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DON GIOVANNI O LA CRITICA DELLA RAGIONE COMICA di Patrick

Dandrey

La preferenza che oggi noi manifestiamo per questa opera di Moliere, sia a livello di teatro che di critica, è

in netta contraddizione con il trattamento che essa ricevette all’epoca in cui venne scritta e rappresentata

per la prima volta: Moliere si arrese alle censure poste e la abbandonò, nonostante il pubblico ne fosse

entusiasta. Noi oggi privilegiamo un’opera di Moliere il cui percorso di edizione è stato costellato da

ostacoli e che, unica fra tutte le commedie di 5 atti, lui non ha pubblicato => si tratta dell’unica commedia

di 5 atti di Moliere di cui non possediamo il testo originale (quella che noi oggi leggiamo è l’edizione che più

riteniamo avvicinarsi all’originale, messo in scena, una sola volta: 15 febbraio 1665).

 L’opera che privilegiamo è quella le cui linee di contorno più ci sfuggono.

Il testo è inoltre costellato da irregolarità e stranezze e probabilmente questo costituisce un altro elemento

di interessi che ci porta a dedicarci ad esso: si tratta di un testo in prosa, un argomento relativo al mondo

del sacro e del meraviglioso cristiano (anomalia per Moliere), accostamento dell’eroico e del burlesco, della

riflessione e dello scherzo (tragicommedia) => stile misto; la struttura è irregolare e caotica + le unità di

tempo, luogo ed azione sono violate.

Nel Don Giovanni non abbiamo l’evidenza del partito preso che troviamo nel “Tartufo”, ma nemmeno la

chiarezza delle questioni indagate, seppur problematiche, che troviamo nel “Misantropo”. In “Don

Giovanni” si aprono moltissime strade possibili. Nell’opera troviamo sviluppi metafisici, filosofici, simbolici e

psicomedici + il tema della creatura che si ribella al suo creatore (tema che sarà proprio del romanticismo).

Probabilmente questo polimorfismo e questa ampia scelta di interpretazioni e spunti del testo è voluta da

Moliere stesso che cerca di nascondere la propria polemica sotto uno strato caotico per sfuggire alla

censura ed alle critiche dei devoti.

L’infinito processo di rifacimento che l’opera subì a seguito della sua prima messa in scena ha fatto sì che,

all’interno dello stesso mito del Don Giovanni (di origine spagnola), si affermasse un mito dello stesso Don

Giovanni di Moliere.

Per quanto riguarda la forma del testo, un elemento che ritorna è quello dell’elogio paradossale: si tratta di

un espediente a cui Moliere ricorre più volte nel corso dell’opera e ciò determina il tono che essa assume e

le conferisce una piega ironica tutta sua che la distingue da qualsiasi altra opera di Moliere. L’elogio

paradossale ci permette di vedere il mondo con la vena insolente di Don Giovanni.

Così come la forma del testo è polivalente, lo è anche il significato: Moliere non è fedele all’univocità del

messaggio del Don Giovanni originario (miscredente/libertino che viene punito dal Cielo), ma stimola più

interpretazioni possibili delle vicende e dei ruoli dei personaggi, tanto che non è possibile arrivare ad

un'unica risposta in merito al contenuto dell’opera.

In tutto questo, però, non si può dire che Moliere abbia tradito completamente la tradizione, ma piuttosto

che l’abbia riportata al suo senso iniziale: da sempre il tema della statua miracolosa serve da espediente

per affrontare il rapporto fra devoti e miscredenti. Quello che cambia in Don Giovanni è il fatto che l’esito

di questo confronto viene lasciato in sospeso ed è lo spettatore a dare una propria interpretazione.

Il confronto fra l’opera che leggiamo oggi (che si presume vicinissima all’originale, se non l’originale stessa),

e il rifacimento di Corneille risulta estremamente interessante: capiamo che lo spessore filosofico e la verve

polemica (a livello morale) dell’opera sono il risultato della poetica di Moliere (della scelta della prosa, del

tono utilizzato, della presenza anche di scene blasfeme) => senza questa poetica il “Don Giovanni” non è

più quello che conosciamo. Grazie a questo confronto capiamo che, senza la pluralità delle interpretazioni

possibili che Moliere ha posto nel testo (anche attraverso la complessità della forma), noi spettatori non

saremmo chiamati a trovare un nostro filo conduttore, una nostra lettura delle vicende rappresentate.

L’ulteriore insegnamento che troviamo consiste nel fatto che la risposta fornita dallo spettatore non è

predeterminata nell’opera stessa che si limita a lasciarla sottintesa e a farla pronunciare allo spettatore:

spesso non riusciamo a riassumere tutto in un'unica interpretazione. L’assenza di una risposta certa, o

l’impossibilità di raggiungerla, non fa comunque cadere il lettore nello scetticismo più totale, ma piuttosto

lo porta a chiedersi se si sia posto le domande giuste.

IL MISANTROPO O LA CRITICA DEL “DEMI-HABILE” di Francesco

Fiorentino

- Nel seicento non si nutre grande simpatia nei confronti di chi vuole differenziarsi; la società tollera

la solitudine religiosa (vd es. comunità di Port - Royal), dal momento che non si trattava di vera

solitudine = si presuppone la comunione vivificante con il pensiero di Dio.

La solitudine laica viene invece condannata: si credeva, con Aristotele, che l’essere umano fosse un animale

sociale => la solitudine laica costituisce uno stato contro natura.

