorgimentale. La maggioranza neutralista in
Parlamento viene sopraffatta dalla pressione delle minoranze e delle piazze: l’Italia firma con l’Intesa il
patto di Londra, che prevede in caso di vittoria il completamento dell’unita nazionale con le “terre
irredente” (Trento e Trieste) e un’espansione territoriale sulle coste adriatiche. Entra così in guerra nel
marzo 1915.
In molti ipotizzano una rapida risoluzione del conflitto. Ma ben presto la situazione prende tutt’altra
direzione: la guerra diventa di logoramento. Il piano Schlifen messo a punto dalla Germania, che
prevedeva di sconfiggere prima la Francia (passando per il Belgio) per poi occuparsi della Russia, si
rivela sin da subito inattuabile. L’innovazione tecnologica degli ultimi 40 anni ha investito soprattutto gli
armamenti di difesa, piuttosto che quelli offensivi: e così la grande offensiva tedesca si impantana sul
“fronte occidentale”, mentre in Italia la situazione stagna sulla linea di Trento e Trieste. La guerra si
risolve in tempo breve soltanto nei Balcani, con Serbia, Romania e Montenegro subito sconfitti dai
tedeschi.
Se la guerra è di logoramento, a vincere non sarà l’esercito più forte, ma la società (di massa) più solida e
prospera. Da qui la necessità di mobilitare le masse: si procede alla militarizzazione dei civili, e lo Stato
sostiene l’economia con interventi diretti.
Per giustificare questa mobilitazione popolare occorrono forti ideologie e propagande: qui entrano in
gioco i nazionalismi. “La patria è in pericolo” diventa il leif motiv di ogni Paese, che reputa di combattere
una guerra di difesa. In Francia, come negli altri Stati, si instaura un clima di “unione sacra”, di coesione.
Anche l’internazionale socialista entra in crisi: i partiti delle diverse nazioni danno il proprio appoggio
alla guerra. Le uniche eccezioni sono rappresentate da quello italiano (all’insegna del “non aderire né
sabotare”) e quello russo (il quale, data l’autorità dello zar, in patria contava poco).
I governi però si fanno sfuggire di mano gli eventi: tutti i tentativi di compromesso o di “pace separata”
dei primi due anni di guerra sfumano a causa dell’enfasi posta sulla vittoria come unica possibile via di
salvezza della nazione. Non c’è spazio per le mediazioni, compresa quella del papa Benedetto XV, che
lancia più di un richiamo contro il “suicidio civile d’Europa”: i suoi appelli cadono nel vuoto, tanto che
pure i cattolici entrano nel circuito bellico. Nel frattempo ogni potenza predispone, all’interno della
propria alleanza, accordi in vista del riassetto post-bellico.
In assenza di margini per negoziare, il conflitto diventa totale. In questa radicalizzazione trovano spazio
anche violenze e massacri contro popolazioni civili: è il caso soprattutto del genocidio degli Armeni ad
opera della dittatura militare nazionalista turca.
La svolta del 1917
Al terzo anno di guerra, il logoramento sta portando tutte le società coinvolte nel conflitto sull’orlo della
crisi. Alle disfatte militari contingenti (ad esempio, Caporetto per l’Italia) si aggiungono le difficoltà
economiche.
I paesi più deboli da questo punto di vista cominciano a crollare: il primo è la Russia, che aveva iniziato
tardi il processo di nazionalizzazione e modernizzazione necessario a sostenere lo sforzo bellico. Quando
a San Pietroburgo insorgono le proteste per la mancanza di alimenti, l’esercito non esegue l’ordine di
reprimere i manifestanti impartito dallo zar, che si vede costretto ad abdicare. Si instaura un governo
provvisorio social-rivoluzionario.
La Germania, ormai sfinita, vedendo la Russia in difficoltà tenta di chiudere la partita: sferra un’offensiva
sottomarina volta a bloccare i rifornimenti americana all’Intesa. L’attacco nelle acque dell’Atlantico
modifica la posizione degli Stati Uniti: Wilson in realtà preferirebbe non invischiarsi nel conflitto, ma non
può rimanere inerte. Anche a causa del timore che una vittoria tedesca riduca sensibilmente l’apertura
commerciale europea.
Gli Stati Uniti scendono in campo non come alleati, bensì “associati” dell’Intesa, distinzione che sarà
rilevante una volta cessate le ostilità. Wilson elabora una new diplomacy, basata sulla convinzione che i
tempi siano maturi perchè l’America assuma una leadership mondiale: i suoi “Quattordici Punti” sono
imperniati sul principio nazionale, sul concetto di “autodeterminazione dei popoli” in base al quale
ricostituire un ordine internazionale.
Nel frattempo in Russia, nell’ottobre (del calendario russo, nel resto d’Europa è novembre) del 1917 i
bolscevichi di Lenin prendono il potere, promettendo di realizzare la pace. Nel marzo del 1918 viene
siglata coi tedeschi la pace di Brest-Litovsk, con la quale la Russia esce dal conflitto e consegna alla
Germania alcuni territori nella zona ucraina.
Nel giugno del 1918 Berlino tenta il tutto per tutto: l’esercito si avvicina a Parigi, ma viene fermato anche
grazie all’intervento delle truppe americane. La guerra volge al termine soltanto perché non è più
possibile andare avanti: la Germania è costretta a chiedere un armistizio che naturalmente stona con la
concezione totalizzante del conflitto, ed apre una crisi politica interna negli imperi centrali. Della crisi
asburgica approfittano i movimenti nazionali slavi: nell’ottobre 1918 vengono proclamati il nuovo Regno
dei serbi, croati e sloveni, e la Cecoslovacchia. Inoltre l’Ungheria procede a ottenere l’autonomia
completa.
“La grande catastrofe seminale del secolo breve” si conclude così in modo ambiguo, senza un vero
vincitore, ma soltanto per sfinimento. Da qui la fragilità della pace che verrà siglata a Parigi, con l’Intesa
chiusa nei confronti di ogni possibile negoziato, e la Germania che rifiuta di riconoscere un vero
vincitore.
5. Il tentativo di un nuovo ordine internazionale
Versailles
Nel 1919 il vecchio ordine della sovranità assoluta degli Stati, della competizione e dell’equilibrio
imperiale non è più sufficiente. La radicalità della guerra crea l’attesa per una rivoluzione altrettanto
radicale: spiccano, in questo quadro, due portatori di novità che diventano punti di riferimento.
Da una parte, Lenin: ha rotto con la tradizione, e la sua rivoluzione deve essere necessariamente
“mondiale” per compiersi (marxismo). Il nuovo ordine che immagina è incarnato dal socialismo: la sua
visione però preoccupa le classi dirigenti europee, che cercano di isolare la Russia, non invitandola alla
Conferenza di Parigi, e sostengono le “armate bianche” anticomuniste nella guerra civile scoppiata nel
paese in seguito alle tensioni legate alla dissoluzione dello zarismo.
