Riassunto esame Storia dell'Africa prof. Gentili, libro consigliato Il Leone e il Cacciatore
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• Niger. Al referendum del ’58 il partito al potere, l’Unione démocratique nigerienne
(UDN) di Djibo Bakary sostenne il voto contrario, ma i francesi favorirono
l’opposizione del Bloc nigerian d’action che ebbe la meglio e portò al consenso. Ciò
dimostrò la debolezza di un Paese rimasto sempre poverissimo e completamente
soggiogato dai francesi, che attraverso una politica di “divide et impera” avevano
nel corso della dominazione messo le diverse popolazioni l’una contro l’altra.
Gli inglesi adottarono un’ideologia opposta a quella francese basata sulla sostanziale
universalità del genere umano: la diversità tra le razze è un dato di fatto. Da qui un
sistema teoricamente duale, con la distinzione tra governo coloniale britannico e le native
administrations locali funzionanti attraverso istituzioni tradizionali. Duale in teoria, perché
di fatto il controllo britannico è totale e soprattutto non punta ad alcuna modernizzazione
delle società indigene ma desidera preservare il loro “stato di natura”. Si possono
distinguere comunque tre tipi di dipendenze coloniali:
1. Governo bianco nelle colonie con una forte comunità europea: Sudafrica,
Rhodesia, Kenya) dove e native administrations non si attuano.
2. Sistemi centralizzati esistenti già in precedenza e preservati in virtù dell’idea che i
sistemi gerarchici sono più avanzati (califfato di Sokoto,, Asante, Buganda ecc.).
3. Sistemi acefali, cosiddette backward ribes (arretrate), in maggioranza, dove vi
sono solo forme elementari di alleanze fra clan.
Le native administrations si basano sull’individuazione dei capi legittimi e sulla loro
collaborazione nell’esercizio dell’autorità secondo le leggi consuetudinarie (perciò fu
definito un sistema di administocracy). Laddove non presenti capi legittimi, il governo
britannico individua gli uomini più eminenti della comunità elevandoli al rango di capi. La
costruzione di nuove legittimità si spinge fino alla costruzione di nuove comunità: quelle
più deboli e disperse vengono assorbite dalle maggiori o ristrutturate in modo da andare
incontro alla semplificazione amministrativa britannica. Accanto alle n.a. c’erano poi le
multiple dependencies, misti di colonie e protettorati abitati da sudditi coloniali e dove non
c’era spazio per nessun tipo di rappresentanza degli autoctoni. Una prima apertura verso
una maggior rappresentanza all’interno delle n.a avvenne con il riconoscimento di Consigli
consultivi da affiancare all’eccessiva ingerenza dei re e capi locali, spesso in
contrapposizione col volere dei dominatori. Nel 1947 la riforma Creech-Jones aprì
all’elezione a livello locale di tali rappresentanti, ma non si trattò altro che di un tentativo di
cooptare nel sistema istanze rinnovatrici o voci dissenzienti.
Casi pratici di indirect rule. Il sistema delle n.a fu applicato con casi esemplari in Nigeria
e Uganda.
La Nigeria era in realtà un multiple dependencies ma nei territori prettamente coloniali –
specialmente nel nord - si puntò a far leva sui capi locali. Inizialmente l’autorità fu
concessa solo agli Oba, i “re” dello Yorubaland, a cui negli ’30 vennero affiancati consigli
di notabili per limitare il loro potere autocratico. L’espansione della produzione di cacao,
fortemente osteggiata dai contadini che non volevano sacrificare la loro agricoltura di
sussistenza in favore di una produzione tesa unicamente alla commercializzazione,
garantì forti introiti soli ai capi e aumentò il fenomeno dei senza terra. Ciò provocò un
inevitabile risentimento verso i capi tradizionali, che persero la legittimità e il prestigio agli
occhi della popolazione. Gli Ibo e gli Yoruba divennero le élite istruite poste a capo
dell’amministrazione nigeriana, costruendo di fatto a tavolino una divisione di natura
etnica. Nel 1940 il Colonial Development and Welfare Act puntò al rilancio delle attività
economiche e limitò i poteri delle n.a. attraverso limitate elezioni. Nel 1946 la Costituzione
Richards recepì questo principio in Nigeria permettendo elezioni locali per i tre Consigli
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regionali e per quello legislativo. Nel 1954 alla Costituzione Richards fu sostituita con una
federale che istituì elezioni a suffragio universale garantendo maggiore autonomia per le
tre regioni. All’indomani dell’indipendenza, comunque, la debolezza di un sistema
controllato da una limitata élite istruita fu evidente con lo scoppiare della guerra del
Biafra.
