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Fredda, che ama essere prigioniero di qualcosa o qualcuno, e che colleziona novantadue valigie, all’
interno delle quali vi sono novantadue oggetti che raccontano novantadue storie. Concentrarsi con
pazienza e collegare tutte le storie tra loro è uno sforzo vano: Le valigie di Tulse Luper – Parte I. La
A suo modo, grazie all’over-
storia di Moab (2003) in definitiva non vuole raccontare proprio niente.
dose di dialoghi, di informazioni incrociate, di immagini di personaggi che sfilano davanti allo scher-
mo, è un film astratto; alla fine lo spettatore rimane così stordito che non riesce ad avere la sensazio-
ne di aver recepito una storia, ma semplicemente di aver visto qualcosa. Greenaway, nonostante il
film abbia un’ambientazione storica ben precisa, distrugge l’idea di narrazione per costruire una tor-
re di Babele che forse è l’unica vera storia che si possa raccontare oggi: il rumore, il caos, l’eccesso
di informazioni che fa perdere il senso alle cose. Dal punto di vista stilistico Greenaway riprende e
approfondisce, approfittando dell’evoluzione del digitale, le architetture visive ordite per A TV Dan-
te e L’ultima tempesta. Ritornano dunque le finestre e i disegni digitali, ma con scelte grafiche mol-
to differenti da quelle usate nei suoi film precedenti. La sequenza iniziale è significativa di una serie
di scelte operate dal regista inglese; in essa vengono visualizzati i casting per scegliere i personaggi.
La macchina della finzione viene quindi dichiarata subito, insieme alle scenografie che sono chiara-
mente pezzi di arredamento inseriti in spazi neri e vuoti, di cui si intuisce la grandezza ma non la fi-
Spesso i personaggi sono immersi in uno spazio nero che ricorda la quinta teatrale, il termine del-
ne.
lo spazio scenico che si apre al buio. I casting vengono proposti visivamente in maniera differente:
infinite finestre invadono lo schermo, le stesse battute vengono recitate da attori diversi vanno a co-
stituire una cacofonia di voci, personaggi differenti compaiono e scompaiono nel medesimo spazio.
Quest’ultima scelta stilistica ha dei richiami alle continuità simulate care a Rybczyński. Ogni attore
è numerato, e una serie di scritte ci informa di quale personaggio si sta effettuando il casting. Volen-
do raccontare tutte le storie possibili, forse al regista piacerebbe usare tutti gli attori possibili per lo
stesso personaggio, visualizzando così una delle proprietà più intrinseche del digitale, ovvero la sua
possibilità di contenere tutto, di avere una memoria di dati, catalogati e numerati, potenzialmente sen-
za fine. Gli interventi grafici spesso sono disegni molto semplici che vanno a complicare la struttura
visiva, eppure le didascalie scritte acquistano il ruolo di personaggio vero e proprio: i titoli dei singo-
li episodi del film, che si presenta come una sorta di libro in movimento, a volte rimangono per mi-
nuti interi sovraimpressi, andando a comporre quelle impaginazioni dello schermo care alla videoar-
te e a tanta televisione. Ogni tanto spuntano anche elaborazioni in grafica 3D, come le cartine che
mostrano i vari viaggi di Luper e alcune grafiche che costellano il film. I movimenti di camera sono
continui e sfidano lo sguardo. Greenaway intensifica l’uso del loop, sperimentando anche l’audio; le
immagini vanno a tempo di musica, in maniera talmente esplicita e inusuale per lo stile di Greena-
L’estetica elettronica, che vorrebbe le immagini incastra-
way da richiamare il genere videomusicale. 37
te le une dentro le altre, richiamando il linguaggio a finestre del personal computer, qui si fonde con
le modalità di montaggio della tradizione cinematografica: in una sequenza significativa, una donna
cinese, usando un fischietto per impartire l’ordine di partenza a un gruppo di bambini che devono
andare a sedersi per affrontare il casting, grida una serie di frasi che vengono tradotte da una donna
di spalle. All’immagine, un totale in cui si vedono i due personaggi femminili in primo piano e sullo
sfondo i bambini, si sovrappone il mezzo busto della donna cinese che compare a ritmo ogni volta
che impartisce un ordine; tutto questo viene fatto però in continuità, lasciando l’immagine del totale
come sfondo. La sintesi sembra il tema fondamentale del film, nel senso digitale del termine: il met-
tere insieme grazie ai numeri, accostare linguaggi, colore e bianco e nero, materiali di repertorio con
immagini dal vero, scenografie esplicitamente teatrali con spazi reali, pieni con vuoti, vero con fal-
so. Anche gli esperti che compaiono, simili a quelli di A TV Dante, spesso vengono visualizzati sot-
to tutti i punti di vista, nel senso che tre finestre ci fanno vedere contemporaneamente la stessa per-
sona vista di fronte e dai due lati. In altri momenti la ricostruzione della storia di Tulse Luper è affi-
data al montaggio audio di parole diverse dette da esperti differenti, ognuno inquadrato nella sua fi-
in un saggio virtuosistico su come l’audio possa rendere fluido e costante un discorso che ap-
nestra,
partiene a più persone. In altri momenti ancora, le parole degli esperti vengono visualizzate tramite
un lavoro di montaggio di film in bianco e nero. Procedendo negli esempi, a volte una scena viene
mostrata nel suo spazio naturale e contemporaneamente in una finestra vediamo la medesima scena
