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Nel terzo capitolo ha inizio invece l'analisi della ferita come metafora, dal ruolo
dell'artista e dal suo riconoscimento nella società, alle ferite che riportate nei “corpi”
dell'opera non sono altro che chiavi di accesso a ferite immateriali, potremmo dire
spirituali, sia che siano singole o collettive.
Infine la prospettiva psicanalitica viene affiancata dalla magia, intendendo la ferita come
operazione guaritrice e profetica. Qui l'autrice sembra essere intenzionata a una lettura
convergente dei dati scientifici rispetto a quelli magico-esoterici, cercando di evitare una
contrapposizione tra le due realtà in luce di una loro interpretazione avente un obiettivo
comune, svelare l'origine della ferita e i suoi effetti nel futuro.
La trattazione cerca di fare emergere i contenuti più interessanti secondo chi scrive,
riportando alcuni collegamenti alla contemporaneità quando possibile.
Nel primo capitolo, l'autrice si preoccupa di considerare preliminarmente le connessioni
tra arte e psicologia nell'analisi dell'elemento ferita. Ecco dunque i riferimenti di Freud
alla ferita, collegata metaforicamente all'isteria, l'una come agente esterno, l'altro come
oggetto interiore che nasce da un trauma psicologico per poi manifestarsi. Il padre della
psicanalisi considera la ferita anche come autoanalisi. La Ugolini riporta uno scritto di
Freud che racconta un proprio sogno, in cui la “dissezione del bacino” e l'apertura del
proprio corpo viene interpretata come volontà appunto di autoanalisi, di sguardo
interiore.
Altra interpretazione psicoanalitica della ferita è quella che la intende come “metafora
somatica che allude a una condizione mentale negativa, collegata a uno stato di
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angoscia, di mancanza o di separazione” . Questo vuoto viene spesso collegato, come
nel caso di Wilson, alla spinta creativa, alla necessità di esprimersi attraverso l'arte.
Suddetta visione è all'origine del nesso stabilito tra talento e nevrosi, modello di
pensiero che inizia da subito ad agire sugli artisti e che troviamo ancora oggi nella
mentalità collettiva. Sebbene la connessione tra malessere esistenziale e capacità
artistica sia in più casi comprovata, non bisogna scadere in un facile determinismo. Non
per forza l'artista deve essere pazzo, depresso o nevrotico, così come ugualmente non
basta essere nevrotico per avere un certo talento creativo.
In un'ottica strettamente freudiana è l'angoscia di evirazione a relazionarsi alla ferita,
che avrebbe in questo senso una identità femminile, essendo identificata con la
“mancanza” del pene nella donna, che il bambino spiega a sé stesso come testimonianza
di un pregresso atto di mutilazione.
Da Freud ancora possiamo cogliere la ferita come motivo presente a tutti gli esseri
umani, se relazionata al momento della nascita, allo stacco tra madre e figlio. Potremmo
così vedere anche la ferita come espressione della dualità che il bambino sperimenta da
quel momento in avanti.
Nel momento in cui si trovi un autoritratto “ferito” dovremmo quindi indagare la causa
da cui nasce quella lacerazione. Oltre alle possibili già citate, forse l'artista vuole
semplicemente riportare nella sua creazione un trauma fisico, o psico-emotivo, che ha
subito. Potrebbe anche utilizzare la ferita non come condizione esistenziale personale,
ma come metafora dell'umanità, della sua precarietà.
In seguito la Ugolini analizza alcuni casi di ferita come riparazione, dunque di un dolore
fisico, oppure emotivo, che diventa occasione per una nuova coscienza, per un
superamento di una certa condizione. La ferita può in questo caso essere considerata
come un rito di passaggio. Così è nel caso di alcuni comportamenti collettivi basati sulla
mutilazione, in cui l'accettazione di un nuovo membro all'interno della comunità passa
attraverso un ferirsi e un procurarsi dolore.
La validità del dolore come superamento di una prova è poi messo in relazione agli
artisti della Body Art, come Gina Pane, per la quale il rito di passaggio è sia individuale
che collettivo. L'artista si sacrifica in nome di una riparazione che trascende il singolo
per avere effetti più ampi. La stessa valutazione si può applicare in genere a quasi tutti i
protagonisti della Body Art.
Segue poi un'analisi di diversi autoritratti “feriti”. Da Van Gogh, passando per Ligabue,
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fino a Frida Kahlo, Jo Spence e Nan Goldin. L'autrice cerca di districarsi fra le possibili
cause del ferimento, del sacrificio dei diversi artisti.
