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CAPITOLO 9: LE RISORSE E IL POTERE
1) Potere delle risorse e risorse del potere
1.1 Risorse e potere: un’inscindibile relazione
Lo studio della produzione e della gestione delle risorse da un lato, e quello della costituzione e dell’esercizio
del potere dall’altro, competono per tradizione a due branche distinte dell’antropologia culturale: l’antropologia
economica e l’antropologia politica rispettivamente, allo scopo di mostrare come la disponibilità e il controllo
dele risorse sia inseparabile dall’esercizio del potere, e viceversa.
Risorse materiali e risorse simboliche: una precisazione si rende subito necessaria: per risorsa si deve intendere
tanto un bene materiale, concreto, tangibile, come l’acqua, il denaro, il grano, il ferro,… quanto un bene
“volatile” come un sapere o una conoscenza tecnica, una certa idea, un’ideologia politica o una visione religiosa
del mondo. In sintesi: le risorse possono essere di natura tanto materiale quanto simbolica. Una risorsa è anche
qualunque cosa il cui controllo consente a un individuo o a un gruppo di perseguire scopi di ordine tanto
materiale quanto simbolico. L’acquisizione e la disponibilità di una risorsa non sono mai completamente
disgiunte da una relazione di potere, ossia dal fatto che tale acquisizione e tale disponibilità influiscono sempre
sulla possibilità che un individuo o un gruppo di individui hanno, grazie ad esse, di imporsi o di prevalere su
altri individui e altri gruppi. Viceversa, tale possibilità di prevalere è sempre associata al controllo di una
qualche risorsa, materiale o simbolica che sia.
Economia e politica: in questa prospettiva l’idea di risorsa come qualcosa di esclusivamente materiale deve
essere abbandonata a vantaggio di una concezione che considera “risorse” anche i beni di natura simbolica. Nel
mondo occidentale economia e politica risultano “distinte” grazie all’esistenza del sistema di mercato da un lato
e delle istituzioni politiche dall’altro. Per lungo tempo questa idea di economia e politica come di due sfere
distinte è stata proiettata anche sulle società diverse da quella europea. Un primo risultato di questa situazione
fu che agli occhi degli europei la maggior parte dei popoli “altri” sembravano privi sia di economia che di
organizzazione politica, non potendo rintracciare presso molti di essi né un mercato con i suoi supporti e le sue
regole né istituzioni politiche riconoscibili come tali.
Oggetti di prestigio e beni di consumo: con gli sviluppo dell’etnografia divenne chiaro che anche gli altri popoli
avevano vari modi di produrre risorse, di farle circolare, nonché di fissare i criteri di accesso ad esse, cioè di
controllarne l’utilizzazione da parte di certi individui e di determinati gruppi piuttosto che di altri. La
discussione sul modo in cui la distribuzione sociale delle risorse era organizzata in quelle che un tempo erano
chiamate le società “primitive”, ebbe inizio negli anni a cavallo della 1^ guerra mondiale. Fu soprattutto
Malinowski a dare un notevole contributo a queste ricerche, studiando una particolare forma di scambio,
chiamato “kula” (dare) dai Trobriand e dai popoli degli arcipelaghi vicini, che lui stesso definì “rituale”, in
quanto legato a regole apparentemente prive di un significato economico immediato. Gli abitanti delle
Trobriand e degli arcipelaghi limitrofi presso cui soggiornò Malinowski tra il 1916-18, intraprendevano
periodicamente difficili e pericolose traversate per incontrarsi con gruppi coi quali mantenevano da lungo
tempo una relazione di scambio. Nell’arcipelago delle Trobriand, e tra queste ultime ed altre isole, circolavano
due tipi di oggetti chiamati “vay’gua”: collane di conchiglie rosse (“soulava”) e braccialetti di conchiglie
bianche (“mwali”). Tra queste isole, che Malinowski rappresentò come idealmente disposte lungo una
circonferenza, le conchiglie circolavano in senso orario e i braccialetti in senso inverso. Malinowski chiamò
questo circuito “anello kula”. Gli oggetti appartenenti a una categoria potevano essere scambiati solo con
oggetti dell’altra categoria: soulawa in cambio di mwali e viceversa. I “vay’gua” restavano nelle mani di chi li
riceveva o dei suoi eredi anche per molti anni ma alla fine venivano sempre nuovamente scambiati. Durante le
visite, gli scambi “rituali” erano seguiti da scambi “profani” (“gimwali”), durante i quali i gruppi trattavano le
cessione di oggetti d’uso corrente. Lo scambio kula, che doveva seguire un’etichettarituale ben precisa, apriva
insomma lo scambio profano. Lo scambio rituale aveva lo scopo di ribadire la relazione di collaborazione e
amicizia tra partner economici abituali, rinsaldando rapporti tra gruppi e individui tra loro lontani ma legati da
un vincolo “sacro” rappresentato dagli oggetti cerimoniali scambiati. Gli oggetti cerimoniali e quelli profani
che venivano scambiati durante le spedizioni dei Trobriand costituivano dunque due diversi tipi di oggetti: beni
di prestigio e beni di consumo. Entrambi erano delle risorse materiali.