Il ruolo centrale dei britannici nella costruzione di false legittimità ebbe successo
soprattutto in Uganda, che fin dal nome dimostra la volontà dei colonizzatori di porre a
capo di una serie di comunità molto diverse il regno del Buganda, centralizzato e perciò
considerato più moderno. Il kiganda model – il modello amministrativo del Buganda – fu
adottato in tutto il Paese. Questa relazione diseguale non venne limitata dalla blanda
autonomia concessa ai regni di Ankole e Toro: le diverse etnie vennero spesso riunite in
amministrazioni del tutto artificiali. La leadership Buganda fu evidente soprattutto nella
gestione degli introiti derivanti dalle fiorenti coltivazioni di cotone, che negli anni ’20 arrivò
a sottrarre ai contadini i due terzi del prodotto. Il movimento bataka che riuniva i
tradizionali capi-clan terrieri sfidò i latifondisti ottenendo l’appoggio del governo coloniale
che temeva l’abbassamento della produttività. Alla fine degli anni ’30 l’élite nazionalista
buganda si fece interprete di una lotta contro la corruzione e la monopolizzazione del
commercio del cotone da parte degli europei e degli asiatici. Solo nel 1952 questo
movimento condusse alla nascita dell’Uganda National Congress (UNC) slegato
dall’aristocrazia vicina al puramente rappresentativo sovrano buganda, detto Kabaka. A
ciò si contrappose l’Uganda National Movement (UNM) dei latifondisti e dei leader più
tradizionali, che boicottò le elezioni del primo Consiglio legislativo del 1958. Inoltre la
diffidenza tra cattolici e protestanti portò nel 1956 alla nascita del Democratic Party (DP)
cattolico in opposizione al predominio protestante nell’economia e nella società. I cattolici
vinsero nel elezioni nel 1961, ma l’opposizione dei lealisti del Kabaka appoggiati dai
protestanti fece naufragare la leadership del DP e portò a una Costituzione federale
asimmetrica che garantiva al Buganda la sovranità assoluta sul Paese.
Solo nel 1944 un sistema di n.a venne introdotto in Costa d’Oro (Ghana). Il problema qui
riguardava soprattutto la necessità di impedire che lo Stato precoloniale degli Asante
riprendesse il suo antico potere. Deportazioni ed esili garantirono questo risultato per
alcuni decenni finché a partire dal 1935 fu garantita agli Asante la leadership delle n.a. Nel
frattempo si era andata espandendo la fiorente produzione di cacao che fece della terra un
bene prezioso e arricchì molti coltivatori e piantatori locali. Lo Stato coloniale, proprio per
questo, decise di espropriare a proprio vantaggio tutte le terre vacanti. Una forte
opposizione di intellettuali locali a favore del diritto di possesso della terra da parte delle
comunità ebbe esiti molto complessi: l’essere membro di una comunità divenne la ‘conditio
sine qua non’ per l’accesso alle risorse produttive. Perciò si assistette a una continua
ridefinizione dei confini delle comunità, con lotte per il potere spesso violente tra i gruppi.
Nel Tanganyika il sistema delle n.a si introdusse nel 1925. Sotto l’occupazione tedesca
venne riconosciuto alle comunità il diritto di mantenere i propri capi locali, previa
approvazione dell’autorità coloniale e salvo i distretti ribelli che rimasero sotto occupazione
militare. Nonostante l’assenza di autorità indigene identificabili, i britannici applicarono
anche qui l’indirect rule dopo il passaggio delle colonia nelle loro mani. L’arretratezza del
territorio fu contrastata da esperienze associative tra contadini e tra operai, dalle quali
emersero le prime organizzazioni politiche. Nel 1929 si formò il Tanganyika African
Association in opposizione al disegno federativo dei bianchi per un’unione tra
Tanganyka, Kenya e Uganda. Nel 1954 il TAA si trasformò nel TANU (Tanganyika African
National Union) di stampo nazionalista la cui guida fu presto assunta dal giovane
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intellettuale Julius Nyerere, primo presidente dello Stato indipendente nel 1961. Le
difficoltà economiche derivanti dall’arretratezza del periodo coloniale vennero affrontate da
Nyerere con la politica di Ujamaa basata sullo sviluppo dal basso a partire dalle comunità
di villaggio.
Diversa la situazione nell’Africa meridionale. Nella Rhodesia del nord la frammentazione
etnica e tribale permise l’individuazione di due sole comunità conformabili alle n.a.:
1. Lozi godettero di un’amministrazione separata nel Barotseland con a capo il re
tradizionale.
2. Bemba possedevano un sovrano, il Chitimukulu, dai poteri molto ridotti a causa
della forte competizione tra capi locali cosicché l’amministrazione del territorio fu
spesso problematica.
Gli inglesi avevano in Northen Rhodesia un unico interesse: quello dell’acquisizione di
forza lavoro da inviare nelle miniere sudafricane e della Rhodesia del sud. Per facilitare
questo obiettivo la popolazione fu concentrata nei villaggi. Circa il 70% del reddito
autoctono proveniva dal lavoro svolto nelle miniere estere. Nel Nyasaland la situazione
non era dissimile, al punto che da qui proveniva la maggior parte della forza lavoro
dell’Africa australe. L’amministrazione coloniale, attraverso il sistema coercitivo di lavoro
obbligatorio detto localmente thangata, effettuò una completa devastazione del territorio al
punto che già nel 1915 una rivolta, guidata da un reverendo anglicano, aprì il terreno degli
scontri. Nel 1943 le varie associazioni di protesta si riunirono nel Nyasaland African
National Congress (NANC) chiedendo la fine delle n.a. e il diritto alla terra. L’oppressione
coloniale non diminuì e dal 1953 al 1964 il Nyasaland e le Rhodesie vennero fuse nella
Central African Federation che sanciva il completo controllo bianco su quelle terre.
