vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Così, se nel 1961 si ebbe una sola impresa pluriepisodica, nel 1962 se ne ebbero già 4, tra cui RoGoPag dove
figura uno dei più bei titoli della filmografia di Pasolini (La ricotta).
Nel 1963 se ne contarono 8, nel 1964 14, nel 1965 12, nel 1966, il filone già consunto non diede che 4
esemplari, che si ridussero a 2 nel 1967.
Complessivamente, questo filone servì soltanto a coprire il vuoto produttivo e ispirativi dei tre anni più critici
del decennio, ma non valse a indicare nuove e durature possibilità strutturali allo spettacolo cinematografico.
Sul piano degli incassi, le cose andarono in verità un po’ meglio.
X – L’impegno di Francesco Rosi: la personalità più notevole, tra i cineasti che, avendo esordito negli anni
’50, si affermarono definitivamente nel decennio successivo, è Francesco Rosi.
Nel 1958 si ha il film d’esordio, “La sfida”. L’opera prima di Rosi associava una rinnovata attenzione
sociologica ad una densità romanzesca.
Il secondo film di Rosi, invece, era uno storia di specialisti nell’arte di arrangiarsi (protagonista Alberto
Sordi), ambientata nella miracolata Germania di Adenauer tra la miseria dell’emigrazione italiana: “I
magliari”.
La sua è una esplicità e continua ricerca di un impegno che non sia disgiunto dallo spettacolo.
Ma “Salvatore Giuliano” (1962), suo terzo film, è il suo capolavoro. La morte del bandito, le prime verità sui
modi della sua eliminazione: Rosi ci dà l’opera più vera che il cinema abbia mai dato sulla Sicilia.
Egli elabora un lungo, poliedrico cinegiornale che espone taluni fatti come apparvero; ne disvela alcune
connotazioni; li collega con altri fatti il cui nesso era preciso anche se taciuto.
Al tono scarno, severo, spoglio, corrispondeva l’autenticità umana degli interpreti non professionisti e
ambientale degli sfondi naturali.
Un anno dopo, nel 1963, scoppia con clamore ancora maggiore la bomba “Le mani sulla città”, che vince il
Leone d’Oro al festival veneziano del 1963, tra le non poche polemiche della destra, che si vide attaccata su
uno dei più tradizionali terreni operativi del capitale: la speculazione edilizia di cui il film, anche oltre
l’ambientazione napoletana, costituisce una generale denuncia.
XI – I mostri di Marco Ferreri: così come Francesco Rosi, anche Marco Ferreri si afferma negli anni ’60
tra i maggiori cineasti italiani che hanno esordito nel decennio precedente.
“L’ape regina” è la radiografia grottesca di un matrimonio borghese dove si affaccia, per la prima volta, il
tema della coppia, che resterà con rare eccezioni il leit motiv più ricorrente della filmografia del regista.
Il film è infatti la storia di un fuco/uomo, Alfonso, e di un’ape regina/donna, Regina, che il primo, già
quarantenne, prende a corteggiare. Tutta incenso e cattolicesimo, Regina rifiuta ogni contatto
prematrimoniale men che casto; e, subito dopo avere consacrato l’unione, pretende invece sesso costante e
continuo finchè maternità ne segua. Quando ciò accade, l’ape regina scarta il fuco che ormai è soltanto
ingombrante.
“La donna scimmia” (1964) ci indica che il “diverso” è un mostro. Maria è una donna baffuta, barbuta e
irsuta che un napoletano dai mille mestieri, Antonio, espone come un fenomeno da circo.
Egli, un po’ per pietà, un po’ per interesse, la sposa. Quando la donna, rimasta incinta, morirà di parto,
Antonio finirà per andare in giro esponendone ai curiosi il corpo, insieme a quello del figlioletto morto.
Il “mostro” è soltanto un “diverso”, il cui scarto dalla norma sorprende o disgusta, irrita o minaccia i
“normali”, cioè i veri mostri.
L’avversione di Ferreri alla “morale” corrente è significata da “Il professore”, di cui è protagonista uno
splendido Ugo Tognazzi, qui nelle vesti di un insegnante che, dietro una esterna veste di esemplarità
pedagogica, di irreprensibile rettitudine e di ineccepibile serietà, è un grumo di rimozioni trasformate in
manie, di inibizioni mascherate, di vizi inconfessabili: classico esempio di cose si nasconda dietro la scorza
moralistica del perbenismo.
“L’uomo dei cinque palloni” (1965) andò incontro a incidenti di natura censoria. Il tema del film è
esistenziale. A un uomo integrato, che agisce solo perfettamente fuso con la macchina industriale, succede
qualcosa per cui si spezza l’equilibrio, alienante e robotizzato, che lo rendeva sicuro. Vuole sapere quanta
aria può tenere un palloncino senza scoppiare. Non riesce a saperlo e si uccide.
XII – Le contraddizioni di Elio Petri: Petri esordisce nel 1961 con “L’assassino”, un racconto giallo.
Un giovane antiquario veniva sospettato di avere ucciso la propria amante, fino a quando la scoperta del vero
colpevole non allontanava definitivamente da lui ogni sospetto.
Ma “I giorni contati” (1962) è il migliore film del regista.
