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I MAESTRI BRESCIANI: IL ROMANINO, MORETTO E SAVOLDO
Gerolamo Romani, detto il Romanino, esordì verso il 1510 con un Compianto
sul Cristo Morto nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, dove a una base di
realismo lombardo aggiunse riferimenti di altre scuole, come quella ferrarese. A
Padova vide poi gli affreschi di Tiziano nella Scuola del Santo, dai quali riprense
un senso più accentuato per il colore corposo e la dinamicità della
composizione. Un primo omaggio al maestro veneziano si riscontrò nella Pala di
Santa Giustina (Musei civici di Padova, 1513), in cui affiorano anche ricordi
della formazione lombarda come l'architettura bramantesca della volta che
sovrasta e incornicia le figure.
Tornato in patria, nel 1517 circa Romanino ripropose uno schema simile nella
Madonna col Bambino e santi per la locale chiesa di San Francesco, in cui si
riscontrano già i tipi fisici che contraddistinsero la sua produzione successiva.
Senza allontanarsi troppo da Brescia negli anni successivi toccò vari cantieri,
come quello del Duomo di Cremona (Passione di Cristo, 1520 circa), dove
venne in contatto con i modi magniloquenti del Pordenone, e come i piccoli
centri delle valli bresciane (Breno, Bienno, Pisogne), in cui lasciò tavole e
affreschi con interessanti accenti alla realtà quotidiana, fortemente presente
nei gesti, nei costumi e nelle espressioni.
Nel 1521 la cooperazione col Moretto alla cappella del Sacramento nella chiesa
di San Giovanni Evangelista sancì la presenza in città di una vera e propria
scuola. Il maggior successo del secondo, spinse il Romanino a concentrarsi
soprattutto sulla provincia, più ricettiva del suo stile naturalistico, concedendosi
qualche raffinata divagazione come gli affreschi nel castello del Buonconsiglio a
Trento dopo il 1530, a fianco di Dosso Dossi.
Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, lavorò prevalentemente a Brescia, per
questo il suo stile è più radicato nella tradizione locale, con un più deciso
influsso di Vincenzo Foppa. Lavorò spesso per le chiese e i committenti privati
locali, diventando il pittore più richiesto in città. Tra le prime opere spicca l'Elia
e l'angelo per la cappella del Sacramento in San Giovanni (1521-1523), dallo
sfondo alla fiamminga.
Negli anni successivi subì l'influenza di Tiziano, grazie all'arrivo del citato
Polittico Averoldi nel 1522, e di Raffaello, arrivando a modi più morbidi e
composti: non è un caso che opere come la Santa Giustina di Padova e un
donatore (1530 circa) fossero in passatto attribuite al Sanzio.
Vivace ritrattista, lodato dal Vasari, nelle sue opere si possono cogliere echi di
Lorenzo Lotto e di Hans Holbein il Giovane. A partire dagli anni quaranta
divenne uno dei più apprezzati interpreti delle istanze controriformate, con pale
d'altare spesso dedicate al tema del sacrificio eucaristico, come il Cristo e
l'angelo (1550-1554), capolavoro tardo impostato a una tavolozza dai toni
smorzati, a sentimenti patetici e a una scioltezza prospettica, con la figura di
Cristo sapientemente articolata lungo i giradini.
Giovanni Girolamo Savoldo fu il terzo maestro bresciano e la sua produzione si
colloca interamente in due decenni, dal 1520 al 1540 circa. Non se ne
conoscono opere giovanili e ciò rende difficile la ricostruzione della sua
formazione. Nel 1506 si sa che era a Parma e nel 1508 a Firenze, quando la
città era in fermento per la presenza le straordinarie novità di Leonardo,
Michelangelo e Raffaello. Entro il 1520 si stabilì a Venezia, dove entrò in
contatto con gli effetti materici del colore corposo di Tiziano e con le atmosfere
contemplative di Giorgione, pur restando sempre fedele alla sua matrice
naturalistica lombarda.
In particolare sono famose le sue opere dalla luce palpitante, come la serie
della Maddalena (1540 circa), o il San Matteo e l'angelo al Metropolitan
Museum (1534). Quest'ultimo mostra un'ambientazione notturna con una fonte
di luce interna al dipinto (la candela in primo piano) ed effetti chiaroscurali di
grande suggestione, che anticipano il caravaggismo.
Tra i numerosi ritratti spicca il Ritratto d'uomo in armatura al Louvre (1529
circa), dove il soggetto è ritratto in scorcio e riflesso da due specchi, un vero
tour de force pittorico legato alle disquisizioni sul paragone delle arti. Se nelle
pale d'altare di grande formato l'artista mostrò di aderire agli schemi
tradizionali, aperti alle influenze di Tiziano, più originali e interessanti appaiono
invece le opere di dimensioni medie, destinate a privati, in cui sperimenta
soluzioni più originali attingendo a un vasto repertorio, che arriva anche fino a
Hieronymus Bosch.
FERRARA
A Ferrara l'esaurirsi della generazione di Cosmè Tura, Francesco di Cossa e
Ercole de'Roberti lasica alla capitale estense la difficile eredità di un ricambio
artistico ad alto livello. All'inizio del nuovo secolo si sviluppa una nuova scuola,
da intensi scambi con altri centri, che ha come protagonisti Ludovico Marzolino
e Dosso Dossi.
