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L'instaurazione di rapporti con la Chiesa, di tipo concordatario, aveva del resto già
portato, nel 1929, ad un nuovo regime del diritto matrimoniale, attraverso l'abbandono
di un sistema che al solo matrimonio civile attribuiva la funzione di costituire lo stato
di coniugi di fronte alla legge. Il matrimonio canonico trascritto era divenuto da allora
la "forma" generalmente usata dai cittadini italiani; e su quei matrimoni la Chiesa
esercitava, così come esercita tuttora, la propria giurisdizione in ordine alla validità
del vincolo. Nel codice civile rimaneva la disciplina del matrimonio civile. La
tradizione di una parte del pensiero cattolico sembrò concordare con l'ispirazione
dominante della legislazione fascista nel campo del diritto familiare. Sembrò persino
giunto il momento di staccare il diritto di famiglia, tradizionalmente il più privato, da
quest'ultimo, per trasportarlo nel campo del diritto pubblico, come materia che non
lasciava ai privati nemmeno un margine esiguo per esplicare la loro autonomia ed era
tutta dominata dalla considerazione d'interessi superiori. Infine, per avere un'idea dello
spirito di compromesso che dominò particolari materie, si pensi alla conservazione
con linee immutate di un istituto tipicamente classista qual era, ed è, l'adozione di
persone maggiorenni destinata a perpetuare il nome familiare e a conservare il
patrimonio con il minor onere fiscale e, dall'altro lato, all'introduzione di un istituto
nuovo quale l'affiliazione, con finalità puramente assistenziali e svincolato dai
presupposti dell'antica figura dell'adozione.
Fuori del campo dei rapporti familiari, e cioè nella disciplina dei rapporti patrimoniali,
il codice del '42 sembrò allontanarsi dalla tradizione dei codici liberali per il fatto di
aver posto al centro della propria disciplina non più la proprietà ma invece l'attività
economica produttiva. A dare un'idea del diverso modo in cui si pongono, rispetto alle
stesse materie, vecchio e nuovo legislatore basterà riflettere che nel codice previgente
il contratto era contemplato come uno dei modi per acquistare e trasmettere la
proprietà; nel nuovo codice è considerato su un piano più generale, come fonte di
obbligazione e destinato a costituire, modificare o sciogliere un rapporto patrimoniale;
e del contratto diretto a trasferire la proprietà o altro diritto reale si occupa solamente
una norma e solamente per attribuire al consenso, manifestato alle parti, efficacia
traslativa della proprietà o del diritto. In realtà, piuttosto che attorno al lavoro, la
disciplina veniva ordinata attorno al tema dell'impresa; e al libro V del codice si finì
per dare il titolo "del lavoro", invece del titolo "dell'impresa" per ragioni di evidente
demagogia. La nuova prospettiva rispondeva al grado di sviluppo della società
capitalistica, passata da un'economia prevalentemente agraria e con la partecipazione
di una classe soltanto al processo produttivo ad una prima fase d'industrializzazione e
di più largo intervento delle classi nelle attività produttive.
Anche l'unificazione del diritto privato in un solo codice, unificazione che pure fu
vista, da taluno, sotto il profilo della riforma "politica", e dopo il 1945 da giuristi
autorevoli fu censurata come il segno ulteriore della demagogia e della violenza
contro la tradizione, anche questo processo di riduzione ad un solo codice di diritto
privato rispondeva, in definitiva, all'utilità e alle convinzioni della società e
dell'economia capitalistica. L'accusa di un vizio di origine, anche stavolta politica, non
fu risparmiata nemmeno ad un altro aspetto della riforma del '42, vale a dire al regime
legislativo del contratto. La pandettistica aveva costruito una nozione, quella del
negozio giuridico, entrata nel linguaggio comune della dottrina e della pratica, e aveva
definito il negozio giuridico in termini di libertà e di volontà. Aveva altresì indicato e
approfondito, come problema centrale della disciplina legislativa e dei contributi
dottrinali, il tema del rapporto tra la volontà e la dichiarazione, tra il contenuto e la
forma degli atti privati. Il codice vigente, rifiutando il nome e il regolamento del
"negozio giuridico" come categoria generale, e rifiutando altresì di dettare una "parte
generale" della materia dei rapporti privati, piegava la disciplina del contratto ad una
considerazione, in termini di prevalente dignità di tutela, degli interessi del
destinatario della dichiarazione, proteggendosi l'affidamento di lui nel significato
obiettivo della dichiarazione e nella corrispondenza di quest'ultima volontà del
dichiarante, e all'autore della dichiarazione accollando il rischio dell'affidamento
suscitato, senza colpa, nell'altro contraente.
Il giudizio investe, quindi, non tanto la presa di posizione del regime politica fascista
di fronte alla materia dei rapporti economici privati, quanto l'atteggiamento dello Stato
moderno e gli interventi di questo nell'economia. Le rivoluzioni liberali, e le
codificazioni che ne erano scaturite avevano creduto di assicurare la libertà col tenere
lo Stato estraneo al gioco delle forze economiche e riservando all'individuo la
responsabilità e il rischio dell'iniziativa.