La “vita” e la funzione degli oggetti: le collane e i bracciali dei Trobriand erano dunque certamente anch’essi
dei beni materiali. Tuttavia avevano nomi propri, una loro storia, ed erano considerati i segni tangibili di
relazioni durature tra gli individui che se li erano passati di mano una generazione dopo l’altra. Tali oggetti
venivano scambiati dopo lunghi discorsi da parte dei partecipanti al kula. In questi discorsi veniva riaffermata
la relazione di scambio rituale ed economico tra gli individui, quasi che la memoria incorporata da tali oggetti
fosse portatrice di una fama “imperitura” per coloro che avevano partecipato agli scambi. Non tutti però
potevano entrare nel circuito kula secondo le stesse modalità. La partecipazione allo scambio rituale era
insomma una prerogativa di pochi. Nell’area delle Trobriand e degli arcipelaghi vicini, c’è un termine, keda
(via), con il quale i locali si riferiscono al cammino percorso dai beni che entrano nello scambio kula. Il termine
keda ha però altri significati, poiché viene impiegato in riferimento al complesso delle relazioni che legano gli
individui e i loro gruppi in questa rete di relazioni prodotta dal movimento stesso degli oggetti. Leda è un
termine che infatti rinvia al cammino degli oggetti, alle relazioni che essi “incorporano” e alla ricchezza, al
potere e alla reputazione di coloro che li possiedono. Un keda “ben riuscito” corrisponde infatti all’esistenza di
un gruppo di individui, abitanti in isole diverse, che sono in grado di mantenere relazioni stabili di scambio.
Tali relazioni sono suscettibili di rafforzare sempre la posizione di prestigio di coloro che possono vantare la
propria appartenenza a un keda molto ampio e complesso. Infatti, ciò che più conta nella costituzione del valore
di questi oggetti, è la serie cumulativa di transazioni che tali oggetti portano con sé, segno tangibile della
solidità e della continuità delle relazioni sociali tra gli individui coinvolti nel circuito. Lo sforzo di coloro che si
impegnano in questi scambi allo scopo di emergere “politicamente”, è quella di trarre sempre maggiro prestigio
dalle relazioni che essi possono istituire con uno o più partner, cercando di partecipare al numero più alto
possibile di keda e tentando di rendere sempre più stabili e durature le transazioni. I percorsi di questi oggetti
sono quindi elementi costitutivi del prestigio degli individui e al tempo stesso “segni”, “forme manifeste” di
quest’ultimo.
La manipolazione delle risorse e le trasformazioni dello scambio: lo scambio kula costituisce un sistema
multicentrico con un raggio transculturale. Malinowski riteneva che gli oggetti in esso coinvolti fossero
scambiati solo a scopi di prestigio, mentre si è scoperto che essi entrano in realtà nelle compensazioni
matrimoniali, nell’acquisto di maiali o per pagare il diritto a coltivare appezzamenti di terreno. Gli oggetti
“kula” (bracciali e collane) di fatto entrano ed escono continuamente dal circuito per cui non si può dire che il
sistema descritto da Malinowski rappresenti un vero caso di sfere separate di scambio. Queste trasformazioni
del sistema kula suggeriscono non soltanto che siamo di fronte a una istituzione economico-cerimoniale
influenzata da eventi storici, ma che tale istituzione è stata ed è attualmente oggetto di continue manipolazioni e
nuove strategie messe in atto dai partecipanti allo scambio. Con la monetarizzazione dell’economia, “gettarsi”
nel circuito kula significa sempre più controllare risorse legate al possesso e alla circolazione del denaro. Lo
scambio cerimoniale descritto ormai quasi un secolo fa da Malinowski ha subito anche altre trasformazioni di
carattere, potremmo dire, più strettamente economico. Nel complesso insulare di cui fanno parte le Trobriand
esiste un termine, “kitoum”, che indica un “bene kula” (un vay’gua insomma) che è stato acquisito al di fuori
del circuito cerimoniale e che quindi è ritenuto proprietà personale e definitiva del possessore. Se questi lo
immette nel circuito cerimoniale, ogni bene ottenuto in cambio diventa di sua proprietà, cioè svincolato dal
circuito cerimoniale da cui proviene. Questo fatto è, per alcuni autori, il segno della progressiva adozioni di
nozioni che fanno capo all’idea di proprietà privata. Ciò per far capire come forme di cambio cerimoniale di
questo tipo siano oggi sempre più influenzate dalla presenza del denaro e dalla pressione di fattori economico-
politici di natura “globale”.
1.2 Le natura del potere
Le teorie del potere sviluppate in Occidente sino all’inizio del ‘900 avevano cercato di coglierne più che altro la
“sostanza”. Le teorie più recenti hanno messo invece l’accento sul carattere pervasivo del potere, sulla sua
natura non-istituzionale e inscritta nelle relazioni stesse tra gli individui, i gruppi e, soprattutto, nei “discorsi”
da essi prodotti. La più recente di queste teorie del potere, e forse quella che ha esercitato maggiore influenza
sulla cultura filosofica e socio-antropologica dell’ultimo scorcio del ‘900, è quella di M.Foucault. Egli non
definisce il potere come una essenza, ma cerca di vedere come esso funzioni, agisca e costringe gli esseri umani
a comportarsi in un certo modo. Il potere, dice Foucault, è ovunque: nelle parole, nei discorsi, negli atti, nelle
cose e nell’applicazione del nostro sapere. Il potere può sì essere identificato con istituzioni