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CAPITOLO TRE : GENERAZIONI DEL TRAUMA
Ricostruire il presente tramite il passato e viceversa.
Abraham e Torok parlano di fantasma transgenerazionale (sindrome del sopravvissuto) che talvolta
si nasconde nei recessi della memoria familiare che continua ad avere una presa inconscia sulle vite
delle generazioni successive.
Per “fantasma” intendono un segreto familiare passato da una generazione all’altra e parlano
inoltre di “rimozione conservativa” che viene usata per proteggere il soggetto dal trauma.
Il lavoro psicoanalitico sulla trasmissione da generazione in generazione del trauma è basato su casi
singoli piuttosto che su dati sulle caratteristiche di trasmissione.
Gli aspetti intergenerazionali della trasmissione del disturbo post-traumatico da stress sono stati
studiati analizzando le riverberazioni psicologiche sui figli dei sopravvissuti, con effetti dovuti alla
vulnerabilità genetica.
Diverse ricerche affermano che una storia traumatica (disastri naturali, incidenti) non ha
necessariamente un impatto sull’attaccamento della madre verso il feto, mentre il trauma
interpersonale (violenze) sembra avere un effetto negativo sull’attaccamento prenatale.
In un altro studio qualitativo un’investigazione preliminare sulla trasmissione venne condotta su tre
generazioni focalizzandosi su tre traumi della prima generazione: il primo includeva la Shoah, il
secondo l’essere condotti in un campo di profughi al fine di emigrare in Marocco, il terzo il doversi
spostare a causa della guerra.
L’analisi del contenuto ha mostrato la trasmissione intergenerazionale dei tre traumi.
Robert J. Lifton e lo stigma di morte del sopravvissuto.
Llifton ha lavorato con sopravvissuti della guerra del Vietnam e delle bombe di Hiroshima e
Nagasaki. Cinque sono le tematiche psicologiche che caratterizzano il sopravvissuto:
- Lo stigma della morte.
- Il senso di colpa per essere vivi.
- L’ottundimento affettivo e psichico.
- I conflitti relazionali e mancanza di fiducia.
- Problematiche sul significato dell’esistenza.
Lo stigma della morte implica l’intrusione di un’immagine di minaccia alla vita o fine della vita.
Il secondo tema (la colpa di essere vivi) riguarda la particolare incapacità dei sopravvissuti di
elaborare il lutto; Lifton parla di “angoscia di morte” e angoscia associata con gli equivalenti della
morte, quindi la disintegrazione del sé .
Il terzo tratto è l’ottundimento psichico e affettivo che implica la diminuita capacità di sentire, fino
alla forma estrema e la chiusura psichica.
E’ come se il sopravvissuto si sottoponesse a una morte simbolica per evitare quella fisica o
psichica.
Il quarto tema riguarda la capacità di intimità e di fiducia verso gli altri.
Neiderland, Krystal e la sindrome del sopravvissuto.
L’adattamento apparentemente sano alla vita quotidiana viene spesso effettuato a prezzo della
repressione massiccia e della denegazione del periodo traumatico.
Adriana Cupelli S.T.P Uniurb
Niederland indicò come sintomi ricorrenti l’ansia, stati depressivi cronici, disturbi cognitiva,
tendenza all’isolamento e al ritiro psichico, disturbi psicosomatici, fatica, pesantezza, disturbi del
sonno, incubi, etc.
Stern parlò addirittura di “reazione catatonoide” che consiste nella paralisi di ogni iniziativa,
seguita da vari gradi di immobilità fino all’obbedienza automatica (il “musulmano”).
Contemporaneamente si instaura un processo di obnubilamento (numbing), per il quale tutte le
risposte affettive e relative al dolore vengono bloccate conducendo anestesia affettiva e chiusura
psichica.
Vecchiaia e sopravvivenza.
Nella psicoterapia con gli anziani sopravvissuti, incapacità al gioco, masochismo e colpa sembrano
spesso presenti.
La vecchiaia impone la necessità che uno o accetti se stesso e il proprio passato o continui a
rifiutarlo con rabbia.
La scelta è tra l’integrazione del passato o la disperazione; per raggiungere integrità ognuno deve
accettare il proprio ciclo di vita e le persone che sono diventate significative in esso come qualcosa
che non si poteva evitare.
Vittime e persecutori.
Chi è stato vittima di genocidio, tortura e altre violenze estreme corre il rischio di avere una
rappresentazione del Sé polarizzato nelle categorie di vittima e persecutore.
La dissociazione, il diniego e la frammentazione costituiscono le difese più comuni nei casi di grave
traumatizzazione.
La disperazione rappresenta un elemento di predisposizione a una malattia fisica, per
l’abbassamento delle risposte immunitarie.
Per ridurre depressione e colpa sono necessarie autointegrazione attraverso il lutto e riduzione delle
attese narcisistiche del sé, insieme all’accettazione di ciò che è accaduto.
Per i sopravvissuti, invece, spesso è ancora grande la vergogna per non aver lottato abbastanza.
La vergogna del sopravvissuto.
Molti sopravvissuti della Shoah indicano umiliazione e vergogna come sentimenti predominanti.
L’esperienza estrema porta con sé questa sensazione di vergogna e disumanizzazione, qualcosa di
impossibile da rendere in parole, perchè la parola appartiene a un livello che va al di là
dell’animalità e della crudeltà.
