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Il secolo cinese
Siamo stati per anni abituati a pensare alla Cina come ad un paese tecnologicamente arretrato, che poteva competere con i paesi industrializzati solo ed esclusivamente sul costo del lavoro.
Abbiamo visto i cinesi solo come la manodopera a buon mercato del resto del mondo. In parte tutto questo è anche vero, ma non dobbiamo dimenticare che la Cina, intorno al 1400 era una delle civiltà più avanzate del mondo.
- Le invenzioni principali si erano già sviluppate da secoli. Nel 200 a.C. c'erano già gli altiforni per la fusione del ferro, nel settore tessile esisteva una tradizione antichissima di sofisticati attrezzi di tessitura, le giunche cinesi erano le navi più avanzate del mondo ed avevano permesso loro le traversate oceaniche molto prima che i vascelli europei, in medicina l'agopuntura produceva risultati straordinari e pare che la carta e la stampa siano anch'esse invenzioni cinesi.
La Cina del 14° secolo arrivò ad un passo dall'industrializzazione.
Questo passo però non fu compiuto ed anzi, proprio nel momento in cui per l'Europa iniziava l'era delle scoperte e della rivoluzione industriale, la Cina ebbe una clamorosa battuta d'arresto sul piano tecnologico.
Le spiegazioni, ovviamente, non sono certi di natura culturale, cioè dovute alla natura del popolo cinese, ma si possono rintracciare invece nel fatto che la civiltà cinese fosse dominata dalla dinamica dello Stato.
Lo sviluppo tecnologico che la Cina aveva conosciuto era stato sostanzialmente in mano allo stato, ma dopo il 400, con le dinastie Ming e Qing, l'interesse dello stato per lo sviluppo tecnologico si affievolì. Addirittura furono proibite l'esplorazione geografica e la costruzione di grandi navi. Perché? Secondo gli studiosi sembra che i sovrani temessero il potenziale impatto distruttivo della tecnologia sulla stabilità sociale e temessero, così, di non riuscire più a tenere sotto controllo la società cinese.
La capacità della Cina di ricostruire, secoli più tardi, una struttura tecnologica avanzata mostra nuovamente la validità di un'interpretazione di sviluppo o arretratezza tecnologica che sia in prevalenza culturale.
È ancora lo stato, infatti, a rilanciare lo sviluppo tecnologico.
Dopo la morte di Mao nel 1976, il suo successore Deng Xiaoping si lancia alla conquista dell'economia di mercato.
La Cina di oggi è figlia di Deng e del ciclo di riforme che decise tra il 1978 e il 1986. Le trasformazioni sono state così profonde che non è esagerato pensare ad una nuova rivoluzione cinese.
Deng era di origini borghesi. Nasceva nel 1904 da un padre proprietario terriero che poté pagargli gli studi universitari a Parigi. E proprio in Francia inizia la sua militanza comunista tra gli emigrati cinesi e conosce Zhou Enlai, futuro primo ministro di Mao.
Le origini spiegano alcuni tratti di Deng: il buon senso della borghesia agricola che lo spinge ad apprezzare la libertà economica e il suo essere – insieme a Zhou Enlai – immune dall'isolazionismo xenofobo di altri leader del suo paese.
Quando nasce Deng, la Cina era umiliata sotto il tallone degli imperi coloniali britannico, francese, giapponese e russo. Deng ha 7 anni quando cade l'ultima dinastia imperiale dei Qing ed inizia la breve stagione repubblicana tormentata dalla ribellione delle province. Il caos generato dai “signori della guerra” apre la strada all'invasione giapponese. Nel 1946 Deng assiste alla guerra civile tra comunisti e Kuomintang, alla rivoluzione maoista del ’49, alla collettivizzazione forzata e al Grande Balzo in avanti nel 1958, alla Rivoluzione culturale nel ’66 e al disgelo diplomatico con l'America del '72.
Deng è uno dei pochi leader del partito a sopravvivere alle purghe e alle lotte di potere dagli esiti cruenti. Questo perché, così come Zhou Enlai, egli preferiva esercitare la propria influenza da dietro le quinte, piuttosto che ottenere cariche appariscenti.