Infine, vanno prese in considerazione le situazioni degli High Commision Territories sotto
protettorato britannico in vista dell’annessione all’Unione Sudafricana:
1. Bechuanaland (Botswana). Qui l’estrema frammentazione del potere tradizionale
portò gli inglesi a favorire il re della principale etnia, quella Ngwato, rispetto ai
principati minori. La sua eccessiva autonomia portò tuttavia prima a una forzata
deposizione imposta dall’alto e poi a un reinsediamento dovuto alle proteste
popolari. Nel 1919 si decise di adottare un sistema che pose i capi locali alle
dipendenze dei magistrati coloniali in qualità di semplici funzionari governativi e
istituì due Consigli, uno tribale e uno europeo a sancire la separazione razziale. La
svolta avvenne allorquando l’erede al trono ngwato, Seretse Khama, ruppe ogni
tradizione sposando una donna inglese: perduta la legittimità di lignaggio, Khama
cercò di conquistarne una nuova rinunciando al trono e proponendosi come leader
nazionalista a capo del Botswana Democratic Party.
2. Basutoland (Lesotho). Questo paese, dove solo un sesto della terra era adatto
all’agricoltura, fu costantemente soggetto all’emigrazione dei lavoratori verso il
Sudafrica. Nel 1910 vi fu istituito un Consiglio nazionale sotto il controllo del re ma
osteggiato dalla classe intellettuale. Nel 1959 il Basutoland Congress Party
ottenne una costituzione che impedì l’annessione al Sudafrica garantendo
l’autonomia del paese, ma gli inglesi e i leader sudafricani si sforzarono fino
all’ultimo momento per mantenervi la monarchia tradizionale e impedire
l’indipendenza che si ebbe nel 1966.
3. Swaziland. Qui l’indirect rule fu adottato molto in profondità: gli affari interni
vennero lasciati in mano alla famiglia reale assistita da un Consiglio tradizionale e
da un’Assemblea generale. Lo sforzo della casa reale fu testo a riappropriarsi delle
risorse agricole, essendo il territorio del paese per due terzi nelle mani di
imprenditori sudafricani. Alla vigilia dell’indipendenza era stato riconquistato metà
del territorio. La casa reale ottenne un’altra vittoria sulle autorità coloniali con una
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Costituzione che garantiva la monarchia e creava un Consiglio interrazziale di 24
membri.
LA DECOLONIZZAZIONE.
L’Africa nel secondo dopoguerra. L’Africa giocò una parte attiva nella Seconda guerra
mondiale, come teatro di guerra in Libia, Egitto, Corno d’Africa, Kenya ecc. e come base di
campi di prigionia soprattutto in Sudafrica. Truppe africane combatterono a fianco degli
Stati colonizzatori e tutto il sistema produttivo africano fu sottoposto a un enorme sforzo
economico per sostenere lo stato metropolitano durante la guerra. Il Congo belga si
schierò con gli Alleati, le colonie portoghesi mantennero la neutralità voluta da Salazar. Il
Sudafrica decise di appoggiare la Gran Bretagna, ottenendone in cambio dal 1948 la
completa indipendenza dal controllo di Londra. Le colonie francesi si trovarono divise tra
quelle controllate dai sostenitori della Repubblica di Vichy – l’AOF e il Madagascar, dove
ogni diritto politico fu soppresso – e sostenitori di Francia Libera – l’AEF e il Camerun,
sull’esempio del governatore del Ciad Felix Eboué. L’ascesa del mondo bipolare fu a
livello internazionale un fattore destabilizzante per il sistema coloniale. USA e URSS erano
fortemente ostili al colonialismo per ragioni diverse.
• L’URSS ideologicamente vedeva nel colonialismo un’espressione dell’imperialismo
capitalista e ne era naturalmente ostile. Più concretamente, mirava a stabilire
rapporti di alleanza con la futura élite indipendentista (in Asia soprattutto, ma
anche in Africa a partire da Egitto, Algeria ecc.).
• Gli USA furono il primo paese al mondo ad aver lottato contro il colonialismo e il
mito della nazione americana si fondava espressamente sulla lotta anticoloniale. Il
capitalismo americano, per prosperare nel secondo dopoguerra, aveva bisogno di
smantellare un sistema coloniale di tipo protezionistico e monopolistico del tutto in
contrasto con i suoi principi del libero mercato.
Le cause della decolonizzazione. Dalla Seconda guerra mondiale scaturiscono le cause
che accenderanno la miccia del decolonialismo:
1. Danneggiamento del già fragile sistema socio-economico prodotto
dall’eccessivo sfruttamento nel corso della guerra.
2. Controsenso di combattere per ideali di libertà e indipendenza che agli africani
erano negati, e dimostrazione che quello dei bianchi non era un fronte compatto ma
presentava spaccature al suo interno.
3. Emergere di élite locali tendenti all’indipendenza. Alle élite si aggiunsero negli
anni ’50 i sindacati.
