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L’OCCUPAZIONE E I CONSUMI

si afferma che sulla domanda aggregata, costituita in un sistema chiuso agli scambi dalla somma fra consumo e investimento pubblico e privato,

incidono una pluralità di elementi. Questi sono la propensione al consumo, data dalla percentuale di aumento di reddito che i cittadini decidono

di spendere per l’acquisto di beni e servizi, l’investimento in beni capitali che dipende dal tasso di interesse che a sua volta produce i suoi effetti

sui costi e dal tasso di rendimento atteso. In un’economia dove la domanda aggregata è molto debole è molto difficile che vi sia una crescita del

reddito nazionale; lo Stato può far crescere la domanda aggregata tramite la spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi al fine di realizzare

un aumento dell’occupazione. Per far questo si potranno adottare anche politiche di deficit di bilancio e l’indebitamento pubblico in determinate

ipotesi non provocherà l’aumento del tasso di interesse fino a scoraggiare gli investimenti privati. Sull’occupazione la teoria classica afferma due

principi fondamentali:

1) il salario è uguale al prodotto marginale del lavoro;

2) l’utilità del salario, per un dato ammontare di lavoro occupato, è uguale alla disutilità marginale di quell’ammontare di occupazione. Il primo

principio , condiviso da Keynes, afferma che il salario di un lavoratore è uguale al valore del prodotto che andrebbe perduto togliendo un’unità di

occupazione. Il secondo principio, criticato da Keynes, afferma che i lavoratori accettano un salario reale che è sufficiente a creare occupazione

pari a quella offerta. I lavoratori non prestano attenzione al salario reale (tranne nei periodi di grande inflazione), ma a quello monetario. In

un’economia moderna i salari monetari non possono scendere al di sotto di un certo livello per diverse ragioni quali la presenza dei sindacati,

maggiore potere contrattuale e scarsa mobilità dei lavoratori, informazioni imperfette. Altro pilastro del pensiero neoclassico è la legge del Say

per la quale ogni offerta crea la propria domanda. Ne deriva l’equilibrio in macroeconomia fra domanda ed offerta ossia fra investimenti e

risparmi. Questa uguaglianza è assicurata dal fatto che gli investimenti e i risparmi derivano dalla stessa variabile che è il saggio di interesse.

Per Keynes il risparmio non deve intendersi come offerta di capitali ma come reddito non consumato. Come il consumo così anche il risparmio

dipende dal reddito; viene meno l’uguaglianza investimenti – risparmi che per i neoclassici si verifica automaticamente sul mercato dei capitali

con il tasso di interesse. Il consumo cresce ma in misura sempre inferiore con l’aumentare del reddito e conseguentemente, al contrario, il

risparmio cresce in misura sempre crescente. Pertanto con l’aumentare del reddito se non crescono anche gli investimenti i consumi non

aumenteranno a sufficienza per mantenere un determinato livello di occupazione. 10

L’INTERVENTO DELLO STATO E IL MOLTIPLICATORE

Per Keynes la parte di reddito non consumata, ossia il risparmio, deve essere investita e trasformata in domanda per favorire le attività

produttive. Se questo non accade il risparmio esce dal ciclo produttivo impedendo la crescita dell’economia. Keynes riteneva necessario

l’intervento dello Stato per correggere gli squilibri dell’economia di mercato, svolgere un’azione compensatrice sull’andamento dei cicli economici

in modo da assicurare stabilità al sistema economico nel suo complesso. E’ questo il concetto di finanza congiunturale. La finanza pubblica non

deve limitare la sua funzione a mera raccolta di danaro ma attraverso la spesa pubblica deve svolgere una funzione di guida e di indirizzo della

politica economica. Gli effetti della variazione della spesa pubblica sono molti rilevanti e complessi. Keynes affermava che il reddito nazionale e

il livello dell’occupazione erano determinati dalla domanda globale.

Da qui la famosa formula Y (domanda globale) = C (consumi) + I

(investimenti) + G (spesa pubblica).

Se l’economia si trova in una fase di recessione caratterizzata da una domanda globale bassa, le risorse economiche non sono pienamente

utilizzate e c’è disoccupazione. Con un intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica accade che il reddito nazionale cresca nella stessa

misura dell’intervento e che una parte della forza lavoro disoccupata venga assorbita dalle opere per la realizzazione dell’opera pubblica. I nuovi

lavoratori faranno crescere la domanda di beni e servizi che prima non potevano permettersi e salirà la loro propensione al consumo; quindi le

imprese aumenteranno conseguentemente la loro produzione (offerta) e crescerà il reddito nazionale. In poco tempo crescerà la domanda

aggregata in misura moltiplicata rispetto al valore iniziale della spesa: avremo così il fenomeno del moltiplicatore della spesa pubblica. Quanto

più è alta la propensione marginale al consumo (il tasso di crescita del consumo rispetto alla crescita del reddito) tanto più alto sarà l’effetto del

moltiplicatore.

Tale formula può anche così essere espressa:

Y = 1 x A

1­c

vediamo con un grafico l’equilibrio del reddito secondo Keynes .