- Contraddizione principale presente nel “Misantropo”: i tratti positivi del personaggio di Alceste

vengono presentati in modo ridicolo e quindi divengono poco condivisibili.

- In termini moderni potremmo tradurre la definizione della sua malattia che dà titolo all’opera

(l’atrabiliare innamorato) parlando di un personaggio dal carattere narcisistico (Francesco Orlando

trova il modello psicologico di questo carattere proprio nell’”Introduzione al narcisismo” di Freud).

 Secondo questa lettura tutto quello che Alceste vuole fare è attrarre l’attenzione su di sé.

- Molti hanno collegato il personaggio di Alceste ad un momento difficile della vita di Moliere, in

particolare dal punto di vista matrimoniale; altri invece hanno collegato questo personaggio ad un

momento di crisi drammatica dell’autore (sconfitto nella battaglia per mettere in scena il “Tartufo”)

=> con quest’opera, e questo personaggio, Moliere sancirebbe il proprio distacco da una visione

ottimistica della sua epoca e dell’efficacia della sua arte.

- Nelle prime commedie di Moliere il riso era alleato dell’ordine sociale e puniva il personaggio che lo

trasgrediva (coprendolo di ridicolo); qui invece il riso non ha più questa funzione = qui serve a

mostrare quanto sia ridicolo pretendere di riformare i costumi (cosa che la stessa commedia

faceva) => nel “Misantropo” avremmo la contestazione stessa del comico.

- L’intera opera ruota attorno alla seguente questione: da quale pdv si devono giudicare i personaggi.

Già nella prima scena (con il dialogo fra Alceste e Filinte) ci vengono date due risposte possibili che

influenzano poi il nostro modo di interpretare l’intera opera: da un lato le maniere stabilite dalla

società hanno solo un valore di scambio e quindi non sono personalizzate (Filinte), dall’altro le

buone maniere godono di un valore d’uso e sono quindi personalizzate (Alceste).

 Alceste nutre il bisogno di interrompere la catena sociale per riconoscervi qualche vantaggio.

Per Alceste il commercio sociale manca di autenticità.

- Da un lato la denuncia di Alceste è fondata (la corte è un covo di vipere), dall’altro è la sua

esagerazione a rendere ridicola questa denuncia nei confronti delle forme dell’urbanità.

- Si cita un passo di Vaumoniere in cui emergono gli stessi due punti di vista che abbiamo nella prima

scena del “Misantropo”: se sospinti dalla coerenza dobbiamo constatare che le forme di cortesia

non corrispondono alla sostanza dei rapporti (Alceste), ma, se ci poniamo al di sopra dell’individuo,

ci accorgiamo che un costume assunto da un’intera nazione risulta necessario come se fosse

naturale (Filinte).

- Si cita un passo di Pascal in cui si afferma che il popolo (non intelligente) onora qualcosa perché si

convince che abbia carattere assoluto; quelli che lui definisce “semi-intelligenti”, invece,

disprezzano ciò che il sistema impone perché lo ritengono arbitrario e non conforme alla legge

naturale. Gli intelligenti, in quest’ottica sono coloro che onorano quanto stabilito dal sistema, non

perché, come il popolo, credano che abbia carattere assoluto (che di fatto non ha), ma perché ne

riconoscono la necessità nell’interesse sovra individuale di cui sanno assumere la prospettiva.

 In quest’ottica Alceste è un semi-intelligente, mentre ad essere intelligente è Filinte.

- Alla base dei diversi atteggiamenti di Alceste e Filinte abbiamo due modi diversi di intendere la

natura umana: Filinte rivendica la necessità dell’opacità in quanto sa che la natura umana è

corrotta (la assimila a quella animale) e che in essa alberga una forte aggressività nei confronti del

prossimo, aggressività che deve essere repressa attraverso l’introiezione di regole di convivenza

sociale; Alceste invece vorrebbe trasparenza in quanto è convinto che la sincerità riveli una natura

buona dell’uomo. In realtà, volendo la trasparenza e quindi rifiutando le regole, Alceste si mostra

aggressivo => fa parte dei semi-intelligenti perché è aggressivo senza saperlo.

- Il misantropo è, oltre ad un nemico dell’umanità, anche un nemico della città e della corte: egli

prova disagio per gli spazi aperti, quelli chiunque può sopraggiungere => il misantropo ha bisogno

di isolamento per affermare la propria tirannia.

- Anche nella conclusione, così come nella prima scena, ci vengono presentati due punti di vista: la

fine dell’amore è imputabile a Selimene che non ha seguito Alceste in campagna o ad Alceste che

ha esposto alla donna amata una pretesa assurda?

- Nell’occasione dell’ultimo confronto, Selimene si mostra un ottima avvocata di se stessa: non fa

riferimento ad istanze morali che le impedirebbero di seguire Aleste (sarebbe ipocrita da parte

sua), ma si appella alla natura (non è naturale, a 20 anni, ritirarsi dal mondo e dalla vita) => si

appella alla natura perché si tratta di un argomento infallibile ed incontrovertibile.

LA LEZIONE DEL “MISANTROPO” (

di Patrick Dandrey)

- Da Rousseau in poi la questione circa la lezione morale che troveremmo nel “Misantropo” gira

intorno al confronto i

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Publisher
A.A. 2016-2017
27 pagine
6 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-LIN/03 Letteratura francese

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher GiuliaS95 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura francese e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Preda Alessandra.