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CAPITOLO II. IDEA DEL CODICE CIVILE
(§1-2-3-4)La codificazione è una forma storica di legislazione. L’affermarsi degli Stati assoluti ha
determinato per il sovrano la necessità di divenire egli stesso fonte del diritto; un diritto, per
l’appunto, che si esprime nella forma della legge. Tutto ciò si unisce necessariamente con quel
razionalismo filosofico e scientifico imperante nell’epoca della codificazione, adiuvato
dall’affermarsi della borghesia. L’ascesa della borghesia (quindi dei commercianti) ha imposto la
necessità di avvalersi di un «diritto calcolabile» (Max Weber), con il quale ciascuno possa essere
in grado con largo anticipo di prevedere le conseguenze (giuridiche) delle proprie azioni. Proprio il
sovrano è la figura che si fa carico di questa nuova e contingente necessità, attraverso la quale
persegue anche un fine politico: unificare il popolo sotto l’idea di un diritto eguale per soggetti
eguali. A ciò, dunque, corrisponde l’affermarsi del carattere di generalità ed astrattezza nelle leggi
emanate.
(§4) Da questo complesso di idee nasce l’idea di codice, come manifesto della «potenza e
dell’orgoglio del potere legislativo» e che quindi non consolidi semplicemente quanto già affermato
nel passato, ma stabilisca il diritto secondo una tavola di principi. Nell’epoca della codificazione si
colloca il celebre dibattito tra Thibaut e Savigny. Thibaut, fautore dell’ideale nazionalistico, vedeva
l’elemento unificatore del diritto nel codice: una «grande opera nazionale» di matematica del diritto,
un simbolo di quell’unità tedesca che nella realtà storica difficilmente la Germani riusciva a
raggiungere. Savigny, invece, vedeva l’elemento unificatore del diritto nella scienza giuridica,
chiamata sempre a «sorvegliare» e ad interpretare l’infinito mutare del diritto (soprattutto dal punto
di vista linguistico) che, in quanto scienza degli uomini, con gli uomini muta.
(§ 5) L’esperienza della rivoluzione francese ha invero messo in luce che il codice è, insieme, un
fatto politico e un fatto tecnico. Perché un codice nasca non è bastevole il vigore di un governo;
serve una altrettanto vigorosa collaborazione dei giuristi, i tecnici del diritto, i quali sono chiamati a
dare il «proprio tono all’opera codificatrice». In quest’ottica si capisce come mai l’esperienza di
Cambracèrés sia stata fallimentare, mentre non così fu per il codice francese del 1804.
(§6-7)Ciò che caratterizza i codici ottocenteschi è sicuramente l’autosufficienza, raggiunta
mediante l’equilibrio tra la completezza e la coerenza. I principi generali (uno su tutti l’analogia
legis e l’analogia juris) provvedono alla soluzione coerente delle antinomie che necessariamente si
vengono a creare in un codice che voglia dirsi completo. «Ogni domanda di diritto deve trovare
una e soltanto una risposta». Perché, poi, un codice sia sempre attuale e mai vecchio, deve
trovare dei dispositivi di flessibilità. Anche in questo senso vengono ad assumere significato i
principi dell’analogia e del divieto di applicazione analogica: l’uno è strumento evolutivo; l’altro è
strumento conservativo del diritto. Né il codice può fare a meno di un minimo di collegamento con
la realtà sociale esterna, che trova espressione (solo) allorquando il legislatore introduce nelle
norme i criteri di buona fede ed equità.
(§8-9-10) I codici civili dell’Ottocento assolvevano il compito di supplire alla necessità di carte
costituzionali perlopiù flessibili (si pensi ad es. allo Statuto albertino): per questo si facevano
custodi dei valori comuni. Il rapporto tra codice civile e costituzione, come è già stato chiarito nel
primo capitolo, è fortemente condizionato dall’evoluzione storica e potrebbe riassumersi, con le
parole dell’Autore, così: «il codice civile […] garantisce la quotidianità della vita sociale e offre
quella minima sicurezza di cui tutti abbiamo bisogno: pronto a cedere di nuovo il primato allorché il
sereno sia stabilmente tornato e la garanzia dell’unità assunta da una nuova costituzione». Se il
codice civile nacque come carta della borghesia, l’avvento e l’affermarsi della società dei consumi
ne ha fatto di sicuro lo statuto della società media. Al di là dei giudizi di valore su questo tipo di
società, non vi è dubbio che essa abbia permesso al codice civile di assurgere quale salvaguardia
degli interessi individuali e più profondi, quale «legge dei rapporti extra-politici», quale
«costituzione di tutte le classi». Il codice, d’altronde, non può che essere uno statuto delle leggi: se
si pensa al nostro codice vigente si troverà che preliminarmente esso presenta le “disposizioni
sulla legge in generale”, disciplinanti il diritto, per l’appunto, nella sua generalità. È pur vero che
però proprio la presenza di disposizioni generali all’inizio di un codice lo riducono a “legge tra le
leggi”. Si dirà allora che «la forza del codice è proprio nella distinzione tra ordinamento e sistema
[…]. Il codice è un sistema, anche se l’ordinamento complessivo dello Stato sia percorso da
impulsi contrastanti e da tensioni ideologiche».