Per quanto riguarda il danno fisico e il corpo lacerato, i due precedenti illustri cui fa
riferimento la Ugolini sono il martirio cristiano e l'iconografia medico-anatomica. La
seconda categoria è particolarmente interessante nell'oggi avendo origine da un legame
tra arte e scienza che dagli anni '90 in poi si è sempre più imposto sulla scena artistica
internazionale, fino a rendere in certe occasioni irrisorio il confine che divide i due
ambiti. Basti pensare in tempi recenti a Bodyworlds, esposizione nata dalle ricerche
dello scienziato Gunter Von Hagen sui corpi umani plastinati e che ha avuto ampio
successo in tutto il mondo, venendo fruita come esperienza estetica e didattica allo
stesso tempo. I corpi utilizzati sono contemporaneamente oggetto di studio scientifico e
di apprezzamento estetico.
Come detto sopra è degli anni '90 l'esplosione degli Young British Artists, capitanati da
Damien Hirst, che fanno della della manipolazione sui corpi la loro poetica ( tra i più
importanti Marc Quinn e i fratelli Chapman ). Ed è proprio Hirst a diventare uno degli
artisti più pagati del mondo, grazie alla sua ricerca estetica oltre che alle sue doti
comunicative. Nella dissezione in formalina di uno squalo, oltre che la riflessione sul
tema della morte, troviamo innanzitutto una necessità, dello sguardo contemporaneo, di
intrufolarsi all'interno dei corpi, di aprirli per scoprire cosa si trovi lì dentro. In definitiva
di creare una ferita attraverso cui farsi spazio per andare oltre la superficie ( in questo
senso ferite metaforiche sono già i buchi e le lacerazioni delle tele di Lucio Fontana,
artista alla ricerca di un “aldilà”). Questo sguardo intrusivo è alla base del successo di
serie tv in cui l'occhio dello spettatore è portato direttamente dentro le membra umane
( ecco per esempio CSI ), e di generi cinematografici in cui l'analisi visiva si rivolge alla
corporalità e al suo dolore/piacere, si veda alla voce splatter ( su tutti la saga di Saw-
L'Enigmista ) e pornografia. Non è un caso che si possa considerare questa ampia fetta
del gusto contemporaneo come un ritorno al Barocco, con le sue ricchezze di forme
naturalistiche e dettagli da scovare, proprio come nelle profondità del corpo. E' infatti
proprio al Seicento e alla cultura barocca che fa riferimento l'autrice nell'introduzione
riguardo alla nascita di una “vera e propria categoria estetica” indicata da Piero
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Camporesi come “bellezza rognosa” .
Chiusa la parentesi sulla contemporaneità, notiamo come le origini del connubio arte-
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scienza siano presenti già da secoli. Ecco per esempio che Leon Battista Alberti nel De
Pictura del 1435 opera una similitudine tra l'operato dell'artista e quello dell'anatomista,
senza dimenticare che la stessa prospettiva rinascimentale nasce da un incrocio tra il
disegno e la matematica: ancora una volta, arte e scienza insieme. L'accento viene
dunque posto sul più famoso artista-scienziato della storia, Leonardo, assiduo
frequentatore di sale anatomiche ( così come Michelangelo, Raffaello, Andrea del
Verrocchio, Pollaiolo...). La Ugolini mette in luce però come le rappresentazioni
anatomiche di Leonardo e altri siano spesso intrise di vitalità, dunque in un certo senso
non così vicine alla realtà del cadavere da cui prendono spunto., dando origine a “un
essere irreale, lo scorticato, situato a metà strada tra vita e morte, tra superficie e
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interno” . Questa terra di mezzo si ripropone in tutta la sua ambiguità nella storia della
rappresentazione anatomica, fino come abbiamo visto, al vouyerismo del gusto
contemporaneo per l'interno dei corpi.
Mentre i disegni anatomici di Leonardo e altri autori siano irrealmente colmi di vita, la
medicina “guarda al cadavere considerandolo definitivamente scisso dall'individuo che
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vi ha abitato” come fa notare David Le Breton. Accanto al fine scientifico, troviamo
però una irrequietezza di fondo, che ci accompagna attraverso tutte queste ferite, cioè la
sensazione di profanare qualcosa di sacro, oltre che di esporsi al rischio di
contaminazione.
L'immagine anatomica, presentando un corpo che nonostante sia smembrato continua a esibire
i segni della propria umanità, intenderebbe proprio lenire questo senso di colpa, ponendosi 5
come l'ultima resistenza alla dissociazione tra l'uomo e il suo corpo, tra l'uomo e il cadavere.
La Ugolini si attesta in seguito sull'analisi di una dimensione più profonda del disegno
anatomico. Fa notare infatti come la raffigurazione di un cadavere smuova qualcosa di
archetipico, trovando come testimonianza la ripetizione del motto delfico Nosce te
ipsum nelle illustrazioni all'interno dei teatri anatomici. L'autrice presenta una doppia
interpretazione del Conosci te stesso: da un lato, l'invito a riflettere sulla perfezione del
creato, di cui l'essere umano rappresenta il massimo esempio; dall'altro, un ricordo della
propria natura mortale, della caducità e transitorietà del corpo ( che veniva spesso
affiancato, nelle rappresentazioni, da clessidre, teschi, falci e altri oggetti “di
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