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3. DAL CANONE TRAGICO ALL’ONTOLOGIA DELLA “MIMESIS”
Il canone tragico
La rapida evoluzione del genere tragico accompagnò l’ascesa, la potenza e il declino della polis.
(pag. 69). Il giorno in cui viene spezzato il legame che la unisce alla città, la tragedia greca. La
produzione tragica di certo continuò ma dei poeti tragici posteriori a Euripide non restano che pochi
frammenti, mentre fin dall’inizio del IV secolo il programma degli spettacoli drammatici
incominciò a prevedere, insieme agli di nuova composizione, anche la riproposizione della tragedia
antica (così si formò il repertorio dei tre grandi tragici; inoltre nella seconda metà del quarto secolo
fu ricostruito in pietra teatro di Dioniso e venne ornato con statue di Eschilo Sofocle ed Euripide).
La scelta del canone delle 32 tragedie avviene relativamente presto, e si consolida nell’epoca di
Adriano. Nella forma di nota si fa risalire al dotto alessandrino Alessandro Etolo, motivato
dall’intento filologico di porre un limite alla libertà interpretativa degli attori.
Quali sono le ragioni profonde della canonizzazione del tragico antico?
Da Eschilo, Sofocle, Euripide la tragedia greca si è profondamente trasformata e rinnovata; è
cambiata la visione del mondo, le idee, gli strumenti letterari, ma la forma letteraria è rimasta la
stessa. Permanenza a far sì che ogni teatro che si rifaccia alla stessa ispirazione sia definito tragico.
Il capro che ha dato il suo nome alla tragedia finisce per invadere in modo inatteso il vocabolario
moderno dell’emozione.
Il tragico greco ha una caratteristica peculiare : la sua azione mimetica appare come fuori dal
tempo perché i suoi autori hanno saputo tradurre una riflessione sull’uomo nel linguaggio
immediato dell’emozione e manifestarla poeticamente nella sua forma originaria. In poco
tempo quindi i poeti tragici greci seppero strappare al presente il suo segreto eterno circa i
limiti e la dolorosità della condizione umana, ovvero circa la misteriosa compresenza di
libertà umana e volere divino.
La De Romilly sostiene che i greci hanno commesso violenze, ma hanno condannato queste
violenze con più forza di chiunque altro; tanto che la cultura greca si potrebbe definire come una
ricerca appassionata di tutto ciò che può mettere fine alla violenza considerata come bestiale e
indegno dell’uomo. Si tratta di una profonda tendenza che si potrebbe storicamente manifestare in
due tempi successivi: la scoperta della giustizia e la scoperta della dolcezza. Questa tendenza è
espressa nelle parole di Isocrate: “il nome dei greci non sembri essere il nome della stirpe, ma della
cultura, e che siano chiamati piuttosto greci quelli che hanno in comune con noi lo sviluppo dello
spirito anziché la stessa natura”. Questo processo è caratteristico soprattutto della cultura della polis
ateniese (Tucidide fa dire a Pericle: “se Atene dovesse perdere la sua potenza, il ricordo ne verrà
serbato eternamente e comunicherà a tutti la bellezza di ciò che ha realizzato”). 20
Nella condanna esplicita della tirannia bisogna rinvenire il contenuto principale di molte
composizioni rappresentate negli agoni tragici, ma anche qui la De Romilly invita alla cautela
dicendo che nascita della tragedia ha un legame evidente con l’esistenza della tirannide tanto che
Pisistrato è in un certo senso quello stesso Dioniso di cui sviluppa il culto. Resta fermo che con la
tragedia si ha la condanna esplicita di qualsiasi regime politico che permetta a un uomo di esercitare
la violenza sugli altri.
Canfora invita a diffidare dell’ideologia che può nascondersi dietro a un senso sconsiderato e
antistorico della nozione di democrazia, ma stare in guardia dagli appelli troppo azzardati alla
Grecia classica come modello attendibile di un ideale politico inteso anacronisticamente. È
necessario comprendere la relazione fra la cultura storico letteraria e la faticosa genesi di un ideale
di umanità che la De Romilly vede nascere in stretta connessione con le tematiche del teatro tragico.
Mondo di Eschilo: siamo nel periodo delle guerre persiane, è un mondo di paura, mistero e
sopraffazione. Di qui la protesta del poeta e insieme la sua condanna dell’unilateralità della
violenza: se Zeus non sempre si mostra equo spesso nemmeno è esente da ingiustizia. Nel Prometeo
incatenato si mostra come la violenza sia caratteristica peculiare di un potere non ancora stabile e
di un comando non ancora saggiamente esercitato. Solo dopo aver avuto la meglio con la forza,
Zeus potrà diventare arbitro più equo e candidarsi a esercitare davvero la giustizia. Queste
considerazioni si possano estendere anche al personaggio di tre onte dell’Antigone di Sofocle; ma
un salto decisivo si ha quando nelle Supplici di Euripide alla domanda “chi è qui il tiranno?” Teseo
ribatte contrapponendo al modello tirannico l’eguaglianza la libertà assicurate a tutti dalle leggi
scritte. (pag. 73).
Questo è un cammino di pensiero che condurre alle ragioni della morte di Socrate, di colui che
avrebbe portato la filosofia dal cielo alla terra, dallo studio della natura all’indagine antropologica.