su sfondo nero, magari con l’audio lievemente sfasato, in modo da creare una eco. Oppure l’audio
fa da guida, e collega la stessa scena ripresa in modi diversi. Le valigie di Tulse Luper non è un film
da vedere al cinema: è pensato per un altro genere di fruizione, quella domestica del DVD. Non è an-
cora un film non-lineare, ma concentra una miriade di informazioni in un tempo che lo spettatore fa-
tica a seguire. Greenaway non sceglie, lascia tutto aperto e fa tutto quello che forse prima non gli era
stato concesso. Il film ha la stessa natura di A TV Dante, un video visivamente ipertestuale pur non
potendo essere interattivo. La simultaneità diventa estrema, accavallando fonti visive diverse e ver-
sioni differenti delle stesse scene, diversi punti di vista dello stesso soggetto, come se l’idea del flus-
so della diretta fosse scissa in vari elementi discreti che però vengono mostrati nello stesso tempo e
organizzati in varie zone dello spazio del quadro. Il caos digitale che esplode sullo schermo spesso
ha effetti comici: ogni volta che Tulse Luper viene picchiato, tutti i colpi che subisce vengono atten-
tamente numerati con delle cifre che compaiono sullo schermo, a ritmo di qualche battuta orchestra-
le che segue diligentemente l’azione. Uno degli esperti afferma che era inevitabile che Luper diven-
tasse uno scrittore, che aveva intrapreso gli studi di archeologia e che poteva essere considerato un
collezionista, poiché amava compilare liste. Egli collezionava, selezionava, confrontava e classifica-
va nomi, immagini, esperienze, personaggi, persone, ecc. La struttura del film è quindi determinata
dal carattere del personaggio, ma è chiaro che Greenaway si riferisce soprattutto a se stesso: mentre
l’esperto recita le sue battute, intorno a lui compaiono disegni del regista inglese, che è stato per lun-
go tempo pittore e collagista; mettere insieme i pezzi anche dal punto di vista registico è una prero-
gativa del suo stile. Nel momento in cui Greenaway dice di sé che era inevitabile che diventasse uno
scrittore, in questo caso scrittore dei suoi stessi film, ammette che ora può scrivere veramente degli
elenchi con le immagini, attirare nel magma ordinato del digitale oggetti, immagini, segni, immagi-
nari, mettendoli in ordine, senza però che questo offra una soluzione narrativa allo spettatore. Il mo-
do in cui parlano gli esperti, pieni di forse e di ma, evidenziano come nel film si stia rintracciando la
storia di una persona mettendo insieme dei frammenti dei quali nessuno conosce la veridicità. Poco
importa se Luper esiste o meno, perché le vere protagoniste del film sono le valigie, che compaiono
a tutto schermo, ognuna con il suo contenuto opportunamente spiegato, visualizzato e catalogato.
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Gli uomini lasciano come orme di sé degli oggetti: rinchiudere dentro una valigia dei frammenti del
proprio io può significare molte cose: nascondersi nella complessità, proteggere ciò che ci è più ca-
ro, o semplicemente rinunciare ad avere un io per poterne adottare il più ampio numero possibile.
Tulse Luper compie quasi sempre una sola scelta: quella di essere prigioniero di qualcuno. Di cosa
o di chi è prigioniero Greenaway? Di Tulse Luper probabilmente, il suo alter ego. Per questo moti-
vo l’unica soluzione che rimane al regista è quella di aprire le scatole cinesi e mostrarle per quello
che appaiono.
Lars von Trier: Dogville (2003)
Il digitale agita in maniera esplicita lo spettro della memoria, di una storia in bilico tra rigore filolo-
gico e artificio simulato. Anche in questo aspetto, sembra che i registi che adottano il digitale siano
influenzati, volontariamente o meno, dall’estetica della videoarte: già nel 1986, Woody Vasulka ave-
va realizzato un video importante per questo tema, The Art of Memory, mentre Rybczyński aveva fat-
to un’incursione nella memoria storica cinematografica con Steps. Il digitale riprende e approfondi-
sce il tema, con le dovute differenze: esso, simulandolo, può dare corpo e superficie all’immagine,
non si accontenta dell’immaterialità dei fantasmi dell’elettronica: è in qualche modo più concreto;
ma la sua solidità si appoggia sulle fragili basi dei numeri, dei dati che compongono la sua immagine.
Può pretendere di essere verosimile nella superficie, ma svela comunque il suo essere virtuale, po-
tenziale, concreto all’apparenza ma mai finito nella sostanza. La temporaneità potenzialmente infi-
nita della memoria dei dati produce quel senso di vuoto temporale in cui le storie, o la Storia, oscil-
lano perennemente tra verità simulata e potenzialità al cambiamento, scaturendo come immagini
chiare circondate da un nero che può essere riempito o meno: quel buio che circonda i set di Gree-
naway, e quell’oscurità che circonda anche l’unico set del film di Lars von Trier, Dogville (2003).
La dichiarazione di finzione dello spazio nel film di von Trier è estrema, fino ad arrivare all’invisi-
bilità di oggetti che invece vengono usati nella scena e riconosciuti come realmente esistenti dagli
attori. Il set sembra un modellino a grandezza naturale di una scenografia ancora da finire. Su un’
enorme pedana nera sono indicati, con segni bianchi, i nomi delle vie e dei perimetri delle case, am-
bienti domestici aperti, senza tetto e senza pareti, arredati in maniera essenziale. In alcuni casi, ci so-
no solo le staccionate a simboleggiare l’ambiente. Le porte non esistono, anche se i p