L’altro “profeta” è Wilson, punto di riferimento per i riformisti, che rilancia il principio nazionale e quello
democratico. Rifiuta la rivoluzione totale dei bolscevichi in nome della democrazia liberale, e fissa la
priorità di riconoscere la vittoria definitiva del principio di nazionalità, che deve essere il criterio
regolatore col quale costituire il nuovo ordine. Così facendo, Wilson si fa sostenitore del concetto di
auto-determinazione dei popoli. Ma se questa non venisse regolata diverrebbe sicuramente sorgente di
conflitti: propone allora la formazione di una organizzazione giuridica permanente di respiro
internazionale, con il compito di stabilizzare l’assetto.
Nasce da qui l’idea della Società delle Nazioni, la cui struttura viene però definita con una certa fatica a
causa dell’approccio della Francia, ossessionato dalla questione della sicurezza, e da quello della Gran
Bretagna, che vuole evitare eccessive interferenze con la porpora libertà d’azione. Inoltre entrambi i
paesi, forti della “vittoria” sui tedeschi, vogliono comunque consolidare il proprio potere imperiale.
All’inizio della conferenza di pace il presidente americano insiste perché gli accordi vengano negoziati
pubblicamente. Poi però le decisioni cruciali vengono prese autonomamente dal “consiglio dei Quattro”
(USA, Francia, Gran Bretagna, Italia). L’altro punto critico deriva dalla dimensione totalizzante del
conflitto concluso. Nonostante Wilson parli di una “pace senza vittoria”, si esclude per principio l’unico
paese sconfitto che conservi una continuità statuale: la Germania.
Primo risultato della conferenza, l’approvazione del Covenant della Società delle Nazioni, che ne
configura la struttura e che, se da un lato fissa la difesa dell’indipendenza e dell’integrità territoriale dei
membri, dall’altro manca di regolare i rapporti economici internazionali.
Per ottenere l’approvazione dell’organismo internazionale Wilson scende però a compromessi sull’assetto
territoriale e giuridico della pace, e, in particolare, sul nodo tedesco.
Da un lato il nazionalismo revanchista francese mira a ridimensionare la potenza tedesca: dall’altro la
Gran Bretagna vuole impedire la diffusione in Germania del risentimento, che renderebbe più difficile la
ricostruzione della struttura economica del paese, fondamentale per il mercato europeo. Si procede
dunque su una via di mezzo.
Nel trattato di Versailles viene attribuita alla Germania l’intera “responsabilità” dell’aggressione, e si
richiedono quindi riparazioni economiche. Il governo francese richiede che venga sottratta al controllo
tedesco la Renania, ma si mitiga la soluzione con la smilitarizzazione e l’occupazione da parte delle
armate alleate dell’area. Rientra poi in possesso dell’Alsazia e della Lorena, e ottiene la riduzione delle
forze armate tedesche e la sottrazione alla Germania del bacino minerario della Saar.
Sul versante orientale, la ricostituzione dello stato polacco richiede l’affrancamento dei territori ottenuti
da Berlino a Brest-Litovsk: si crea il “corridoio” di Danzica, che divide il resto del paese dalla regione di
Konigsberg. La severità delle sanzioni ovviamente aumenta la tensione nella già lacerata repubblica di
Weimar.
Nel definire l’assetto europeo l’Intesa non rispetta in diversi casi il principio di nazionalità: di difficile
soluzioni sono le questioni legate all’area ex asburgica ed ex zarista, e soprattutto quella balcanica. Nella
definizione dei nuovi Stati rimangono delle minoranze nazionali, spesso trattate con intolleranza dalla
etnia dominante.
Il nuovo stato polacco viene quindi ricostituito con i territori ex russi, ex austriaci ed ex tedeschi. Non ne
viene però fissato il confine orientale, e questo porta alla guerra con l’Unione Sovietica nel 1919-20: con
la vittoria la Polonia ottiene diversi territori bielorussi e ucraini. Stati dichiaratisi indipendenti durante la
guerra, come la Jugoslavia (Serbia e Montenegro) e la Romania, ottengono territori ungheresi. E nella
neonata Cecoslovacchia permane la minoranza tedesca nella zona dei Sudeti. Le minoranze complicano
ulteriormente un quadro già teso e frammentato dopo la caduta del comune nemico asburgico-ungherese.
Infine, la richiesta dell’Austria di essere annessa alla Germania sulla base di motivazioni nazionali viene
rifiutata, così da non rafforzare il blocco tedesco.
L’Italia a Versailles potrebbe ricoprire un ruolo importante, in quanto quarta potenza vincitrice. Assume
però una linea politica particolaristica, ambigua e discontinua. Il governo Orlando preme perché venga
rispettato il trattato “imperialistico” di Londra, incurante del principio di nazionalità, a cui però Wilson si
oppone. E spinge al contempo sul principio nazionale, quando la città di Fiume chiede di essere annessa
all’Italia. Roma gestisce male i rapporti diplomatici, e abbandona la conferenza senza risolvere la
“questione adriatica”: la mancata soddisfazione delle richieste italiane diffonde poi il mito dannunziano
della “vittoria mutilata” e un nazionalismo aggressivo.
I territori extraeuropei
Si deve sciogliere il problema delle colonie ex tedesche e dei territori distaccati dall’impero ottomano. Gli
Stati Uniti vorrebbero far rispettare anche in questo caso il principio di nazionalità, ma Francia e Gran
Bretagna portano il presidente americano al compromesso: gli Stati non ancora “pronti” verranno
“aiutati” dalle potenze vincitrici in virtù di mandati della Società delle Nazioni.
E’ comprensibile l’interesse delle potenze occidentali sul Medio Oriente, ricco di petrolio. Devono però
fare i conti con il nazionalismo delle popolazioni arabe. Alla fine la Francia ottiene un mandato per la
Siria e il Libano, seguendo una politica rigida nei confronti dei movimenti nazionali e religiosi; gli inglesi
gestiscono invece in maniera più conciliante il territorio che va dalla Palestina al Golfo Persico, e
concedono nel 1922 l’indipendenza all’Egitto (conservando però il controllo militare su Suez). Per
ottenere poi il sostegno del movimento sionista promettono la costituzione di una jewish national home in
Palestina: la questione si rivelerà in seguito problematica.
In Medio Oriente si sviluppa l’unico episodio di revisionismo riuscito dei trattati di Parigi: nella penisola
anatolica si compie la rivoluzione di Kemal (il futuro Ataturk). Dopo un conflitto con la Grecia vede la
luce, nel 1921-22, la Turchia moderna e laica, che con il trattato di Losanna del 1923 si assicura
l’Armenia.