In questo passaggio si registra il paradosso dell’importanza e della delicatezza del nomos che trae la
propria efficacia civile e la propria forza morale dal consenso non fiondandosi né sulla natura, né
sulla rivelazione. Ciò non significa che anche le leggi morali non scritte non abbiano un ruolo nella
lotta morale contro la violenza (vedi Antigone).
Orestea di Eschilo messa in scena di un tribunale capace di porre fine alla serie altrimenti infinita
di vendette e uccisioni. Nel progresso della trilogia la giustizia divina è prima temuta, poi auspicata
e infine corretta e umanizzata.
Sarà Euripide a presentare sulla scena divinità intente a trattenere il braccio armato e violento dei
personaggi della tragedia e a scegliere di affiancare alla descrizione di violenze considerazioni che
inducono alla pietà per gli effetti delle violenze stesse (Elena- assurdità della guerra raccontata
attraverso una fantasia).
Peculiarità tragedia V secolo: non mostrare la morte in scena (delimitazione dell’osceno).
NB Il senso di perdono e di riconciliazione è strettamente limitato al mondo degli uomini
Uno dei caratteri più originali del pensiero tragico greco sta nell’aver fatto della debolezza stessa
dell’uomo la fonte che costituisce moralmente la sua grandezza. Qui potrebbe anticiparsi anche la
definizione della pietà offerta dalla Retorica di Aristotele che fonda la condizione dell’eleos sulla
possibilità di quella comunanza nel sentire alla base di ogni agire solidaristico. 21
Da queste considerazioni, il contributo offerto dalla letteratura tragica nell’evoluzione delle
idee morali in Occidente sta nel fatto che gli autori hanno potuto prestare tratti di bellezza anche a
personaggi moralmente condannabili, il che non implica la loro approvazione, perché la parola, e
più in generale la scena, spalanca lo spazio per lo sguardo pietoso di un tertium esente da
unilateralità. Quel ruolo nella tragedia spetta al coro che fa emergere il giudizio attraverso contesto,
commento e storia.
Platone e “l’antica discordia”
La tragedia è stata un fenomeno breve destinata poi a lasciare spazio alla commedia. Questa
prossimità suggerisce di pensare tragico e comico nella loro unità. Cratino ha coniato il termine
euridaristophanizein = fare alla maniera di Euripide e Aristofane; si dimostra con ciò la continuità
tra l’ultimo grande tragediografo e il primo grande commediografo.
Euripide ad alcuni potrebbe risultare il più tragico dei poeti quando dalla sua poesia non sembra
trasparire altro se non la domanda: come può un dio essere crudele? In lui si può dunque vedere un
tratto di modernità: c’è più differenza tra Euripide e Eschilo che tra Euripide e Racine!. Le
contraddizione in cui versa il razionalismo di Euripide fanno tutt’uno con le motivazioni della
diffidenza tra tragico e filosofia che ha caratterizzato l’atteggiamento del logos nei confronti di una
poesia destinata a mettere in crisi ogni razionalismo.
Agli occhi del pensiero astratto, la tragedia si rivela insieme gioco dell’illusione ed epifania
di una verità insostenibile, ovvero la costitutiva ambiguità del suo rapporto con il logos.
(Plutarco dice che Solone, uno dei 7 sapienti, aveva intuito la gravità della posta in gioco
accusando Tespi di dire volgari bugie attraverso le sue rappresentazioni).
Ma davvero la poesia tragica è fatta di volgari bugie? O sarà capace attraverso l’ipocrisia
istrionica a far balenare una verità più profonda intorno al reale, al suo darsi contradditorio e
irrazionale?
Nell’interrogarsi su questo si può ricercare il senso della condanna dell’arte contenuta nel X libro
della Repubblica di Platone, in cui si parla di disaccordo antico tra filosofia e arte poetica- Come il
sofista, anche il poeta si può macchiare della colpa di voler fare ogni cosa riducendo così la verità
ad apparenza, privando il vero di universalità. La poesia si avvale inoltre dei mezzi più bassi di
sollecitazione edonistica. Al pari della retorica, la musica, la poesia e la tragedia non sono per
Socrate altro che Kolakeia (=lusinga, adulazione). Per questo, secondo Diogene Laerzio, Platone si
sarebbe allontanato dalla poesia per la filosofia, inveendo contro il ditirambo e la tragedia. Platone
avrebbe infatti preteso di escludere il tragico dalla polis e dalla formazione educativa del cittadino
perché il tragico potrebbe condurre all’esibizione incontrollata delle contraddizioni irrisolte della
realtà, dell’essere, della vita individuale e associata; e potrebbe indurre il cittadino a smarrire la
padronanza di sé, lasciando che l’appetito e le passioni abbiano la meglio su quella parte
dell’anima, razionale, cui spetta invece un ruolo egemonico.
Havelock ha mostrato come nei voti di Platone la poesia non potesse più proporsi come guida
educativa per il popolo greco perché l’intento platonico consisteva nella messa a nudo dei limiti
regressivi di una cultura orale fondata sull’esclusivo esercizio della memoria (FedroPlatone
rivendica la centralità della poesia per la grandezza culturale del popolo greco anche nel suo aspetto
più irrazionale; Ione Platone giovane prende in considerazione filosofia l’entusiasmo del poeta
22
capace di elevarsi alla parola divina e esprimerla nella voce). Solo nel Platone maturo ci sarà la
distinzione tra aletheia e doxa nonché fra verit&agrav