L’equilibrio è dato da reddito = domanda aggregata Il punto B indica l’uguaglianza fra domanda aggregata e reddito. La quantità Q1 esprime il

reddito nazionale (PIL), mentre la quantità QA esprime il massimo impiego

dei fattori produttivi. Il mercato dei beni tende a B, quindi alla produzione Q1;

se la produzione fosse più bassa ci sarebbe un eccesso di domanda per cui

i produttori avrebbero interesse ad incrementare la produzione fino a

raggiungere Q1. Se la produzione fosse più alta di Q1 ci sarebbe un eccesso

di offerta per cui i produttori sarebbero costretti a ridurre la produzione fino a

Q1. Q1 è l’unica grandezza che rappresenta il punto di equilibrio. L’equilibrio

economico non è di piena occupazione come sostenuto dai neoclassici. Q1

è infatti inferiore a QA che è il reddito nella condizione di pieno impiego. Ne

deriva la necessità di intervento dello Stato nelle situazioni di

sottoccupazione. Nell’elaborazione di Keynes non si tiene conto

dell’inflazione perché la teoria è stata elaborata quando vi era il problema

opposto della forte recessione.

SPESA PUBBLICA

L

A

Come detto la spesa pubblica, secondo Keynes, non avrebbe dovuto essere finanziata dall’emissione di carta moneta perché avrebbe generato

inflazione. Il finanziamento sarebbe dovuto derivare da prestiti pubblici (deficit spending) che avrebbero generato reddito senza intaccare le

risorse; si trattava, in sostanza, di utilizzare i risparmi per gli investimenti. Altro sistema per finanziare la spesa pubblica è costituito dal classico

prelievo fiscale. Al riguardo si osserva che un’imposizione fiscale di tipo progressivo determina la redistribuzione in favore dei ceti meno abbienti

che hanno una maggiore propensione al consumo. L’aumento delle imposte annulla l’effetto moltiplicativo della spesa pubblica che rimane

comunque di segno positivo; si registra, in sostanza, un aumento di reddito grazie alla spesa pubblica ma è certamente inferiore rispetto a quello

che si verificherebbe se non vi fosse una crescita del prelievo fiscale.

LE CRITICHE AL PENSIERO DI KEYNES (slide 13) 11

Il pensiero di Keynes suscitò notevoli entusiasmi nel secondo dopoguerra quando le azioni di controllo della domanda globale assicurarono un

notevole sviluppo senza periodi di forte recessione economica o di inflazione elevata anche se alcuni studiosi, come meglio vedremo in seguito,

contestano il fatto che lo sviluppo economico di quegli anni sia da ricondurre all’adozione di politiche keynesiane. Certamente il fenomeno della

stagflazione ossia la recessione economica accompagnata da una spinta inflazionistica non poteva essere adeguatamente affrontato con

l’adozione dei principi elaborati da Keynes. Alcuni economisti ravvisarono che le teorie di Keynes potessero essere applicate solo in alcune

ipotesi di congiuntura economia, altri misero in discussione l’intera opera dello studioso inglese. Praticamente non ci sono molte difficoltà

nell’accrescere la spesa pubblica, ma certamente è molto più difficile operare al contrario ossia ridimensionarla. Le forze sociali, i sindacati, le

imprese ma anche gli stessi operatori pubblici hanno operato per non ridurre la spesa pubblica. Poiché la spesa pubblica si è rilevata poco

flessibile verso il basso ha finito con il perdere la sua funzione iniziale a sostegno dell’economia nei periodi di recessione per trasformarsi in un

costo molto elevato per i conti pubblici. Di qui la necessità di trovare nuovi mezzi per la copertura della spesa pubblica come l’aumento della

pressione fiscale, l’indebitamento e l’emissione di carta moneta.

Analisi storica

Alcuni economisti neoliberali ritengono che il New Deal, applicato da Roosevelt fra il 1933 e il 1937, e costituito principalmente da un grande

intervento statale nel mercato con un notevole appoggio ai consumi mediante l’emissione di moneta, non abbia salvato il mondo dalla grande

depressione, ma abbia prolungato la crisi per l’intero decennio fino all’inizio della guerra. Ritengono anche che non sia riconducibile al

keynesismo il boom economico verificatosi dopo il secondo conflitto mondiale. Per costoro il keynesismo sarebbe stato causa della distribuzione

della ricchezza con un mercato più equo, ma la crescita economica avrebbe altre origini. Esse andrebbero paradossalmente ravvisate

nell’economia di guerra. Infatti la guerra avrebbe posto le basi tecnologiche, sociali, istituzionali per la spinta economica nei successivi trenta

anni. lo Stato keynesiano ha le sue origini nel welfare state. Si tratta di un modello di Stato che pone attenzione alle politiche redistributive, alle

riforme sociali in favore delle classi più umili; si manifesta l’obiettivo di scongiurare o almeno contenere il conflitto di classe. Nelle politiche

redistributive è stato riscontrato che il finanziamento deriva principalmente dal lavoro piuttosto che dal capitale. E’ il lavoro che finanzia tali

politiche. Non vi sarebbe, quindi, una redistribuzione di ricchezza prodotta da classi sociali diverse da quella lavoratrice.

La scuola monetarista

Il monetarismo rappresenta una scuola di pensiero opposta al keynesismo . Friedman sostiene che le conclusioni di Keynes sulla possibile

teorica esistenza di un equilibrio di sottoccupazione sono da ritenersi logicamente erronee. Se i prezzi sono flessibili non può perdurare un

equilibrio di sottoccupazione poiché i meccanismi automatici riequilibratori messi in luce dalla neoclassica possono eliminare le situazioni di

occasionale squilibrio. Dall’analisi macroeconomic

Dettagli
Publisher
A.A. 2017-2018
66 pagine
SSD Scienze economiche e statistiche SECS-P/03 Scienza delle finanze

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Crikia95 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Scienze delle finanze e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università telematica "e-Campus" di Novedrate (CO) o del prof Mattia Giuseppe.