In Estremo Oriente il Giappone ottiene il controllo della Manciuria, in precedenza sotto influenza russa, e
delle posizioni ex-tedesche occupate durante la guerra, come l’isola di Shatung. Estende inoltre la propria
presenza in Cina, e Wilson, sebbene preoccupato dalla preponderanza nipponica nella regione, lascia
correre: il trattato di Washington del 1921 è ambiguo nel tutelare la sovranità e l’integrità territoriale della
Cina, che diventa nei fatti una specie di colonia economica giapponese.
E’ cruciale anche la questione del disarmo. Viene imposto rigidamente alla Germania, ma i vincitori si
limitano a ridurre gli armamenti navali.
Wilson poi deve fare i conti con l’establishment americano, che non vede di buon occhio il vincolo
permanente della partecipazione statunitense nella Società delle Nazioni. Nel 1920 il Senato respinge il
trattato del presidente, che viene costretto a dimettersi. Paradossalmente gli Stati Uniti, promotori
dell’organizzazione internazionale, ne rimangono fuori.
Quindi la Società delle Nazioni, in seguito alla defezione degli Stati Uniti, all’assenza dell’Unione
Sovietica, alla posizione isolata italiana e all’esclusione dei vinti, si riduce nei fatti all’asse
franco-britannico, peraltro diviso da alcune questioni politiche. Naturale che il nuovo ordine del 1919 si
presenti già fragile.
La tensione postbellica
Nell’immediato dopoguerra rimane alta la tensione fra Francia e Germania, soprattutto sul tema delle
riparazioni finanziarie (fissate in 132 miliardi di marchi-oro). La debole repubblica di Weimar protesta
contro la severità dell’imposizione, e il governo francese si irrigidisce: si sfiora il conflitto aperto, nel
1923 i francesi occupano il distretto industriale della Ruhr.
Nel frattempo, nell’Europa centrale e orientale i nuovi Stati rivelano la propria fragilità: le democrazie
hanno vita breve, e quasi dappertutto si assiste a una svolta autoritaria che prelude alla svolta fascista
degli anni ’30. La Francia cerca di tenere i revisionismi delle condizioni di pace, e si allea con gli stati
dell’est “soddisfatti” dei trattati, dando così vita a un “sistema francese”, una “piccola intesa” che ha
anche l’obiettivo di “accerchiare” la Germania. Pesa però l’arretratezza economica dei paesi dell’est e la
complessità dei problemi politico-militari che Parigi deve affrontare.
L’Unione Sovietica, scossa dai postumi della guerra civile e della sconfitta per mano della Polonia,
rimane ai margini dell’assetto diplomatico. Lenin adotta una politica estera statalista tradizionale, mirata a
difendere gli interessi russi: con la creazione nel 1922 della URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche) recupera buona parte dei territori ex-zaristi. Nonostante questo “isolazionismo”, il Comintern
(la Terza Internazionale comunista) riesce comunque a far sentire l’influenza della rivoluzione bolscevica
in Europa.
Già prima del 1924 (anno della morte di Lenin) i bolscevichi cominciano a “stabilizzare” la situazione
interna: preso atto dell’impossibilità della “rivoluzione mondiale”, si punta a salvaguardare i risultati
raggiunti in madrepatria. Si costituisce così uno stato autoritario, e il potere viene centralizzato,
deludendo l’utopia dei soviet.
Nel 1925-26 Stalin prevale su Trockij (poi lo esilierà e lo farà infine uccidere) e sul suo progetto di
“rivoluzione permanente”. All’insegna dello slogan “socialismo in un solo paese”, il nuovo leader
imprime una svolta ancora più autoritaria e tradizionale, abbandonando così il progetto del Comintern.
Iniziano i primi riconoscimenti da parte delle potenze europee del nuovo soggetto, e anche i primi accordi
per cercare di superare i limiti del trattato di Versailles, riducendo così l’isolamento dei sovietici.
Intanto in Italia, fra il 1922 e il 1927, il fascismo, da movimento minoritario, arriva con Mussolini a
guidare un governo di coalizione e poi a instaurare una vera e propria dittatura. Se in un primo momento
nell’ambito internazionale si tiene una linea prudente, la fusione del partito con l’Associazione
Nazionalisti Italiani nel ’23, la minaccia di espandersi verso la Grecia e la svolta autoritaria del ’25
portano a crescenti tensioni.
L’ideologia “totalitaria” è estremamente nazionalista, e punta sulla mobilitazione permanente delle masse
per farne strumento di conquista. Ma lo stesso Mussolini definisce il fascismo un “fenomeno non
esportabile”, riducendone quindi la portata internazionale. Sul piano diplomatico il regime si riduce a
ostacolare l’egemonia europea della Francia e mantiene buoni rapporti con i conservatori britannici,
trovando anche un sincero ammiratore in Churcill.
La stabilizzazione effimera
Nonostante questi punti critici, a metà degli anni ’20 si cerca di stabilizzare il quadro europeo. Nel 1924 il
protocollo di Ginevra cerca di rafforzare la Società delle Nazioni, ma non entra mai in vigore. Si opera
allora la di fuori dell’organismo internazionale, innanzitutto cercando una soluzione negoziale alla
tensione franco-tedesca.
Il compromesso fra il ministro degli esteri francese Briand e il cancelliere tedesco Stresemann sulle
riparazioni di guerra viene raggiunto grazie agli Stati Uniti: il piano Dawes prevede che gli istituti
finanziari privati americani investano nell’economia tedesca, permettendo così la ripresa. In questo modo
la Germania può pagare (a rate) le riparazioni e uscire dall’iper-inflazione del dopoguerra.
Insieme alla risoluzione economica arriva anche quella politica, con il patto di Locarno del 1925: la
Germania riconosce il confine del Reno (e accetta la smilitarizzazione della Renania) per assicurarsi una
sorta di “credito” da spendere in altre partite territoriali, come quella del corridoio di Danzica e del
confine orientale, che rimane però ancora indeterminato.
Dopo Locarno, la Società delle Nazioni viene allargata anche alla Germania.