E’ una storia di morte: la morte della moglie di Cesare, l’idraulico 45enne protagonista del film, che all’inizio
del racconto è appunto da poco vedovo; la morte di uno sconosciuto coetaneo di Cesare, che l’uomo vede
morire improvvisamente su un tram; la morte che, dopo questi fatti, Cesare tenta di vincere, o allontanare,
smettendo improvvisamente di lavorare per cercare di godersi un poco una vita mai posseduta, i piaceri mai
avuti, le esperienze mai provate; la morte che, infine, conclusivamente trionfa, dopo che Cesare, avendo
verificato come ormai sia tardi per tutte le nuove strade e come il suo cammino sia irrimediabilmente
tracciato, torna a lavorare e dunque ad attendere, come sempre, la propria fine.
“A ciascuno il suo”, anche grazie al robusto testo letterario di Leonardo Sciascia che gli sta dietro, è un gran
film di delitti mafiosi, di silenzi complici, di minacce anonime, di vedovanze rassegnate e di impotenze
poliziesche in una Sicilia bellissima e stralunata.
E’ il più civilmente violento e moralmente duro atto d’accusa alla mafia realizzato dal cinema italiano negli
anni ’60.
XIII – I miti di Pier Paolo Pasolini: la sua produzione fu vasta e omogenea, segnata dall’esordio con
“Accattone”, ad inizio decennio.
“Accattone” è una opera chiave nell’intera produzione artistica pasoliniana, poiché testimonia in modo
inequivocabile la presenza di un magma ispirativo dove confluiscono il motivo della morte e del mito,
dell’incontaminata preistoria e della storica crudeltà sociale, della vitalistica anarchia e dell’ordine
repressivo, dell’epica innocenza e dell’inesorabile grigiore omicida del mondo.
2. La salvezza di Accattone è proprio la morte, che egli saluta sorridente nel delirio dicendo: “Aaaah…Mo’
sto bene!”. In realtà, la crisi di Accattone è una crisi totalmente individuale: si compie non solo nell’ambito
della sua irriflessa e inconscia personalità, ma nell’ambito della sua irriflessa e inconscia condizione sociale.
“Accattone” è un film che non si offre in alcun modo come rappresentazione ideologica della condizione
proletaria, ma soltanto come applicazione a un mondo sottoproletario dell’ideologia della morte, che
tormenta ed esalta l’intellettuale borghese Pasolini.
Anche il successivo film pasoliniano “Mamma Roma” (1962) si chiude con una morte. La Magnani/Mamma
Roma coltiva ambizioni piccolo-borghesi per il proprio figlio.
Ma la morte è in Pasolini la legge caratterizzante dell’esistenza, la pulsione sovrana, la conclusione obbligata
e definitiva.
In “Accattone” e “Mamma Roma” la morte chiude tragicamente il discorso, impedendogli al contempo di
uscire fuori dal recinto mitico e di trasformarsi in concreta domanda sul mondo.
La differenza è che mentre per “Accattone” la morte è in fondo una dolce liberazione, per Ettore la morte è
un terribile, atroce, doloroso supplizio.
“La ricotta” è invece interamente costruito su un sistema di contrapposizioni: la calligrafica rappresentazione
della morte secondo i moduli di Rosso Fiorentino e del Pontormo e la realtà atroce della morte di Stracci, la
ben ordita falsità della finzione (la Passione filmata) e la realtà del calvario di stracci.
3. “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) ha come dato più saliente la costante immanentizzazione di ogni dato
trascendente implicito nel testo evangelico. Il Cristo pasoliniano è divino, soltanto nel senso che
quell’umanità così alta, rigorosa, ideale che egli presenta è consapevolmente profetica, antistorica, anormale:
in altri termini, eroica.
Il Cristo aristocratico, inflessibile e iconoclasta del Vangelo pasoliniano ha la disumana eccezionalità
dell’eroe, più che la mitica aura del dio.
Pasolini mette in scena un profeta disarmato, che predica la distruzione del presente attraverso l’utopia, ne
nega la logica mediante i miracoli, ne incrina l’ordine attraverso lo scandalo, ne contesta l’etica disgelandone
l’ipocrisia.
In “Vangelo”, Pasolini ripropone filtrata e riletta attraverso il Mito, la propria ideologia quale si era andata
esprimendo nella produzione narrativa e in quella cinematografica del ciclo sottoproletario: la periferia degli
emarginati come i destinatari e i portatori di un’Utopia, il presente come realtà da negare.
In “Uccellacci e uccellini” (1966) vi è la storia “di un padre e di un figlio che non si sa chi siano, da dove
vengano e dove vogliano andare; errano per il suburbio e la campagna romana, dialogano con un linguacciuto
corvo marxista, parlano agli uccelli come San Francesco, fanno all’amore tutti e due in un campo con la
stessa battona” (Moravia).
Questo film è uno tra i più sintomatici documenti di quella crisi dell’ideologia marxista che il cinema
italiana, pur collocandosi genericamente a sinistra, vive come dato continuamente rimosso.
“Uccellacci” è infatti la rappresentazione, tenera ma disincantata, amara ma sorridente, struggente ma non
disperata, di Totò e Ninetto, che percorrono il cammino della vita, periodicamente persuasi di potere mutare
il mondo sulla scorta di quelle grandi idee.
Ma l’amore suggerito da San Francesco e predicato da Totò ai falchi e ai passeri, non impedisce che i passeri
continuino ad essere mangiati dai falchi; e la razionalità ideologica che il saggio e petulante “corvo marxista”
(un missionario dell’altra chiesa) indica ai protagonisti,