Dopo la guerra lo sfruttamento produttivo proseguì, per la necessità di ricostruzione dei
Paesi europei: avvenne così una seconda massiccia fase di sfruttamento dopo quella di
fine Ottocento. Vennero alzate le tasse sugli indigeni, aumentò il lavoro forzato, vennero
imposte nuove colture obbligatorie (es. il cotone) su decisione della madrepatria e
s’incrementò l’estrazione di materie prime. L’introduzione dell’indirect rule da parte degli
inglesi fu un tentativo di rispondere alla crescente insofferenza interna, così come le
riforme francesi (“partir pour mieux rester”). Nel 1940 il Colonial Welfare and
Development Act avviò i primi investimenti economici in Africa. Per quanto concerne la
Francia, il piano Monnet vide la costituzione di fondi d’investimento per lo sviluppo. Tutto
ciò ebbe importanti risvolti sul piano politico, dando finalmente voce alle autorità locali
senza l’appoggio delle quali il sistema non può più funzionare. Nel 1944 a Brazzaville, il
generale De Gaulle si pose a favore della decentralizzazione territoriale e di una maggiore
autonomia delle colonie. Il progetto di Union française del 1946 fu un tentativo di porre
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sotto il controllo di Parigi il sistema coloniale, attraverso un’accelerazione del processo di
assimilazione. Nacque poi già dagli anni ’30 e ’40, su incentivi americani, un movimento
pan-africanista che aveva le sue origini in Giamaica e sosteneva il ritorno dei discendenti
africani nel continente (Back to Africa). Il Quinto Congresso Panafricanista del 1945 mise
in discussione la dominazione coloniale, e vide la partecipazione di alcuni dei futuri leader
storici africani: Kenyatta e Nkrumah. Alla Conferenza di Bandung del 1955 nacque il
movimento terzomondista dei Paesi non allineati, 29 in tutto tra Africa e Asia.
La mappa dell’indipendenza. L’anno-chiave è il 1960, proclamato dall’ONU “anno
dell’Africa” grazie alle decine di dichiarazioni d’indipendenza che avvengono. Ci sono
tuttavia numerose eccezioni: l’Africa meridionale – Sudafrica, Namibia – e le colonie
portoghesi dell’Africa australe (Angola, Mozambico). La seconda fase indipendentista
inizia nel 1974-75. Restano esclusi i casi di colonialismo interno dell’Eritrea, incorporata
nell’Etiopia fino al 1993, e del Marocco che rivendica la colonia spagnola del Sahara
occidentale. Il Sudan fu il primo paese indipendente nel 1956, l’anno dopo toccò al Ghana
che fu l’unica colonia francese a votare contro il progetto gollista di unione franco-africana
di quell’anno. Tra il 1960 e il 1961 furono ben 22 gli Stati che dichiararono l’indipendenza.
Nel 1963 venne fondata ad Addis Abeba l’Organizzazione dell’unità africana che si
definì un’organizzazione di Stati sovrani e sancì l’inviolabilità dei confini coloniali, accettati
come tali per non dare adito a spinte separatiste o a dispute nazionali. Ciò creò non pochi
problemi e situazioni paradossali: la nascita di un microstato come il Gambia, ad esempio,
all’interno del territorio del Senegal; l’exclave del Cabinda che, pur essendo territorio
angolano e produttore del 60% del petrolio del paese, è separato dal resto della nazione a
causa del braccio di terra che consente al Congo l’accesso al mare; infine la separazione
di etnie divise dai confini nazionali come gli ewe divisi tra Togo e Ghana.
Decolonizzazione e repressione. La prima ondata di indipendenza si svolse
generalmente in modo pacifico. Non mancarono tuttavia intromissioni anche violente dei
colonizzatori. Nelle colonie francesi si andò dall’eliminazione fisica di leader nazionalisti –
come accadde a Nyobé in Camerun – alla loro emarginazione sia all’interno sia – come
accadde a Touré – sul piano internazionale. Il caso esemplare di intromissione violenta
dello Stato colonizzatore nel processo di decolonizzazione è quello che coinvolse il
congolese Lumumba, primo ministro del nuovo stato indipendente, che osò criticare
pubblicamente la brutalità del dominio belga. Il risultato fu l’assassinio di Lumumba e il
tentativo di secessione del Katanga, entrambi eventi guidati dai potentati economici belgi. I
due casi esemplari della repressione dei tentativi indipendentisti nelle colonie francesi
sono quelli di Madagascar e Camerun.
1. Madagascar. Nel 1947 una rivolta contro la recrudescenza del lavoro forzato
provocò una durissima repressione: oltre 80.000 morti, il movimento democratico
malgascio (DRM) soppresso e i suoi leader giustiziati, incarcerati o esiliati. Le
elezioni del ’56 nell’ambito della loi cadre vennero vinte dal PSD filo-francese di
stampo socialista moderato ma che nascondeva invece la propria natura autoritaria.
Le rivolte del 1971-72 portarono al colpo di stato che non sciolse il nodo della lealtà
alla Francia e nel ’75 un nuovo golpe portò al governo il colonnello Ratsiraka che
proclamò una costituzione unitaria fortemente accentratrice, un partito unico e
un’ondata di nazionalizzazioni.