Si cerca poi di stabilizzare l’economia europea, prostrata dalla guerra e dall’inflazione postbellica. Alcuni
stati nazionali intraprendono la concertazione con le diverse parti sociali, fra le quali sono in ascesa i
sindacati: lo storico Charles Mayer parla di “economie corporate”. Si riprende anche il circuito finanziario
grazie ai capitali statunitensi, e il nuovo quadro consente alle forze dell’Intesa di ripagare i propri debiti
agli USA. Ma il sistema internazionale rimane privo di un vero e proprio centro, come poteva essere ad
esempio la Banca d’Inghilterra nell’800: la Federal Reserve americana, fondata nel 1912, non sembra
ancora in grado di regolare il sistema. Inoltre, le amministrazioni repubblicane adottano un atteggiamento
isolazionista, impegnandosi a sfruttare le relazioni esterne soltanto per affermare l’economia nazionale: si
insiste così sull’apertura dei mercati internazionali, ma al contempo si mantiene il protezionismo
doganale.
La crisi del 1929
La stabilizzazione è effimera in quanto crolla alla prima difficoltà: la crisi economica internazionale del
1929, innescata dallo scoppio della bolla speculativa di Wall Street. In mancanza di strumenti di
salvaguardia del sistema economico, il panico si diffonde rapidamente. Gli istituti bancari devono fare i
conti con debiti insostenibili, le industrie entrano in difficoltà, si impenna il tasso di disoccupazione.
La crisi si diffonde rapidamente in maniera endemica nel sistema mondiale. Gli istituti di credito
americano ritirano i capitali investiti all’estero, per far fronte alla cristi interna: da qui la depressione si
allarga anche al sistema europeo, e comporta disoccupazione di massa, incertezza sociale, tracollo dei
paesi appena usciti dalla difficile situazione post-bellica. Si allarga pure al mondo extraeuropeo, con la
recessione che avanza a causa del crollo dei prezzi delle materie prime.
Di fronte alla crisi i governi si trovano spiazzati: per reagire, cominciano a isolare i sistemi economici
nazionali e ad aumentare l’intervento statale nell’economia. Parallelamente, si inaspriscono le rivalità
nazionali e ritornano forme di nazionalismo competitivo, se non addirittura aggressivo. Diversi paesi
riprendono i protezionismi commerciali.
Negli Stati Uniti, l’impostazione America first (l’America prima di tutto) permane anche con l’elezione
del ’32 di Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal. Sgancia il dollaro dall’oro e ne
permette la svalutazione per aiutare il sistema bancario: questo provvedimento isola ancora di più
l’economia statunitense. Intraprende inoltre la “politica del buon vicinato” con l’America Latina,
costituendo così una area economica chiusa e indipendente.
Anche la Gran Bretagna proclama l’inconvertibilità in oro e la svalutazione della sterlina, e rafforza la
politica di nazionalismo imperiale. Viene accelerata la creazione del Commonwealth of British Nations,
comunità informale degli ex territori imperiali che, con la protezione doganale verso l’esterno, diventa
l’area economica britannica. La soluzione però non porta grandi risultati, mentre la crisi rafforza le
proteste dei movimenti anticoloniali: dal 1931 aumenta la pressione del movimento gandhiano in India.
Anche in Francia dilaga l’incertezza, nonostante il paese sia solido dal punto di vista finanziario. Il
governo cerca di costituire la propria area economica nell’ambito del “sistema francese” nell’Europa
orientale.
Solo l’economia sovietica rimane al riparo del terremoto. L’industrializzazione forzata avviata dal regime
di Stalin, sempre più dittatoriale, risolleva e rafforza l’economia russa. A prezzo però della distruzione
della piccola proprietà contadina, della deportazione di popolazioni e gruppi etnici, delle ondate di
carestie e delle purghe all’interno dello Stato-partito.
Gli effetti della crisi si fanno sentire anche in Estremo Oriente. Il Giappone è scarsamente dotato di
materie prime, ha bisogni di mercati di sbocco per le esportazioni e di paesi d’emigrazione per
l’eccedenza di sovrappopolazione. Per reagire alla chiusura del Commonwealth viene formulata una
scelta militare aggressiva, allo scopo di formare un proprio sistema imperiale: si procede all’invasione
della Manciuria, sulla quale il Giappone esercitava già una forte influenza. La Società delle Nazioni apre
una inchiesta e condanna la manovra, e in tutta risposta Tokyo nel ’33 abbandona l’organismo
internazionale.
Nel frattempo, si fa strada l’idea che le nuove esperienze autoritarie possano rispondere in modo efficace
alla Grande Depressione. Esemplare è in questo senso la crisi della repubblica di Weimar, già instabile di
per sé, e l’avvento del nazismo. Nel ’32 il NSDAP (Partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi)
diventa partito di maggioranza, e nel ’33 il presidente Hindenburg designa cancelliere Hitler, che già
aveva tentato un putsch nel ’23 a Monaco, e nel successivo periodo in carcere aveva scritto il Mein
Kampf, programma che rilancia in chiave razzista il nazionalismo tedesco.
Hitler al potere
Ben presto Hitler costruisce uno Stato dittatoriale. Per reagire alla crisi economica, si richiama alla
“comunità di popolo” dei tedeschi e incolpa gli ebrei, “governanti del capitalismo e del comunismo”,
delle difficoltà. Si rivela abile nello spingere la fusione “totalitaria” fra Stato e nazione, identificando le
masse con il Fuhrer, grazie a una efficace propaganda volkisch (populista).
La sua strategia parte dalla distruzione dei vincoli del trattato di Versailles, che avevano “schiavizzato la
Germania”. Una volta liberato il paese, si sarebbero poi potuti riunificare i tedeschi, con la reintegrazione
delle minoranze rimaste fuori dalla nazione dopo il 1919, nel Terzo Reich. Questo comporta
necessariamente lo stravolgimento del quadro territoriale europeo. Infine, si sarebbe dovuto costituire un
Lebensraum, uno spazio vitale della razza ariana tedesca, nell’Europa dell’Est, assoggettando le
“inferiori” popolazioni slave. Progetto nettamente incompatibile con quello dell’Unione Sovietica, e che
si traduce quindi nell’anticomunismo ideologico.
Per raggiungere i suoi obiettivi, fra il 1933 e il 1936 Hitler alterna veri e propri colpi di mano contro il
trattato a gesti di distensione, approfittando dell’incertezza in cui versano le altre potenze europee alle
prese con la depressione. Dopo aver abbandonato la conferenza del disarmo, nel ’33 Hitler esce anche
dalla Società delle Nazioni, dichiarando però di non voler compromettere la stabilità europea.
Nonostante la parziale convergenza ideologica fra fascismo e nazismo, fra Italia e Germania persistono
divergenze strategiche, soprattutto riguardo all’Anschluss (annessione) dell’Austria alla Germania.
L’apice della tensione lo si raggiunge nel ’34, quando i nazisti austriaci uccidono il cancelliere Dollfuss:
la ferma opposizione di Mussolini fa fallire il progetto.