Il breve discorso che si è cercato di introdurre, sui rapporti tra il codice civile e
l'ideologia fascista, si è fermato a considerare aspetti strettamente connessi con i
motivi ispiratori di quel regime. Di altri profili del codice civile si è messo in luce,
almeno incidentalmente, come essi siano legati all'arretratezza di taluni settori della
vita sociale e alla singolarità dell'atteggiamento del nostro legislatore di fronte al fatto
religioso. Qui ci si limita, piuttosto, a impostare un altro problema: che è di vedere se
il codice civile vigente, anche a ritenerlo esente da contaminazioni dell'ideologia
fascista sia pienamente compatibile con i principi ai quali si ispira l'attuale sistema, e
che son tracciati dalla Costituzione in tema di rapporti civili, economici ed etico-
sociali. Può essere utile, per questo confronto tra le linee direttive de codice e le
formule della Costituzione, la lettura del disegno di legge (n. 577/c) presentato il 10
ottobre 1963, di delega legislativa al governo della Repubblica per la riforma dei
codici. Le materie del codice che, nella proposta di riforma, sembrano le meno
bisognevoli di modifiche o di adeguamento sono il diritto successorio, la disciplina
ella proprietà e degli altri diritti reali, e infine il diritto delle obbligazioni. Per
quest'ultimo la relazione registra come "prevalente orientamento degli studiosi" la
convinzione "che le linee strutturali e sistematiche attraverso cui si articola il libro IV
del codice civile conservano ancora oggi piena validità"; l'opera di riforma sembra
perciò destinata al semplice "ammodernamento degli strumenti tecnici predisposti".
Quanto alla proprietà e alle successioni a causa di morte sono ancora più nette le
affermazioni contrarie alla necessità di radicali riforme. Più lungo discorso hanno
meritato i restanti libri, il I e il V, del codice che sono soggetti a continui
aggiornamenti.
- Il codice civile italiano: inventario di un mezzo secolo (1992)
Alla "Nuova Antologia" proprio in quel lontano 1942 un giurista, Filippo Vassalli,
affidava un discorso che più tardi avrebbe riproposto in una rivista specialistica,
accresciuto da considerazioni più tecniche. Prima di quello scritto la "Nuova
Antologia" aveva ospitato, nella fase della lunga vigilia dedicata alla preparazione del
codice, un saggio parimenti significativo. Ne era autore Mariano d'Amelio. In primo
luogo si era compiuta, dai nostri giuristi di vecchia scuola, la difesa del codice come
della "forma" più adeguata, sul piano storico e positivo, per un regolamento
sistematico dei rapporti privati. Sul punto, osservava d'Amelio, vi erano opposizioni di
duplice segno: la più moderata, "di destra", invitava a ritardare il ritmo dell'opera "per
lasciare il tempo alla dottrina fascista di evolversi e di affermarsi", dall'estrema
sinistra si sosteneva che "i codici non solo non debbono rinnovarsi, ma debbono
sparire, per dar luogo ad una breve e chiara ed elastica serie di norme, tipo Carta del
lavoro, dalla quale i giudici ed amministratori trarrebbero ispirazione e guida nel loro
ufficio". La prospettiva di una così radicale posizione, agli occhi dell'onesto giurista di
allora, non era il diritto libero o la restaurazione del diritto comune; era un diritto
politicamente "controllato". "Non vi possono, scriveva d'Amelio, essere leggi o
prefazioni di leggi, e norme di applicazione di leggi che non emanino dallo Stato.
Cade, pertanto quella allucinante organizzazione superstatale, per la quale si è ritenuto
che il diritto, e quindi i codici debbono essere espressione, non dello Stato ma della
Comunità, che ama manifestare la sua volontà legislativa, in forma più sobria e meno
precisa, salvo al giudice, membro della stessa Comunità, di compiere l'opera del
legislatore, concretandola nel momento stesso che l'applica alla fattispecie". Il
proposito di sostituire alla certezza del diritto le discrezionali valutazioni della
"comunità del popolo" appariva "allucinante", mentre la pretesa meno eversiva di
sostituire ai codici documenti come la Carta del lavoro veniva liquidata, con mitigata
violenza verbale ma con pari disprezzo, come frutto di candida ingenuità ed
inesperienza". Il Vassalli dell'ultimo dopoguerra è portato a ridimensionare la "forma"
codice, con un'attitudine certamente influenzata dalla riscoperta del diritto inglese a
cui si era da poco accostato come un visitatore mosso da curiosità e subito riempito di
ammirazione: "chi scrive vorrebbe limitato l'ufficio del codice a strumento di
cognizione e di organizzazione della materia e riafferma la sua decisiva preferenza per
il diritto sciolto dai limiti dei codici". La dolente diagnosi dell'ultimo dopoguerra
induceva e riconoscere i limiti delle codificazioni civili, strettamente connesse con la
formazione dello Stato centralizzato e con il principio della statualità del diritto. "I
difetti dell'opera", osservava Vassali, "sono incompatibilmente inferiori a quelli che è
dato riscontrare in ogni altro settore dell'attività dei pubblici poteri"; l'indole ermetica
della legislazione civile impedisce, tolto f