2. Camerun. Dato in gestione alla Francia nel 1919, poi sotto la tutela ONU nel 1946,
il paese si rivoltò per la prima volta contro i dominatori francesi nel ’45 e nel 1948
nacque l’UPC con l’appoggio di sindacati e delle etnie bamileke (la più numerosa) e
bassa (che avevano usufruito di un discreto livello di secolarizzazione grazie
all’attività missionaria). Tra i bassa scoppiò presto la guerriglia anticoloniale, mentre
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l’UPC e il suo corrispettivo nel Camerun britannico si rivolsero all’ONU per chiedere
la fine della dominazione. A capo del movimento si pose Ruben Um Nyobé,
intellettuale poco propenso alla rivolta armata e favorevole alla soluzione
diplomatica. La reazione fu la messa fuori legge dell’UPC. Nel 1956 le elezioni
locali volute dalla loi cadre si tennero in un clima di lotta armata, biasimata da
Nyobé. La repressione fu durissima, le forze mercenarie al soldo dei francesi
uccideranno Nyobé nel ’58. Il risultato fu che all’indomani dell’indipendenza i
francesi posero alla presidenza Ahmadou Ahidjo che proseguì la collaborazione
con la Francia fino alla sua uscita di scena nel 1982.
LA COSTRUZIONE DEGLI STATI INDIPENDENTI.
Associazionismo e partiti politici nazionalisti. A fianco ai movimenti politici di stampo
nazionalisti, nei Paesi africani c’è una grande azione della società civile che ha avuto un
ruolo fondamentale nel processo di decolonizzazione. Dalla società civile emergono anche
i futuri dirigenti, soprattutto dai sindacati. A livello recente, il fenomeno ha avuto un ruolo-
chiave nel Sudafrica a cavallo tra la fine degli anni ’80 e il 1994: il sindacato nero, i
movimenti studenteschi, femministi, professionali hanno avuto un ruolo decisivo nella
caduta dell’apartheid. L’influenza della società civile è evidente anche nella struttura dei
partiti nazionalisti in Africa, pochi dei quali hanno strutture come quelli occidentali a parte
quelli di stampo comunista e socialista. Non è un caso se nei loro nomi si trova raramente
il termine “party”, che in inglese vuol dire partito ma anche parte di un tutto: le forze
politiche nazionaliste tendono invece a voler rappresentare tutti, perciò guardano con
sospetto alle faziosità politiche e costruiscono grandi partiti di massa con termini quali
“Union”, “Convention”, “Congress”. In realtà, benché quasi tutti siano partiti di massa per
nascita – basandosi sul consenso popolare nella ricerca dell’indipendenza – quasi
nessuno garantisce la partecipazione di massa. Di qui va fatta una distinzione tra:
• Partiti inclusivi di tipo interclassista ed interetnico.
• Partiti esclusivi che non desiderano al loro interno categorie sociali o etniche ben
precise.
Il problema dei partiti inclusivi sta nel fatto che, conquistato il potere, si trovano pur sempre
a dover soddisfare le aspettative divergenti della società civile. In realtà già dai primi anni
Sessanta gli studiosi si resero conto che le istituzioni e i partiti non giocavano un ruolo
concreto nel tessuto politico africano, ma che questo era invece fatto da relazioni extra-
istituzionali: le reti di alleanze tra clan a livello locale, le reti di potere tra il presidente e i
suoi accoliti all’interno del partito, le forze militari.
I problemi della costruzione degli Stati indipendenti. Diverse sono le sfide che i nuovi
gruppi dirigenti devono affrontare nel periodo post-coloniale:
1. Costruzione della nazione (nation-building). Ancora oggi esistono in Africa Stati
senza nazione, cioè privi di coscienza nazionale. Sono Stati artificiali, definiti da
confini artificiali e popolati da culture molto eterogenee. I leader nazionalisti puntano
a superare le peculiari identità tradizionali in favore di una superiore e più
“moderna” identità nazionale. Nascono miti africani, soprattutto quelli intorno agli
eroi della resistenza alla penetrazione coloniale e ai sovrani pre-coloniali. Tranne
che in alcuni paesi (Tanzania, Kenya) la difficoltà maggiore è a livello linguistico,
poiché è impossibile trovare una lingua ufficiale nazionale.
2. Sviluppo socio-economico. Ignorando la necessità di una politica economica di
sviluppo, i leader nazionali ritengono che la semplice rimozione dello sfruttamento
coloniale garantirà lo sviluppo del paese. In un suo libro del 1964, lo studioso
francese René Dumont scriveva che l’Africa era “partita male” e fu presto evidente
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che il sottosviluppo di questi paesi non si sarebbe risolto in breve tempo: gli scambi
commerciali rimanevano infatti sfavorevoli per le economie esportatrici di materie
prime. L’ONU cercò di ovviare al problema chiedendo alle nazioni sviluppate di
rivalutare i prezzi delle materie prime e di destinare l’1% del PIL allo sviluppo. Poco
di ciò fu realmente realizzato.
3. Indipendenza economica. Aspetto legato al precedente, è la consapevolezza che
dopo aver conquistato il “regno della politica” (Nkrumah) sia necessario conquistare
anche le altre sfere ancora in mano ai poteri coloniali, in primi quella dell’economia.
Solo così i paesi neo-indipendenti potranno contare alla pari nello scenario globale.
Mentre diversi paesi scelsero la via socialista, la grande maggioranza si dichiarò
seguace della via liberal-capitalista favorendo gli investimenti stranieri pur
mantenendo ovunque un forte intervento dello Stato nel settore economico.