Nel frattempo Hitler prosegue sulla via del riarmo, prima di nascosto e poi dichiarato: grazie alla spinta
economica dell’industria bellica riesce a ridurre il tasso di disoccupazione, rafforzando così il proprio
consenso. Poi, puntando a distruggere il “sistema francese”, avvia una serie di iniziative diplomatiche
nell’Europa orientale, garantendosi l’egemonia commerciale nell’area mitteleuropea e balcanica.
La risposta francese e britannica all’aggressività tedesca è debole e incerta. Londra persegue una politica
di appeasement, di distensione, tramite alcune concessioni alle richieste di Hitler, così da non alimentare
il revisionismo ed il risentimento tedesco. L’opinione pubblica inglese vuole assolutamente evitare
un’altra guerra.
La linea francese è invece più rigida, rifiuta qualsiasi revisione del trattato di Versailles. Il paese però non
ha risorse sufficienti per sostenere tale posizione, e l’insicurezza è aggravata dalle divisioni interne. Alla
fine viene adottata una politica soprattutto difensiva, con la fortificazione della Linea Maginot sul confine
franco-tedesco.
Cambia nel frattempo l’ottica sovietica: pur rimanendo ferma l’idea di “guerra inevitabile” con il
capitalismo, Stalin riconosce che l’avvento del nazismo è un pericolo per la “sicurezza collettiva”. E così
nel ’34 aderisce alla Società delle Nazioni, mentre l’anno successivo stringe un patto con la Francia. Nel
frattempo il Comintern rende prioritaria l’opposizione antifascista, dando così il via libera alla formazione
in Europa dei “fronti popolari”.
Nel ’35 Mussolini, che fino ad allora ha collaborato al mantenimento della stabilità europea, imprime una
svolta imperialista: decide di conquistare l’Etiopia (dopo l’umiliazione di Adua del 1896) convinto che
Francia e Gran Bretagna non si opporranno, in quanto hanno bisogno del supporto italiano in chiave
anti-tedesca. L’aggressione militare all’Etiopia però viene condannata dalla Società delle Nazioni:
Mussolini, dopo aver proclamato l’impero nel 1936, abbandona l’organismo internazionale. Hitler
intanto, approfittando della confusione, rimilitarizza la Renania.
Il sistema francese si incrina con la proclamazione di neutralità del Belgio e l’orientamento crescente dei
paesi della Piccola Intesa a scendere a patti con la Germania. Si avvicinano poi le dittature fasciste e
naziste: Mussolini nel ’36 parla di un “Asse” Roma-Berlino. Germania e Giappone stringono un “patto
anticomintern”, al quale aderirà anche l’Italia
L’Europa si divide quindi fra fascismi e antifascismi: i due fronti vengono incarnati nella guerra civile
spagnola, scatenata dalla sollevazione di Francisco Franco contro la vittoria elettorale del Fronte Popolare
nel 1936. Nei tre anni di guerra fra repubblicani e nazionalisti le potenze europee daranno il loro sostegno
all’una e all’altra fazione. Nel frattempo in tutta Europa si affermano nuovi regimi di destra radicale, che
cominciano a gravitare nell’orbita dell’Asse.
Verso lo scontro
Nel ’38 Hitler avvia la fase di revisione dei confini. Porta a termine l’Anschluss con l’Austria, e poi nella
conferenza di Monaco in settembre pone alle altre potenze la questione della minoranza tedesca dei
Sudeti in Cecoslovacchia. Londra e Parigi cedono alle sue richieste: poi però la Germania passa il segno,
smembrando nel ‘39 la Cecoslovacchia. La Wehrmacht (il nuovo esercito tedesco) occupa Praga. Nel
frattempo l’Italia annette l’Albania.
Ora però Francia e Gran Bretagna cambiano approccio: di fronte alla pressione di Hitler perché la Polonia
regoli la questione del “corridoio” di Danzica, il governo Chamberlein fornisce garanzie di protezione a
Varsavia e agli stati orientali.
In vista dello scontro imminente, Hitler, facendo leva sulle diffidenze di Stalin verso gli occidentali,
stringe con la Russia il patto Ribbentrop-Molotov: è un patto di non aggressione, e prevede anche
protocolli segreti per la spartizione in sfere d’influenza dell’Europa orientale.
Con l’attacco tedesco dell’1 settembre alla Polonia, e la dichiarazione di guerra alla Germania di Francia
e Gran Bretagna, inizia la seconda guerra mondiale. Inizialmente sembra ancora uno scontro per
l’egemonia continentale, ma è chiaro fin da subito che questa è la seconda fase della “guerra civile
europea” iniziata nel 1914. La contrapposizione è totale.
Il patto Ribbentrop-Molotov ha incrinato il fronte antifascista, ma dall’altra parte ha svuotato l’alleanza
“anticomintern” fra Germania e Giappone, ostacolando la cooperazione. E nonostante il “patto d’acciaio”
italo-tedesco, Mussolini non può ancora avviare un’efficace intervento militare: da qui la
“non-belligeranza”.
Nel 1940 la Germania conquista Danimarca e Norvegia, e poi costringe la Francia all’armistizio in
giugno. A questo punto, ritenendo la guerra vicina alla conclusione, Mussolini, con l’intenzione di
sottrarsi all’egemonia tedesca sul continente, attacca la Grecia. Lo scontro però entra in una fase di stallo:
l’esercito tedesco interviene occupando Jugoslavia e Grecia.
Si impone così il Neue Ordnung (nuovo ordine) nazista. Nei paesi sconfitti e occupati vengono instaurati
“governi di tipo Quisling” (il primo è quello norvegese di Quisling), come quello di Petain in Francia, con
capitale Vichy. Nel frattempo la Turchia, la Spagna di Franco e la Svezia rimangono neutrali, mentre la
Russia è vincolata dal Ribbentrop-Molotov. A contrastare Hitler rimane soltanto la Gran Bretagna di
Churcill, con la quale la Germania ricerca (senza successo) un compromesso.
Nel 1940 viene stretto il “patto tripartito” fra Germania, Italia e Giappone. Quest’ultimo nel ’41 occupa
l’Indocina francese, creando così tensione nei rapporti con Gran Bretagna e Stati Uniti. Stringe poi un
patto di neutralità con l’Unione Sovietica, che toglierà a Hitler il sostegno giapponese sul fronte orientale.
La svolta ideologica e mondiale della guerra
Nel ’41 la guerra diventa propriamente mondiale.
Fra inglesi e americani i rapporti erano già consolidati da tempo. E poi, dopo la crisi del ’29, gli Stati
Uniti hanno bisogno di poter commerciare con un’Europa aperta, mentre una vittoria del nazismo avrebbe
portato con tutta probabilità a una chiusura. Nel marzo del ’41 viene approvata la legge lend-lease (affitti
e prestiti) che permette a Roosevelt di aiutare i paesi in guerra la cui sicurezza sia ritenuta vitale per gli
Stati Uniti.