(§11) Nell’opera di codificazione dell’Ottocento non di rado si assistette ad una divisione tra il
codice civile ed il codice dei commerci: lo stesso ordinamento italiano prevedeva tale divisione.
Tuttavia era già chiaro il prevalere della disciplina commerciale su quella “civile” propriamente
detta. Quando con il codice del 1942 venne meno questa distinzione con un unico codice civile, fu
chiaro che in realtà la disciplina commerciale appariva ancora vincitrice. Il rapporto dialettico tra
codice civile ed economia moderna, definito nella unificazione del 1942, si è riaperto con il
sopravvenire di leggi speciali ordinatrici del mercato; ma a ben vedere l’economia si giuridifica
proprio perché lo Stato divene ordinatore di essa: perciò si legifica all’esterno del codice.
(§12- Il linguaggio del codice civile si caratterizza per semplicità, sobrietà, incisività, razionalità ed
assiomaticità. Il linguaggio dei borghesi, ossia il linguaggio del commercio, deve essere tale
proprio perché sia stabile e possa quindi rendere calcolabili (in modo appunto inequivocabile) le
conseguenze delle azioni dei singoli. Il codice in sé non dà definizioni astratte: sono le stesse
norme nella loro costituzione ad essere definite. Un’attenta analisi non potrà che individuare due
diverse figure storiche di codici: l’una nasce come opera del legislatore (solitamente post-
rivoluzionario), e il suo valore intrinsecamente politico e poco tecnico costringe l’interprete alla
mera esegesi (così ad esempio il Code Napoleon); l’altra come opera della dottrina, che permette
dunque un «nesso di produttiva circolarità» tra codice e scuola, ossia un’interpretazione meno
chiusa, pur non pregiudicando l’autonomia dell’interprete e la fondamentale differenza tra legge e
dottrina. Invero, il fenomeno imperante delle leggi speciali (le quali come già detto sono opera del
legislatore) costringe l’interprete moderno ad un doppio compito: l’interpretazione del codice civile
e l’esegesi delle leggi stesse, che assurgono quindi a «micro-sistemi», con conseguenze non
sempre positive. Delle tre cause della decodificazione individuate da Wieacker (declino dello stato
nazionale; pathos della solidarietà che ha superato quello della libertà; carattere negoziale delle
leggi), l’Autore riconosce che invero proprio la fonte negoziale delle leggi sia causa primaria. Si
tratta, insomma, dell’analogo processo con cui lo Stato borghese (che decideva)ha ceduto il posto
allo Stato democratico (che registra le decisioni). Le leggi speciali, dunque, assurgono a micro-
sistemi quasi autonomi rispetto al codice civile che ha meramente un valore residuale rispetto a
queste ultime. In questo panorama torna ad avere il rilievo il ruolo di sistematizzazione a cui sono
chiamati i giuristi. Sembra, dunque, chiaro che oggi il diritto dei giuristi ha in sé il diritto del codice,
ma deve andare oltre ad esso. Oggi è vero che il ceto dei giuristi si trova da solo dinnanzi alla
legge.
CAPITOLO III. I CINQUANT’ANNI DEL CODICE CIVILE
(§1-2-3-4) Il codice civile fu approvato il 21 aprile 1942, nell’ultimo periodo del regime fascista,
ormai inesorabilmente in declino. Due anni prima il guardasigilli Grandi, presentando la
commissione che avrebbe riformato il diritto civile, si scagliava —in accordo con le posizioni del
romanista Piero De Francisci— contro quella parte (invero maggioritaria) di giuristi che
pretendevano di scollare il diritto dalla politica, facendo presumere che il riformato codice avrebbe
avuto una significativa impronta del regime. Non l’ebbe. L’ideologia fascista non è penetrata nel
codice civile, tanto che le poche voci che invocavano l’abrogazione della legge ordinaria con cui
esso fu promulgato nel secondo dopoguerra non trovarono ascolto. L’indipendenza del codice
dall’ideologia si deve al rifiuto culturale dei giuristi, troppo legati alle posizioni kelseniane per
lasciarsi piegare alle condizioni di uno Stato che più che totalitario era assolutista. Il codice civile
del 1942 recepiva i grandi cambiamenti che, dopo il 1865, avevano attraversato la società (si pensi
solo alle conseguenze apportate sul piano economico dalla Prima guerra mondiale). Anzitutto
degna di rilievo è l’unificazione tra diritto civile in senso stretto e diritto commerciale, confluiti in un
unico codice che vede, in accordo con la morfologia sociale dei tempi, il prevalere in più ambiti del
secondo. In particolare il legislatore del 1942 si preoccupò di riconoscere accanto alla persona
fisica come soggetto altre entità giuridiche di carattere più complesso, costituite da più persone
espressioni di un’unica volontà.
(§5-6-7) L’avvento della Costituzione nel 1948 come vertice tra le fonti del diritto non ha potuto
che mutare la concezione del diritto civile. Tuttavia, anziché rifiutare tout-court quanto stabilito nel
codice previgente si è preferito rileggere le sue norme alla luce dei principi costituzionali
sopraggiunti, anche a costo di introdurre nuovi significati delle stesse, estranei alla volontà del
legislatore del 42. Le norme del codice civile, dunque, sta