Dosso entra presto in contatto con l'arte veneta, grazie ad un soggiorno a
Venezia intorno al 1510. Il suo punto di riferimento diventa così Tiziano ospite
della corte della corte estense. La presenza a Ferrara dell'Ariosto crea un clima
artistico e letterario incline all'evocazione fantastica. Il pittore si accosta alla
tecnica tizianesca, riprendendone le vaste aperture di paesaggio e la ricchezza
cromatica, per creare immagini di tono favoloso. La sua arte non presenta
un'evoluzione.
Attivo su vari fondi, della pittura sacra alla decorazione profana, Dosso Dossi si
distingue nel campo delle composizioni mitologiche o letterarie.
IL CORREGGIO A PARMA
Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, agosto 1489 – Correggio, 5 marzo
1534) fu un pittore italiano.
Prendendo spunto dalla cultura del Quattrocento e dai grandi maestri
dell’epoca, quali Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Mantegna, inaugurò un
nuovo modo di concepire la pittura ed elaborò un proprio originale percorso
artistico, che lo colloca tra i grandi del Cinquecento.
In virtù della dolcezza espressiva dei suoi personaggi e per l’ampio uso
prospettico, sia nei dipinti sacri sia in quelli profani, egli si impose in terra
padana come il portatore più moderno e ardito degli ideali del Rinascimento.
Infatti, all’esplosione del colore veneziano e al manierismo romano,
contrappose uno stile fluido, luminoso, di forte coinvolgimento emotivo. Nello
sforzo di ottenere la massima espressione di leggerezza e di grazia, Correggio
fu un precursore della pittura illusionistica. Introdusse luce e colore perché
facessero da contrappeso alle forme e sviluppò così nuovi effetti di chiaroscuro,
creando l’illusione della plasticità con scorci talora duri e con audaci
sovrapposizioni. L’illuminazione e la struttura compositiva in diagonale gli
permisero anche di ottenere una significativa profondità spaziale nei suoi
dipinti, caratteristica quest’ultima, tipica del suo stile. Le maestose pale
d’altare degli anni venti sono di spettacolare concezione, con gesti concatenati,
espressioni sorridenti, personaggi intriganti, colori suadenti.
Compie un lungo iter di formazione, dapprima in ambito emiliano poi a
Mantova, presso l'anziano Mantegna, e infine, durante il secondo decennio del
Cinquecento, alla ricerca di una libera interpretazione delle opere di Leonardo.
La sua produzione è scandita da tre successivi cicli di afreschi, tutti a Parma: la
camera della Badessa, la sua prima grande impresa pittorica nel Monastero di
San Paolo, su commissione della badessa, appunto, Giovanna Piacenza.(1519
circa). Non sappiamo come il Correggio sia entrato in contatto con la badessa
ma, dato che il monastero di San Paolo era benedettino, è possibile che
abbiano giocato un ruolo i rapporti che l’artista aveva avuto con i benedettini di
San Benedetto Po (Mantova).
Alcuni motivi della Camera fanno pensare a una conoscenza abbastanza
sviluppata di Raffaello e di lavori come la Stanza della Segnatura e la Loggia di
Psiche. A Roma forse l'artista vide anche la perduta cappella del Belvedere di
Mantegna, possibile fonte di ispirazione ulteriore. Anche una visita a Milano è
stata spesso richiamata dagli studiosi per spiegare le affinità del giovane
Correggio con Leonardo.
La decorazione dovette procedere spedita e già nel 1520 essere completata.
Per Correggio si trattò del primo capolavoro ad affresco e segnò l'avvio di un
decennio fortunatissimo, in cui si concentrarono i suoi più grandi capolavori a
Parma. La Camera stessa segnò un nuovo traguardo nell'illusionismo pittorico e
venne ammirata e citata da pittori, anche se solo per un breve frangente. A
base pressoché quadrata, la camera è coperta da una volta a ombrello di gusto
tardogotico, realizzata nel 1514 da Edoari da Herba, e originariamente
presentava arazzi alle pareti.
La volta vuole imitare un pergolato aperto sul cielo, trasformando quindi
l'ambiente interno in un giardino illusorio. I costoloni della volta dividono
ciascun spicchio in quattro zone, corrispondenti a una parete. Al centro della
volta si trova lo stemma della badessa, in stucco dorato, attorno al quale
l'artista ideò un sistema di fasce rosa artisticamente annodate, a cui sono
legati dei festoni vegetali, uno per settore. Lo sfondo è un finto pergolato, che
ricorda e sviluppa i temi della Camera degli Sposi di Mantegna e della Sala
delle Asse di Leonardo. Ciascun festone termina in un'apertura ovale dove,
sullo sfondo di un cielo sereno, si affacciano gruppi di puttini. In basso poi,
lungo le pareti, si trovano lunette che simulano nicchie contenenti statue,
realizzate con uno starordinario effetto a trompe l'oeil studiando l'illuminazioine
reale della stanza. La fascia più bassa infine simula peducci con arieti, ai quali
sono appesi teli di lino tesi, sostenenti vari oggetti. Sulla cappa del camino,
infine, Correggio dipinse la dea Diana su un cocchio tirato da cavalli; la
decorazione della chiesa di San Giovanni Evenagelista (1520-1523), decorò
l'abside e la cupola. Oggi resta la decorazione della cupola, con la Visione di
san Giovanni, il tamburo, i pennacchi e il fregio, mentre dell'Incoronazione della
Vergine, già nella calotta dell'abside, ne rimane solo un frammento nella
Galleria Nazionale di Parma.
Nella straordinaria cupola usò lo sfondato, cioè simula un cielo aperto con le
monumentali figure degli apostoli a fare da corona, seguendo il perimetro della
cupola, al Cristo sospeso a mezz'aria. L'eliminazione di ogni elemento
architettonico e