In agosto Churcill e Roosevelt firmano la Carta Atlantica, che configura già gli obiettivi finali della
cooperazione.
In giugno Hitler attacca a sorpresa l’Unione Sovietica con l’Operazione Barbarossa. Teme che Stalin
possa rafforzarsi eccessivamente, e inoltre punta a eliminare la Russia dall’Europa dell’est per costituire il
Lebensraum. La cooperazione anglo-americana viene allargata a Stalin, che firma pure la Carta Atlantica.
Il Giappone però, in base agli accordi presi, non attacca i russi. Punta invece allo scontro con gli Stati
Uniti, con i quali dopo l’occupazione dell’Indocina i rapporti erano ulteriormente peggiorati, per
assicurarsi un’area imperiale nel sud est asiatico. Per realizzare la “sfera di co-prosperità asiatica” si fa
leva sul sentimento antiamericano ed antieuropeo di paesi come India e Birmania. Non si ottiene
altrettanto successo nell’area comunista (Cina ed Indocina), nettamente anti-nipponiche.
L’attacco del Giappone a Pearl Harbor nel dicembre del ’41 coinvolge direttamente nel conflitto gli Stati
Uniti, ai quali necessariamente dichiarano guerra anche Germania e Italia. Cambia la base ideologica del
conflitto: dallo scontro fra paesi soddisfatti di Versailles e paesi revisionisti, si arriva alla
contrapposizione totalizzante e “religiosa” fra fascismi e antifascismi.
La speranza di Hitler di ottenere una vittoria lampo contro la Russia viene presto delusa. Stalin, facendo
leva sul nazionalismo russo, riesce a resistere. L’1 gennaio 1942 la Dichiarazione delle nazioni unite
formalizza la “strana alleanza” antifascista. Si delinea una nuova guerra di logoramento.
L’attenzione si focalizza sul fronte russo-tedesco: agli inizi del ’43 la battaglia di Stalingrado segna la
svolta e dà avvio alla controffensiva sovietica. Nel frattempo le truppe italo-tedesche vengono scacciate
dall’Africa settentrionale e il 25 luglio gli anglo-americani sbarcano in Sicilia: l’8 settembre l’Italia
chiede l’armistizio. Hitler allora occupa gran parte della penisola per tenere il fronte a sud.
Ormai la “strana alleanza” ha la certezza della vittoria. Si può così cominciare a pianificare la situazione
postbellica, evitando le ambiguità della diplomazia della prima guerra mondiale. Fra Stati Uniti, Gran
Bretagna e Unione Sovietica permane però la sfiducia: Stalin punta a costituire una sfera d’influenza
nell’Europa orientale, mentre Churcill è preoccupato di una possibile espansione del comunismo, e punta
sempre a una balance of power europea.
Nelle conferenze di Teheran, Crimea e Jalta, i tre leader si limitano a promettersi di rispettare i reciproci
interessi e cominciano a delineare la nuova Organizzazione delle Nazioni Unite, ma rimangono vaghi su
questioni cruciali come quella tedesca (si parla di uno smembramento e di un’occupazione militare da
parte dei vincitori) o polacca.
Intanto il regime nazista si irrigidisce: lo sfruttamento economico dei paesi occupati raggiunge livelli
brutali, e viene portato alle estreme conseguenze l’antisemitismo. Alla fine del ’41 viene pianificata la
“soluzione finale”, apice dello sterminio sistematico degli ebrei.
Nel ’45 si chiude il conflitto, con i carri armati russi che entrano in una Berlino ridotta in macerie e le
bombe atomiche statunitensi sganciate sul Giappone. Il bilancio è di 50 milioni di morti, di cui la metà
civili.
6. Il mondo bipolare della guerra fredda
I progetti per il dopoguerra
Il quadro internazionale che emerge dalla fine del conflitto è del tutto nuovo.
Sia i vinti che i vincitori europei precipitano in una crisi economica a fronte degli sforzi sostenuti in
guerra. L’Unione Sovietica e soprattutto gli Stati Uniti assumono il ruolo di due “superpotenze” con
orizzonte globale, godono di dimensioni e potenzialità demografiche semi-continentali.
In posizione dominante, gli Stati Uniti. Forti dello slancio economico permesso dalla produzione bellica e
dell’incremento demografico. Dalla coscienza del proprio primato, l’eccezionalismo americano viene
declinato in termini universalistici: nella società americana comincia a farsi strada l’idea di assumersi
responsabilità globali. Perché gli Stati Uniti diventino un modello per tutti, è necessario creare un mondo
economicamente integrato, nel quale crescita economica e democrazia avanzino di pari passo.
Si devono costituire nuovi specifici organismi garanti della cooperazione economica internazionale,
aspetto trascurato dalla pace del 1919: dalla conferenza monetaria e finanziaria a Bretton Woods escono la
Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (primo passo verso una Banca mondiale) e il
Fondo Monetario Internazionale, posto a sorvegliare i movimenti finanziari e i rapporti fra le monete. A
questi organismi aderisce inizialmente anche l’Unione Sovietica.
Il mondo economicamente integrato ha però bisogno di una struttura istituzionale politica, più “flessibile”
di quanto lo era stata la Società della Nazioni. E così nell’ONU i cinque membri permanenti del Consiglio
di Sicurezza, ovvero USA, Russia, Gran Bretagna, Cina (per l’entità territoriale e demografica) e Francia
(ammessa su pressione britannica) godono di diritto di veto, così da evitare lo scoglio dell’unanimità e
tutelare al tempo stesso le grandi potenze. Si prevedono poi le misure per rispondere alle crisi e alle
minacce alla pace, fino ad un’azione militare collettiva con una forza armata guidata da uno Stato
maggiore internazionale (li si definirà “caschi blu”). Formalmente l’ONU viene fondata il 26 giugno 1945
con la firma di 50 stati, prima dei trattati di pace.
L’altra superpotenza, l’URSS, deve fare i conti con le perdite umane e materiali nel conflitto mondiale.
Stalin conferma allora l’industrializzazione forzata, a scapito dei beni di consumo e dell’agricoltura, e
pone l’accento sulla sicurezza militare. Non completa poi l’adesione al Fondo monetario internazionale,
sottraendosi così al sistema economico imperniato sugli Stati Uniti.
L’Occidente teme l’espansione dell’Unione Sovietica, che gode di un certo appeal per il ruolo antinazista
nella guerra mondiale. Stalin d’altro canto rimane convinto che l’attacco da parte del mondo capitalistico
sia dietro l’angolo. Per assicurarsi la sicurezza militare e geografica, punta allora a creare sul fronte
europeo un’area di territori “dipendenti” che mitighino la possibile aggressione.
