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Consideriamo Ladri di biciclette (1948): tutto è vero, autentico, e tutto è nello stesso tempo astratto,
assoluto, simbolico. Questa Roma, a volte orribilmente piena e pullulante di folle anonime, altre
volte paurosamente desolata, sembra respirare come un organismo vivente, sembra pulsare di una
sua vita dannata e sublime. E la cinepresa, camminando accanto ai due protagonisti, scopre che
questo paesaggio urbano ha qualcosa d’intermedio fra città e formicaio, fra natura e cultura.
Anche Lattuada è fra i primi a cogliere la contaminazione di sguardo del personaggio e della
cinepresa, come nella panoramica di 360° nel film Il bandito (1946) in cui lo sguardo del
personaggio che ritorna a casa diventa a poco a poco sguardo della cinepresa, o nella brumosa
pineta aurorale di Senza pietà (1948). Lattuada è anche il primo a “vedere” i grandi casamenti di
periferia nel loro aspetto tragicomico (Gli italiano si voltano in Amore in città, 1953), e che
giungeranno poi al palazzo di Roberto ne Il sorpasso (1962) di Dino Risi e in Mamma Roma (1963)
di Pasolini.
Il neorealismo e i suoi eredi scoprono che l’occhio del cinema non è uno solo, e non è quello
astretto trascendentale del narratore, ma molteplice, polimorfo; che soggetto e oggetto si guardano
entrambi. Saranno sempre Visconti, Fellini, Rossellini, Pasolini e poi Olmi, Bertolucci e tanti altri
della generazione successiva a raccogliere l’eredità di questo nuovo modo di guardare.
Per Rossellini il realismo è una “posizione morale” che consiste nel non nascondere la presenza
dell’osservatore, come faceva invece il cinema classico, e nell’avere un atteggiamento di amore
verso l’oggetto guardato, di curiosità e di rispetto. È lo spettatore che viene chiamato a fare il film
(La strada, Vaghe stelle dell’orsa, Edipo re, La strategia del ragno).
Dopo il neorealismo, la differenza fra luoghi del cinema e spazi diegetici cresce e matura. I film di
Rossellini e di Antonioni sono una scoperta dello spazio ancora prima che dell’uomo. Con la
crescita dello spazio dentro l’inquadratura, diventa più difficile raccontare storie e un nuovo
personaggio si affaccia sullo schermo e non intende recedere: il vuoto, il paesaggio.
Lo spazio si intromette fra le figure, apre fessure nel tessuto delle azioni, richiede più tempo per
essere guardato, allunga anche la durata delle inquadrature. La scoperta del cinema moderno è
quella di uno spazio vivo che, vuoto o pieno che sia, non si lascia ridurre a semplice sfondo, ma
emerge spesso come protagonista.
La nouvelle vague, che si richiama direttamente a Rossellini, a Renoir e a questa scoperta dello
spazio, segna una nuova fase in cui il cinema diventa uno sguardo cosciente della sua complessità.
Con Truffaut, Godard, Varda, si sviluppa questa vicinanza fra cinema come racconto di una storia e
cinema come ricerca di un racconto del mondo (La pointe courte di Varda, I quattrocento colpi di
Truffaut, ecc.). Grandi vettori di questo nuovo sguardo sono anche Resneis e Marker (Hiroshima
mon amour).
Matura infine con il cinema moderno una vera e propria tensione verso l’invisibile che si esprime in
molte opere, indipendentemente dai registi (in Herzog e Wenders in particolar modo).
Un altro caso sono i film utopici di Straub e Huillet, in cui vediamo il recupero della veduta
Lumière, con in più tutto ciò che il cinema ha acquistato lungo la sua strada. In Troppo presto,
troppo tardi (1981) l’inquadratura fissa che dura tutto il tempo di un rullo su una fabbrica del Cairo,
con l’uscita degli operai, ripete l’uscita dalle officine Lumière: siamo passati attraverso tutta la
storia del cinema. 4. Ritorno al cinema italiano
Il recupero del sacro e dell’aura nella cultura sconsacrata
Negli ultimi dieci anni del Novecento, con la diffusione del digitale, sembra che le potenzialità del
cinema si siano finalmente liberate. In questa libertà apparente sta nascosto un grande
impoverimento, che deriva dalla perdita della qualità essenziale, originaria del Cinematografo
Lumière, ovvero il confronto dello spettatore con se stesso e con l’oggetto.
La tecnologia digitale, almeno ora nei suoi albori, invece di usare l’immagine per riflettere sul reale,
preferisce risolvere tutto il reale nell’immagine, che diventa unico referente di se stessa. Il cinema
ha «venduto l’anima e il corpo all’utopia digitale, diventando onnipotente ma perdendo il suo
rapporto con il reale». Per quanto problematico fosse, questo rapporto con se stessi e con il referente
era l’anima del cinema.
Come ricompensa per la perdita del rapporto con il mondo, troviamo una profusione di elementi
soprannaturali, superiori, extraterrestri e ultraterreni. Ma gli spazi virtuali, quanto più vengono
mostrati e costruiti, tanto più rivelano la sostanziale povertà dell’immaginazione rispetto alla
ricchezza dell’esperienza visiva.
Questo soprannaturale digitale non è che la parodia di un perduto rapporto con il sacro. I paesaggi
pseudo fascinosi e pseudo misteriosi non sono che la parodia industriale di quei panorami
scheletrici del mondo. Ma di fronte a questa onnipotenza del vedere, proposta dal cinema
contemporaneo, si può conservare una posizione equilibrata? A questa visibilità totale si può
contrapporre ancora un cinema che inviti lo spettatore a riflettere e a interrogarsi sullo statuto del
proprio guardare? E poi, in che modo l’uomo postmoderno, che finisce per essere dovunque e in
nessun posto, può tentare un autentico recupero del sacro?