Comunque, durante la Rivoluzione culturale, anche Deng paga un prezzo personale, perché la furia radicale nella fase più estremista del maoismo si scatena contro suo figlio Pufang che viene scaraventato da una finestra dell'Università di Pechino dalle Guardie Rosse, rimanendo paralizzato.
L'era di Deng si apre grazie all'ultimo aiuto di Zhou Enlai. Nel maggio '75, mentre infuria la lotta al vertice tra moderati e radicali, il premier malato di cancro ha ancora la forza per imporre a Mao di passare le redini del partito a Deng.
I capi della rivoluzione culturale, inclusa la vedova di Mao, vengono arrestati nel '76 dopo la morte del grande timoniere.
Nel 1978 Deng emargina Hua Guofeng, che Mao avrebbe voluto come suo successore. Il potere è tutto suo e i primi segnali si colgono nei rapporti con gli Stati Uniti. Per Deng è quasi una storia d'amore. Appena può, manda i suoi figli a studiare nelle migliori università americane. Fanno epoca i viaggi di Deng in America. Soprattutto quello del 1979 in cui si veste da cow boy durante un rodeo in Texas, visita la Nasa a Houston, ammira gli impianti della Ford a Detroit.
L'America lo ricambia. Time lo nomina per due volte “uomo dell’anno”, eppure Deng non esita a pagare un prezzo elevato nel 1989: l’isolamento internazionale provocato dalla repressione della protesta di Piazza Tienanmen.
Deng ha tutta la responsabilità di quel massacro, ma per quella pagina tragica oggi sono in pochi a serbargli rancore, in Cina e nel mondo.
L’America è venuta a Canossa, piegata dalle ragioni del business: la potenza economica cinese è stata ammessa nel WTO, le multinazionali come General Motors, Microsoft e Ibm fanno a gara per chi investe di più a Pechino e Shangai. I governanti europei quasi si vergognano di aver mantenuto per 15 anni una pervenza di embargo sulle forniture militari alla Cina, timida sanzione per il massacro del 1989.
Nell’eredità di Deng l’autoritarismo passa in secondo piano, rispetto alla svolta verso l’economia di mercato avviata 20 anni fa e di cui tutti gli riconoscono la paternità.
Ancora nel 1980 l’agricoltura privata ha solo il 14% della terra coltivata: in tre anni, con lo smantellamento delle comuni, balza al 98%.
I risultati sono spettacolari. Riannimati dalla molla del profitto, i contadini cinesi fanno meraviglie: la produzione di grano che stagnava da decenni, cresce del 20% l’anno. Un miliardo di persone viene liberato dallo spettro della penuria.
A Pechino negli anni ’70 si razionava perfino la distribuzione delle uova; nel 1983, grazie al nuovo corso, appare il pesce fresco in ogni mercatino rionale.
Libertà da un socialismo che privilegiava l’industria pesante a scapito dei consumi, fra l’80 e il 90 i cinesi si comprano 100 milioni di televisori, 50 milioni di lavatrici e 40 milioni di frigoriferi.
Deng rappresenta la fine della guerra di classe e, superata Tienanmen, a 87 anni ha ancora la forza per lanciare la seconda ondata della rivoluzione di mercato.
Nel 1992 parte per un famoso viaggio nel Sud e a Shangai lancia lo slogan “Arricchirsi è glorioso”. La sperimentazione capitalistica viene estesa a tutto il paese e a Shangai inizia la costruzione di Pudong: l’isola paludosa viene trasformata nella Manhattan dell’Asia.
Il verbo capitalistico di Deng risveglia gli “spiriti animali” dei mercanti cinesi e dei finanzieri shangainesi, ma arriva anche più lontano: lo captano i 60 milioni di cinesi ricchi della diaspora, da Hong Kong a Taiwan, da Singapore alla Chinatown di San Francisco e New York, pronti ad investire nella madrepatria. Lo captano le multinazionali, e comincia il terremoto della delocalizzazione che sta sconvolgendo l’economia planetaria.
Ormai il denghismo è diventato in Cina l’unica ideologia. Le differenze di opinione all'interno della leadership sono limitate: tutti concordano con il mercato, il capitalismo, l’apertura agli investimenti occidentali, e, contemporaneamente, il rifiuto delle elezioni democratiche e del multipartitismo.
Anche gli attuali leader sono creature di Deng, a cominciare dal presidente Hu Jintao e dal premier Wen Jiabao.