In primo luogo, vuole confermare i territori incamerati con il Ribbentrop-Molotov: gli stati confinanti
però sono attraversati da forti tensioni anti-russe. Allora, per realizzare la propria sfera d’influenza
orientale, Stalin opta per un rigido controllo militare (come nel caso della Cecoslovacchia) o per la
manipolazione delle elezioni democratiche (Bulgaria, Romania). Fa eccezione la Jugoslavia di Tito, che
rimarrà autonoma da Mosca.
Ovviamente questa politica genera negli Stati Uniti e in Europa profonda insicurezza: si comincia a
temere anche il crescente consenso dei partiti comunisti in Occidente. Ma la strategia stalinista è
essenzialmente di arroccamento, di chiusura nei confronti del mondo capitalistico.
La questione tedesca, con l’occupazione militare quadripartita di Berlino, è emblematica del difficile
equilibrio. Certo, i vincitori si accordano sulla punizione dei “crimini di guerra” nazisti (il tribunale di
Norimberga), ponendo così le basi per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Per il
resto però prevalgono le divergenze, e in merito a Berlino non si riesce a elaborare una politica comune.
In questo quadro l’Europa ha ormai perso la propria centralità. Le potenze europee vincitrici cercano
ancora di perseguire una politica autonoma: la Gran Bretagna però deve fare i conti con l’esaurimento
delle proprie risorse finanziare e produttive (aggravate dal ripristino della convertibilità della sterlina, su
pressione statunitense), e i movimenti nazionalistici anti-inglesi nell’impero, che rappresenta oltretutto un
costo notevole. Viene così ridimensionato (nel ’47 si riconosce l’indipendenza dell’India), e si
mantengono solo nodi nevralgici quali Cipro e Suez.
La Francia si trova altrettanto in difficoltà. Si cerca di ripristinare il controllo coloniale nell’Union
francaise, ma i paesi dipendenti resistono, con l’Indocina in testa. E il governo è costretto ad abbandonare
Siria e Libano.
Le origini della guerra fredda
Le due superpotenze si impongono come i poli principali del sistema postbellico. Continuare l’alleanza di
guerra fra i Grandi appare da subito difficile, con le prime tensioni legate all’imposizione di regimi
politici nelle rispettive sfere d’influenza (esempio è il caso italiano, con la penisola occupata dagli Stati
Uniti alla fine del conflitto). Ultimi gesti di cooperazione sonno i trattati di pace con gli alleati minori
dell’Asse nel 1947. Gli stati nazionali “intermedi” creati nel primo dopoguerra vengono ricostituiti, ma
restano i vantaggi territoriali russi. I confini polacchi vengono spostati più a ovest, a spese della
Germania. Rimane aperta la questione tedesca, cruciale per l’assetto europeo.
Già nel 1946 Churcill denuncia la divisione dell’Europa in due parti ad opera della “cortina di ferro”
eretta da Mosca. Punto di svolta è il 1947, con l’elaborazione della “dottrina Truman”: perché il “grande
disegno” statunitense si realizzi, è necessario impedire all’URSS di espandere ulteriormente la propria
influenza. Il presidente americano adotta allora la linea del containment, dichiarandosi pronto a
intervenire laddove i “popoli liberi” vengano minacciati dall’esterno o da “minoranze sovversive”
all’interno.
Gli Stati Uniti lanciano un programma d’aiuti per l’Europa: il piano Marshall, rivolto ai paesi che
vogliono collaborare al disegno americano. Ovviamente Mosca e i suoi satelliti lo rifiutano, aggravando
così la contrapposizione: Stalin irrigidisce il proprio blocco con la costituzione del Cominform, Ufficio
d’informazione dei partiti comunisti europei. Viene ordinato di bloccare il piano Marshall ai partiti
francese e italiano, che vengono così estromessi dal governo nei rispettivi paesi.
Si radicalizza la contrapposizione fra i due poli. Il giornalista americano Lippmann conia l’espressione
“guerra fredda”, ad indicare l’alta tensione internazionale e lo scontro ideologico totale short of war (ai
limiti della guerra) tra i due “blocchi”.
La tensione sale nel 1948-49, tanto che la guerra sembra dietro l’angolo. Punto di crisi è ancora la
Germania: alla fusione delle zone d’occupazione occidentali risponde la creazione del partito unico della
Sed nella parte sovietica. A Berlino i sovietici impongono il blocco dei rifornimenti via terra: per
aggirarlo gli americani ricorrono a un ponte aereo. Nel 1949 il blocco viene revocato, e si procede alla
divisione della Germania in Repubblica Federale (ovest) e Repubblica Democratica (est).
Il timore di una nuova guerra generale impedisce però lo scontro aperto, e costituisce in fin dei conti un
fattore di stabilizzazione a vantaggio delle stesse superpotenze. Nella primavera del ’49 i paesi europei
richiedono agli Stati Uniti un’alleanza che garantisca la protezione dall’URSS. Truman è costretti ad
impegnarsi in tal senso, al fine di realizzare il proprio progetto: nell’aprile 1949 viene stretto il Patto
Atlantico, che legittima lo stanziamento di truppe americane in Europa e soprattutto in Germania.
La guerra di Corea
Un altro punto critico per gli Stati Uniti è la vittoria della rivoluzione comunista in Cina di Mao Zedong,
che costituisce la Repubblica Popolare Cinese (il governo di Chiang si ritira sull’isola di Taiwan sotto
protezione americana, e questo dualismo sarà fonte di tensione). Si allarga la sfera comunista mondiale, e
così l’Asia viene investita nella logica della guerra fredda. Tuttavia si profilano già divergenze fra Mosca
e Pechino, nonostante il trattato trentennale di cooperazione siglato nel 1950.
Nel frattempo, la notizia che la prima atomica sovietica è stata sperimentata con successo porta Truman a
elaborare una nuova strategia offensiva: mobilitazione economica volta al riarmo convenzionale, e
conferma dell’alleanza atlantica. In quest’ottica il ministro degli esteri francese Schuman propone un
piano: riprendere la produzione di carbone e acciaio nella Repubblica Federale Tedesca sotto un’autorità
sopranazionale. Nasce così nel 1951 la CECA, alla quale oltre a Francia e Germania aderiscono i paesi
del Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo) e Italia. Ne rimane fuori l’Inghilterra, che vuole mantenere
una totale autonomia.