La combinazione della disumanizzazione e della colpa per essere vivi rimane probabilmente il
motivo principale per il suicidio commesso dopo la fine della guerra, insieme al vivere la
paradossale condizione del sopravvissuto.
Suicidio après coup.
Mentre il suicidio era quasi sconosciuto a Autschwitz, casi di suicidio divennero molto frequenti
dopo.
Il suicidio, dunque, è possibile solo in un ambito morale, ancora umano, ed è profondamente legato
al significato dell’esistenza e alla possibilità di riflettere su questo significato e di agire
autonomamente.
E’ solo a posteriori che i sintomi esplodono o che il sopravvissuto si uccide.
Non è solo la colpa di essere vivi, è la sensazione di non poter più appartenere alla razza umana o a
un’esistenza razionale.
I sopravvissuti vivono in perpetuo esilio, e la morte è la patria da cui sono stati sradicati.
Adriana Cupelli S.T.P Uniurb
Judith Kestengberg e la “trasposizione” tra le generazioni.
Quando i sopravvissuti erano stati perseguitati da bambini o adolescenti, era probabile che
ripetessero queste esperienze in momenti critici della crescita dei loro figli; i sopravvissuti
tendevano a identificarsi o con i genitori che li avevano abbandonati, abbandonando così essi stessi
i propri figli, oppure coi persecutori, che erano diventati le autorità che prendevano il posto dei
propri genitori uccisi e degradati.
Kestengber parla di trasposizione tra una generazione e l’altra, un modo per vivere
simultaneamente il passato e il presente dei genitori, sesso attraverso un’identificazione con un
tratto particolare o un’esperienza fondamentale del genitore.
Grubbich-Simitis: la seconda generazione e il trauma cumulativo.
Grubbich-Simitis ritiene che la traumatizzazione della seconda generazione sia dovuta al “trauma
cumulativo”, cioè all’insensibilità cronica della madre verso il bambino.
La madre traumatizzata non può servire da “scudo protettivo” contro gli stimoli interni ed esterni
del bambino quando questi ne ha bisogno.
Data quindi l’incapacità d’empatia della madre, sarà il bambino a cercare di empatizzare con lei,
con notevole stress psichico e fisico per lui, che porta a uno sviluppo prematuro.
Per di più, i genitori a volte profondamente inibiti nella loro elaborazione dell’aggressività possono
all’opposto non saper imporre i limiti e la disciplina essenziali alla formazione della struttura
psichica.
Disturbi dell’evoluzione pregenitale e della patologia del carattere sono rilevati da molti.
Laub e Auerhahn: “riverberi del genocidio” sulle generazioni successive.
I due studiosi vedono un principio inconscio di organizzazione per le future generazioni.
Tra i temi che indicano ci sono:
- Paura della perdita dell’integrità corporea.
- Patologia del super-io.
- Relazioni instabili o deboli.
- Il mondo esterno viene sentito come instabile.
- Visione della generazione dei genitori come danneggiata.
- Inibizione della fantasia.
Il trauma che non può essere ne pienamente detto ne totalmente ricordato dalla prima generazione
forma il mondo psichico della seconda generazione.
Ricerche sulle dinamiche familiari.
Nei campi abuso, tortura e maltrattamento sofferti in presenza dei genitori impotenti vengono sentiti
dai figli come se il persecutore nazista avesse preso il posto della figura paterna.
Questo fa sì che talvolta il sopravvissuto veda nel figlio una reincarnazione di quegli oppressori.
Un altro tema ricorrente è quello “messianico”, dove il bambino è chiamato a giustificare la sua
esistenza con il diventare un bambino dai risultati straordinari; allo stesso tempo, la sensazione di
inadeguatezza e svalutazione che i genitori hanno sofferto viene trasmessa al bambino.
E’ come se i genitori avessero trasmesso ai figli un complesso di sopravvivenza.
Silenzio, metafore e linguaggio concreto-corporeo.
Il significato del silenzio è stato spesso studiato come veicolo di materiale inconscio.
I figli si trovano a reagire inconsapevolmente a uno scenario che è parte della storia familiare senza
avervi mai preso parte e senza averne diretta conoscenza.
Uno dei compiti che rimane ai figli dei sopravvissuti è tentare una resa simbolica delle esperienze
Adriana Cupelli S.T.P Uniurb
dei loro genitori.
L’uso del linguaggio rimane per definizione lo strumento più importante in psicoterapia nonostante
l’enfasi posta sul linguaggio non verbale.
Una caratteristica che Grubrich-Simitis rileva ampiamente nel lavoro con figli di sopravvissuti è ciò
che lei chiama “concretismo”, una peculiarità del linguaggio di questi pazienti.
Questo linguaggio avrebbe una qualità fissa, che all’inizio può sembrare quasi psicotica a causa di
una certa mancanza di uso della fantasia e dell’aspetto concreto di ciò che descrivono.
Il concretismo sembra dunque essere una conseguenza dello specifico danno all’Io in sopravvissuti
di prima generazione estremamente traumatizzati.
Le condizioni atroci dei campi hanno danneggiato la capacità dell’Io di agire simbolicamente e
metaforicamente e la conseguente capacità di strutturare il tempo in passato, presente e futuro.
Lo scopo con questi pazienti, è di andare dal concretismo al funzionamento metaforico.
La traumatizzazione vicaria: ilany kogan.
Spesso la sofferenza dei gen