4. Consolidamento politico dei gruppi al potere. La legittimità dei nuovi leader sta
essenzialmente nell’essere “padri della patria”, fautori dell’indipendenza. Ma, in
seguito alla vittoria, bisogna costruire una nuova legittimità basata sul
soddisfacimento delle attese dell’elettorato.
Africanizzazione e nazionalizzazione. Subito dopo l’indipendenza, l’obiettivo è affidare
alle élite africane l’amministrazione pubblica e le grandi aziende statali. Il personale di
origine coloniale bianca viene sostituito con funzionari locali, soprattutto nella sfera
economica (banche centrali, imprese para-statali ecc.). A ciò si accompagnano processi di
nazionalizzazione che portano nelle mani dello Stato le grandi imprese private
internazionali che controllano le principali risorse economiche. In Tanzania viene subito
nazionalizzata la terra, non più considerata privata. In Kenya invece si fanno poche
nazionalizzazione ma molta africanizzazione, costringendo le imprese multinazionali a far
entrare nei loro consigli di amministrazione una certa percentuale di locali. In Ghana,
Nigeria e Sierra Leone al momento dell’indipendenza – grazie alle riforme britanniche –
oltre il 50% dell’amministrazione pubblica era occupata da africani. Nelle colonie francesi i
burocrati francesi possedevano grande esperienza ma rimanevano pochi. In tutti i casi,
comunque, restavano limitate le capacità tecniche di questa nuova élite a causa di una
desolante mancanza di istruzione e di conoscenze dei processi democratici. Dal termine
africanize si affermò negli anni ’70 quello di nizers, cioè gli “africanizzati”. In maniera più
spregiativa, in swahili questi individui sono chiamati anche wabenzi, “coloro che
possiedono una Mercedes Benz” (segno del prestigio sociale). Le élite dei primi anni
d’indipendenza lottarono contro la frammentazione etnica e si creò presto una spaccatura
tra due correnti:
• Modernisti: strati della popolazione che avevano avuto accesso all’istruzione, molti
dei quali all’estero. Portatori di modelli occidentali, nemici degli elementi
“premoderni” delle società africane, costituiscono la leadership dei nuovi partiti
nazionali.
• Tradizionalisti: strati rurali e leader locali (consigli degli anziani, capi-villaggio)
intenzionati a mantenere le identità “tribali”.
La divisione è soprattutto tra chi gode di privilegi ereditari – tradizionalisti – e chi gode dei
privilegi acquisti dall’istruzione – modernisti.
Il problema della stabilità. La fragilità degli Stati nazione africani deriva proprio dalla loro
nascita artificiale. Non è un caso se non ci siano nella storia post-indipendenza pochissimi
tentativi secessionisti. L’unico riuscito è quello dell’Eritrea, mentre altri due (Katanga e
Biafra) sono falliti. Ciò avviene perché si “sacralizzano” i confini coloniali decidendo di non
metterli in discussione in seguito all’indipendenza, le colonie si trasformano in Stati così
come sono. Il problema non sta però tanto nei confini, quanto nella questione del rapporto
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tra potere e cittadini. Fin dall’indipendenza il problema è stato il potere centrale. In Niger
e Nigeria le popolazioni Hausa non lottano per l’indipendenza ma per maggiore autonomia
dal rispettivo potere centrale. L’unico Stato conosciuto fino all’indipendenza in Africa era lo
stato coloniale, per sue necessità fortemente accentratore. L’Occidente ha esportato in
Africa uno Stato moderno nelle forme ma anti-moderno nella sostanza in quanto privo di
democrazia. Lo Stato indipendente che ne nasce è anch’esso uno Stato privo di forme
democratiche e fortemente accentratore. Ciò ha condotto a due casi particolari:
1. Sistemi a partito unico: rimozione dei particolarismi locali in favore di un solo
partito di cui il governo è espressione. Identificazione Stato-partito.
2. Governi militari: durante i golpe, bastava occupare i centri nevralgici della capitale
per controllate l’intero Paese.
Tutti i Paesi africani prima del 1989 sono stati retti da questi due modelli di tipo autoritario.
Come hanno sottolineato numerosi studiosi, al momento dell’indipendenza i nuovi Stati
moderni nascondono dietro di loro i valori dell’eredità precoloniale fatta di
personalizzazione del potere politico, ruolo crescente dei legami clanici, valore delle
identità tribali ecc. Si è parlato perciò di Stato asimmetrico, laddove il potere centrale
tenta di modernizzarsi seguendo la falsa riga del sistema di dominazione coloniale, mentre
deve affrontare una situazione interna definita “pre-moderna” che è quella fatta di reti di
poteri tradizionali su cui l’autorità centrale deve infine basarsi per ottenere legittimità.
IL PARTITO UNICO.
La Guinea fu la prima ad adottare, sotto Sekou Touré, un sistema politico a partito unico.
Nel periodo 1957-1975 (prima decolonizzazione) in 21 Paesi indipendenti dell’Africa
subsahariana su 26 sono presenti partiti unici. Di questi abbiamo:
• 6 casi per vittoria elettorale. L’esito delle elezioni permette a un partito la
maggioranza assoluta che di fatto esclude ogni altro tipo di alternativa.