La tensione porta nel 1950 allo scoppio della guerra in Corea, divisa sin dal dopoguerra fra un nord
sovietico e un sud americano. A scagliare l’offensiva è il governo comunista del nord: gli Stati Uniti
portano la questione all’ONU, e il Consiglio di sicurezza autorizza l’invio di truppe americane a difendere
il regime politico della Corea del Sud. Mao poi interviene per impedire l’occupazione americana della
Corea del Nord. Nessuna dei due blocchi però vuole andare oltre lo scontro locale, e l’armistizio del ’53
congela la situazione.
Stabilità bipolare e evoluzioni nei sottosistemi
La crisi coreana porta gli Stati Uniti a ricostituire l’indipendenza e l’operatività economica giapponese
(trattato di pace di San Francisco del 1951) e a porre l’enfasi sul riarmo dei paesi occidentali, compresa la
Germania federale. All’interno del patto atlantico viene costituita la North Altantic Treaty Organization,
un’organizzazione militare integrata. E se fallisce il progetto della CED (Comunità Europea della Difesa)
per l’opposizione dell’Assemblea Nazionale Francese, la CECA è ormai consolidata, e nel ’57 i patti di
Roma sono un importante passo in avanti: i paesi della nuova CEE vengono integrati a livello economico,
favorendo il boom che va dal ’50 al ’73.
I francesi parlano di “trent’anni gloriosi”, gli inglesi di “età dell’oro”: la crescita coinvolge tutti, anche i
paesi “minori” e quelli sconfitti. Perfino il Giappone, nuova base logistica per le truppe americane. Non
manca un certo controllo dei governi sull’attività economica: le politiche nazionali di Welfare State danno
così vita a un embedded liberalism, un liberalismo limitato di stampo keynesiano. Permangono, ad
esempio, alcune tariffe doganali, sebbene vengano progressivamente ridotte, e i governi nazionali
vigilano sui movimenti finanziari e valutari.
La stabilizzazione nel blocco orientale è più difficile, in quanto nell’est europeo si sviluppano alternative
statuali nazional-comuniste: significativo soprattutto il caso della Juglosavia di Tito, che nel 1948 viene
emarginata dal blocco sovietico. In più di un paese si assiste a conflitti interni ai partiti comunisti, ai quali
Mosca risponde irrigidendosi. Per garantire la “solidarietà comunista”, nel ’49 nasce il Comecon
(Consiglio di mutua assistenza economica) e nel ’55, in risposta all’integrazione della Germania Federale
nella Nato, viene costituito il patto di Varsavia, che consente ai russi di mantenere truppe nei paesi
satelliti.
Il 1956 è un anno di svolta nel processo di stabilizzazione. Dopo la morte di Stalin nel ’53 era cominciata
a emergere la figura di Chruscev, che prende le distanze dall’irrigidimento e si propone di modernizzare il
blocco sovietico, riducendo innanzitutto il costo dell’apparato militare convenzionale. Nei ’55 ripristina i
rapporti con la Jugoslavia, e nel ‘56 parla addirittura di una possibile “coesistenza pacifica” con
l’Occidente. Nel frattempo però stronca brutalmente la rivoluzione ungherese occupando militarmente
Budapest. In sostanza, l’URSS di Chruscev riesce a reggere la sfida della crescita economica e a trovare
un assestamento dei “nazionalcomunismi”.
La decolonizzazione
In questi anni il dominio coloniale europeo sui continenti africano ed asiatico entra definitivamente in
crisi. Nei paesi controllati la lezione e l’eredità dell’Occidente si mischia alle originalità locali: la presa di
autonomia avviene sull’onda di un modello politico debitore nei confronti della storia europea, soprattutto
al concetto di “nazione”. Infatti un ruolo fondamentale in questo processo di decolonizzazione viene
svolto dai “movimenti di liberazione nazionale”.
Già nell’immediato dopoguerra Francia e Gran Bretagna devono riconoscere l’indipendenza a India,
Indocina o Siria. L’Olanda nel 1949 è costretta a concederla all’Indonesia. Più tardi, nel ’57, i britannici
perdono anche la Malesia. La decolonizzazione prende piede prima nell’Asia Orientale, e poi, a partire
dagli anni ’60, in Africa.
Nei primi anni ’50 viene coniata l’espressione “Terzo Mondo”, che richiama evidentemente il Terzo Stato
della Rivoluzione Francese, quello dei non-privilegiati. E’ indice di una volontà comune dei paesi di
nuova indipendenza di emanciparsi dall’assetto bipolare.
Gli Stati Uniti potrebbero allargare il loro disegno di integrazione ai nuovi paesi, se non fosse per la loro
pesante arretratezza. E così dopo il 1950, nell’ottica del containment, ci si limita a sostenere regimi
politici che non scivolino verso l’area d’influenza sovietica. Regimi anche dittatoriali, come quelli in
America Latina.
Dal canto suo, l’URSS cerca di ottenere una certa influenza sui nuovi stati indipendenti recuperando
l’antimperialismo di Lenin, e raggiunge qualche risultato in paesi come l’India o l’Egitto. La rivoluzione
cubana di Fidel Castro nel ’59 prende come punto di riferimento Mosca.
Pesa però l’aperta contrapposizione con la Cina di Mao Zedong fra il 1959 e il 63. Pechino richiede per sé
una forte autonomia politica internazionale, ritenendosi una grande potenza (attraversata però da tensioni
interne) dal punto di vista demografico e territoriale e poi, dal ’64, anche militare, con l’ingresso nel
“club” atomico. Mao critica la linea prudente di Chruscev, e non esclude guerre di liberazione nel mondo
arretrato.
In sostanza, nessuna delle due superpotenze riesce a formulare progetti efficaci nell’ambito della
decolonizzazione. Vengono poi compiuti passi importanti in direzione del progetto di emancipazione del
Terzo Mondo, come le conferenze di Bandung (Indonesia) del 1955 e di Belgrado nel ’61. Sempre in
quest’ottica viene costituita la Organizzazione per l’Unità Africana.
A metà degli anni ’60 si afferma un movimento dei “paesi non allineati”, la cui leadership viene assunta
da Nehru (India), Nasser (Egitto) e Tito (Jugoslavia), e che si concentra soprattutto sui problemi del
sottosviluppo economico. Il problema di “nuovo ordine economico mondiale” viene posta dal “gruppo dei
77” (tanti erano i paesi di nuova indipendenza) nella conferenza Unctad in sede all’ONU del 1964, ma sia
i sovietici che gli occidentali oppongono resistenza.
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Storia Contemporanea, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Storia della Politica Internazionale nell'Età Contemporanea, Formigoni. Gli argomenti trattati sono i seguenti: dall’universalismo medievale agli Stati moderni, la ristrutturazione attorno al nuovo Stato sovrano, gli equilibri del sistema, il sistema europeo e il mondo non europeo.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher barbaravivino di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Libera Università di Lingue e Comunicazione - Iulm o del prof Formigoni Guido.
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