Il fenomeno originario è l’atto del guardare. Il grande tema sottostante di ogni film, difficile, che fa
paura, spesso eluso dal cinema americano riemerge sempre da solo: che cosa stiamo guardando?
Chi siamo?
Se consideriamo il cinema delle origini, il suo modo di mettere in scena l’uomo che guarda il
mondo o l’uomo che filma il mondo possiamo notare che proprio il cinema, almeno nella sua forma
originaria recupera l’aura nella sua forma più intensa. Vi sono innanzitutto due tipi di aura: uno è
relativo al contenuto, l’altro è relativo alla rappresentazione dell’opera. L’aura della prima
accezione, antropologica, consiste nella distanza, nell’autonomia dell’oggetto, delle persone, cose o
luoghi che il film mostra. L’aura nella seconda accezione, quella sacrale, consiste nella coscienza
spettatoriale, nel guardasi guardare, come accadeva ai primi spettatori Lumière. Questi tre deittici
(ora, qui, tu) erano l’aura, in questi stava nascosto l’aspetto sacro del cinematografo e che il cinema
moderno, riflessivo, ha cercato di recuperare. Il cinema recupera l’aura quando restituisce allo
spettatore il tempo e lo spazio del guardare, quando ci restituisce noi stessi.
L’aura del cinema, il suo aspetto sacro, subito perduto, stava nella coscienza di essere una “copia
originale”. Nel cinema successivo sono presenti entrambe le possibilità visiva e narrativa, ma è la
seconda che ha prevalso.
Esistono allora due tipi di recupero del sacro e dell’aura: uno parodico e commerciale, quello del
cinema postmoderno, che supplisce con mostri banali a un impoverimento sempre crescente, e uno
invece autentico, che passa attraverso lo spettatore. Uno vende allo spettatore facili certezze
sull’invisibile, l’altro lo lascia con i suoi dubbi profondi su se stesso, sui limiti del visibile e della
conoscenza.
Il paesaggio nel cinema italiano nella seconda metà del Novecento, o meglio in quella parte del
cinema italiano che eredita dal neorealismo l’unificazione di arte e conoscenza, rappresenta un
momento in cui estetica, etica e antropologia si avvicinano in modo straordinario, fino a proporre
quasi una concezione del mondo e del rapporto con il mondo. Si tratta dell’idea di avere davanti
qualcosa (il film) e qualcuno (il mondo) che non riusciremo mai a comprendere fino in fondo.
Antropologia perduta e ritrovata
Questa coscienza dei limiti, limiti della conoscenza e dello sguardo, del vedere e del sapere, che
contrasta con l’onnipotenza visiva del cinema classico, è una conquista non solo filosofica, ma
anche antropologico-culturale e nello stesso tempo estetica.
L’Italia non possedeva, fino a poco tempo fa, una disciplina antropologica ufficiale, pur essendo un
terreno straordinariamente fecondo per l’antropologia. La cultura italiana rimase divisa in due parti,
da un lato quella ufficiale, dall’altro il mondo dell’arte.
Alcuni registi e cineasti in effetti si interessavano di antropologia, ma come documentaristi, ma la
vera antropologia del cinema sta nel modo di guardare, non nelle cose osservate. La proposta è
quella di leggere nel cinema successivo al neorealismo le tracce di quell’antropologia che mancava
nella cultura ufficiale.
Per anni la critica ha ingabbiato i maggiori registi italiani dentro etichette contenutistiche, ma fra di
essi vi era di più in comune, ovvero un modo di guardare al mondo circostante e a se stessi con
occhio antropologico, un occhio vicino, quindi, ma anche lontano. Matura nel cinema italiano, o in
buona parte di esso, uno sguardo consapevole dei propri limiti.
In che modo possiamo definire antropologico questo cinema?
Potremmo dire che, nel loro stare sempre sul confine fra sguardo e racconto, i registi italiani, spesso
inconsapevolmente, si imbattono, assorbono e realizzano nei loro film quella straordinaria
mescolanza di mondo arcaico e mondo moderno che caratterizza la cultura italica. Nasce una figura
di narratore-osservatore più complessa di quella classica, collocata fra presente e passato, fra storia
e mito (Ossessione, Viaggio in Italia, La dolce vita, L’avventura). Il soggetto della visione di scopre
diverso, ibrido, incerto fra passato e presente, fra storia e mito fra visibile e invisibile, fra sapere e
non sapere.
Con la loro sensibilità complessa, molti registi italiani si occupano spesso del sacro, come rapporto
perduto dell’uomo con se stesso. Non lo fanno da intellettuali naturalmente, ma da poeti,
antropologi poeti che assorbono quello che vedono pur restando se stessi.
Tale è dunque la prima meta di questo percorso: mostrare come, in vari e molteplici modi e forme, i
registi compensino, almeno in forma poetica, l’antropologia mancante nella cultura italiana.
Pavese: un recupero del mito senza mito
Perché allora il paesaggio?
Nella cultura italiana il mito, il sacro, si concretizzano non solo in una parola ma in un luogo o
meglio nel nome, spesso addirittura comune di un luogo. Questo aspetto è stato messo in luce da
Cesare Pavese.
La comprensione del mito in Pavese è istantanea e cristallina. Il mito secondo lui è strettamente
legato al luogo o meglio al nome, all’imma