• 3 casi per unificazione di altri partiti. Partiti diversi decidono di unificarsi prima o
dopo le elezioni.
• 12 casi per coercizione. Si impedisce costituzionalmente o di fatto agli altri partiti di
competere nelle elezioni.
Partiti unici per unificazione. Il caso classico è quello della Somalia, che mantiene un
regime multipartitico fino al 1969 quando un colpo di Stato militare instaura un partito
unico socialista. La precedente, estrema frammentazione – circa 180 partiti, di cui la Lega
dei Giovani Socialisti (LGS) era l’unico dominante in quanto aveva gestito il processo di
indipendenza – la stragrande maggioranza dei partiti faceva riferimento a clan e sottoclan
che andavano da poche centinaia a più di un milione di persone. La frammentazione era
favorita dal sistema elettorale in quanto la LGS prendeva la maggioranza assoluta (poco
più del 50%) mentre tutti gli altri si limitavano a prendere l’1-2% al massimo sedendo così
in Parlamento con un paio di seggi al massimo. Una volta entrati in Parlamento, però,
questi partitini entravano nel gruppo parlamentare della LGS lasciando pochissimi seggi
all’opposizione. In cambio dell’entrata nella LGS, i partitini ottenevano favori per il proprio
elettorato d’appartenenza, in un vero e proprio sistema di “voto di scambio” post-elettorale.
Partiti unici per coercizione. In questi casi solitamente una forza militare emana una
costituzione o una legge elettorale che impone – ufficialmente o meno – un partito unico. I
regimi militari creano partiti unici del tutto nuovi e calati dall’alto, privi di legami con i
precedenti. Questi partiti hanno caratteristiche diverse: in Somalia, Etiopia, Benin,
Zimbabwe ci sono p.u. socialisti, in Rwanda, Burundi e in altri ci sono p.u. nazional-
conservatori. C’è poca differenza per quanto riguarda invece i p.u. militari e quelli civili:
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solitamente dopo la presa del potere i p.u. militari si istituzionalizzano e diventano civili. Le
differenze restano solo nelle basi regionali, etniche e religiose dell’elettorato mentre a
livello strutturale il funzionamento resta lo stesso, anche riguardo alle loro capacità
repressive. Nell’ambito dei regimi autoritari a partito unico, può essere fatta una distinzione
tra 1. Partiti unici semicompetitivi: sistemi in cui è permessa una certa scelta tra i
candidati.
2. Partiti unici plebiscitari: in cui l’unica tipo di partecipazione elettorale consiste
nella ratifica plebiscitaria delle candidature uniche avanzate dal partito.
Ideologia del partito unico. L’adesione popolare al p.u., al di là della coercizione, è
ovunque molto forte perché il partito viene legittimato da un’ideologia molto convincente.
La giustificazione fondamentale è il discorso sull’unità nazionale, che va difesa dopo la
conquista dell’indipendenza. Nono sono consentite divisioni etniche, tribali, regionali o di
classe in quanto espressione di tribalismo e anti-modernità. Il p.u. non nasce per
contrastare la democrazia ma viene presentato come un’espressione peculiare della
democrazia, anzi la sua massima espressione in chiave africana. I p.u. sono basati su
un’ideologia rivolta al contempo verso il passato e verso il futuro:
• Sono rivolti al passato perché rivalutano la specificità nazionale in funzione anti-
coloniale, recuperando la storia pre-coloniale e sostenendo che le società pre-
coloniali era già democratiche in quanto egalitarie, prive di gerarchie interne, dove
tutte le persone erano poste sullo stesso livello. Tutto si fonda sul principio del
consenso: le decisioni verrebbero prese in modo che tutti coloro che partecipano
alle decisioni discutono finché non si mettono d’accordo. Quest’immagine delle
decisioni prese dalla comunità riunita sotto l’albero al centro del villaggio viene
ripresa per giustificare il p.u. contemporaneo che agisce per consenso e per
giustificare il modello comunitario dove la comunità prevale sull’individuo. Inutile
dire che tutto ciò resta una costruzione mitica e romantica, in quanto lungi
dall’essere egalitarie le società pre-coloniali non garantivano alle donne e ai giovani
nessun diritto di decisione.
• Sono rivolti al futuro in quanto le parole d’ordine sono progresso, sviluppo, tenesse
della nazione anche a discapito di gruppi ristretti (perciò il p.u. rappresenta l’intera
società nazionale). Il leader del p.u. si pone verso la nazione come un padre
benevolo che sa cosa è bene e cosa è male per il suo popolo e lo guida verso un
destino favorevole.
LE FEDERAZIONI ASIMMETRICHE.
All’indomani dell’indipendenza, solo tre Stati decisero di costituirsi in federazioni. Quella
tra Senegal e Mali non durò che un paio di mesi. Quella dell’Uganda resistette anch’essa
poco ma fu più rilevante. L’unica ancora rimasta oggi è quella della Nigeria, i cui stati
federali sono passati dai 3 dell’indipendenza a 30.
Il caso dell’Uganda. L’area dell’odierno Uganda comprende circa una cinquentina di
gruppi etnici. Lo statuto federale adottato con l’indipendenza durò poco: nel 1966 un colpo
di stato lo revocò, eliminando ogni autonomia regionale e costringendo il kabaka del
Buganda all’esilio. Il potere di Milton Obote fu rovesciato nel 1971 dal suo generale, Idi
Amin Dada, che mise su uno spietato sistema di violenza e repressione tale da gettare
l’Uganda nel disastro. Egli cercò vagamente di superare le differenze etniche del paese
attraverso l’appello a un più ampio senso di appartenenza all’identità nubiana. Nel 1972
Amin confiscò le proprietà degli imprenditori asiatici costringendoli a lasciare il paese. Solo
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nel 1979 Amin fu defenestrato grazie all’intervento – col silenzio beneplacito occidentale –
della Tanzania in appoggio all’esercito di liberazione nazionale ugandese (UNLA). I
governi successivi si barcamenarono in una situazione difficilissima in quanto l’estrema
differenza etnica provocò scontri sanguinosi. Il National Resistance Movement di
Museveni si appoggiava alle popolazioni meridionali banyarwanda e baganda, il governo
militare che prese il potere nel 1985 si appoggiava invece sulle etnie più povere del nord. Il
NRM conquistò Kampala l’anno successivo garantendo a Museveni la presidenza. La
soluzione che si adottò fu un sistema di governi locali a livelli di villaggio, parrocchia, sub-
contea, contea e distretto. Nel 1993 uno statuto di decentralizzazione rafforzò i poteri
locali. Nel tentativo di eliminare ogni traccia di faziosità di tipo identitario, Museveni creò
un sistema detto di “democrazia senza partiti”. L’idea è che l’Africa subsahariana fosse
inadeguata all’applicazione di sistemi multipartitici e che la democrazia elettorale dovesse
basarsi sulla competizione di soli individui. Questo modello ha dato risultati positivi, anche
se nel 2006 si sono tenute regolari elezioni multipartitiche che hanno messo da parte
l’esperimento.
Il caso della Nigeria. La Nigeria è divisa in più di 250 etnie. La prima federazione
nigeriana era profondamente asimmetrica in quanto vi prevaleva il nord islamico, che era
la regione più povera e arretrata. L’etnia ibo più modernista ma soprattutto sindacati,
funzionari, professionisti, studenti si unirono per rovesciare il governo nel 1966 con
l’appoggio dei militari. Il governo del generale Ironsi durò poco, giusto il tempo di abolire la
federazione e proclamare lo stato unitario. Il suo assassinio produrre una spirale di
violenze etniche che si conclusero con l’ascesa del generale Gowon, postosi come
mediatore tra le parti. La nuova federazione passò da 3 a 12 stati ma indebolì fortemente il
potere degli Ibo in quanto creava due stati costieri così da sottrarre loro il controllo
petrolifero. Nel marzo 1967 la risposta fu il tentativo di secessione del Biafra che
produsse una guerra protrattasi fino al 1970. Più che una guerra etnica o “tribale”, quella
del Biafra è un conflitto tra opposte concezioni dello Stato, una modernista e una
tradizionalista. Con la fine della guerra, il censimento del 1973 provocò un nuovo
problema in quanto, con metodi assai dubbi, fu conclamato il raddoppio della popolazione
nel nord e la diminuzione di quelle del sud osa che ha portato fino ad oggi il nord a
pretendere un peso maggiore nel parlamento federale. Con l’assassinio di Gowon si creò
una fase di instabilità e di governi militari che produssero una nuova costituzione. La
Seconda Repubblica (1979-1982) di tipo civile potenziò l’economia grazie alle esportazioni
petrolifere, ma la crisi economica produsse un nuovo colpo di stato nel 1983 e un
successivo nel 1985. Il regime del generale Babangida dovette affrontare disordini nello
Stato di Kaduna tra musulmani e cristiani e la crisi economica dilagante. Nelle elezioni del
1989 furono ammessi a competere due soli partiti: il Social Democratic Party (SDP) e il
National Republican Convention, rispettivamente di centro-sinistra e centro-destra. Il
bipartitismo non ha messo però fine alle continue lotte tra fazioni, di nuovo messe sotto
l’autoritario controllo militare del dispotico generale Abacha fino al 1998. L’anno
successivo è salito al potere un nuovo governo democratico che sta tentando di
traghettare il paese verso la normalità.
I SOCIALISMI AFRICANI.
Diversi Paesi si dichiararono socialisti all’indomani dell’indipndenza: la Guinea di Touré, il
Ghana di Nkrumah, il Mali di Keita, la Tanzania di Nyerere. Seguirono poi dal 1968 il
Congo di Ngouabi, dal 1969 la Somalia di Barre, poi l’Etiopia di Menghistu e diversi altri. In
Zimbabwe il leader Robert Mugabe si ispirò al socialismo durante la lotta di liberazione ma
il suo partito, lo ZANU, ha sempre sostenuto un forte liberalismo economico. Il Senegal di
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DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Storia e Istituzioni dell'Africa Subsahariana, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Il Leone e il Cacciatore, Gentili. Particolare attenzione ai seguenti argomenti trattati: la mappa dell'occupazione coloniale, Africa Occidentale Francese (AOF), Africa Equatoriale Francese (AEF), le colonie inglesi, le colonie italiane.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Moses di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia e istituzioni dell'Africa subsahariana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Bologna - Unibo o del prof Gentili Anna Maria.
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