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Il gusto tra piacere e dispiacere
«De gustibus non est disputandum»: gusti e disgusti tra natura e cultura. Viaggiando per il mondo, specialmente nei luoghi più esotici, ci si può imbattere in ‘stranezze culinarie’, cibi sconosciuti e distanti dalla propria cultura alimentare, considerati da altri vere prelibatezze. Ciò ci fa riflettere sui condizionamenti culturali e biologici che contribuiscono alla formazione delle nostre preferenze e delle nostre avversioni alimentari.
Se il piacere di mangiare è un tratto universale comune a tutta la nostra specie, le motivazioni che ci inducono ad assumere i cibi e l’appagamento che traiamo da essi oltrepassano il bisogno di nutrimento (fatta eccezione per i casi di fame estrema). Esse sono dettate da numerosi criteri: primo tra tutti, il piacere sensoriale (che è anche estetico e intellettuale), acceso dal grado di desiderabilità sociale e culturale di un cibo (ossia dal posto che
riveste entro il codice alimentare di un determinato gruppo sociale); altre ragioni sono quelle di ordine ambientale ed economico legate anche alla geografia di un popolo e alle possibilità che essa offre. La nostra cultura di appartenenza, il luogo in cui siamo nati e cresciuti, stabilisce per noi anche quali sostanze possiamo considerare cibi a tutti gli effetti, alimenti buoni da mangiare, e quali invece alimenti vietati o considerati disgustosi sebbene ciascun individuo vi si adatti in modi variabili in relazione alle sue esperienze personali: così si spiegano i gusti e i disgusti da un gruppo sociale all'altro e da un individuo all'altro. Proprio perché culturalmente e socialmente determinati, gusti e disgusti sono destinati a mutare nel tempo, anche in relazione alle esperienze alimentari di benessere o malessere che facciamo nella nostra vita: fare un'esperienza positiva di certi sapori sin da piccoli consente di sviluppare la preferenza per quel
determinato cibo, anche quando il suo odore può risultare non troppo gradevole; viceversa, un'esperienza negativa precoce può trasformarsi in un disgusto permanente.
Se è vero che il modo di pensare al cibo e il godimento che ne traiamo sono mediati dalla società, dall'ambiente in cui si vive e dalle esperienze che facciamo nel corso della vita, è altrettanto vero che non è solo la cultura a decidere ciò che gradiamo o non gradiamo. Degli studi attestano che alcuni gusti nascono con noi, sono cioè geneticamente determinati: si tratta dei "sapori di base" o "elementari" la cui preferenza si è rivelata essenziale per la sopravvivenza della nostra specie: un esempio è la predilezione innata per il gusto dolce e l'avversione per l'amaro e l'acido, comuni a tutti gli esseri umani e ai mammiferi in generale - osservabile già dalla mimica facciale di gradimento o
disgusto dei feti e dei neonati a contatto con questi gusti. Si tratta, appunto, di gusti riconducibili a una strategia evolutiva: l'assunzione di energia nel caso delle sostanze dolci, e il rifiuto di cibi potenzialmente tossici nel caso di sostanze amare o acide. Anche il gradimento del gusto salato, assente alla nascita ma già evidente nei primi mesi di vita, è una preferenza universale finalizzata al mantenimento del nostro equilibrio metabolico: una dieta povera di sodio e sali minerali ci condurrebbe infatti alla morte. Oltre a ciò, zuccheri, grassi e sale riscuotono un consenso universale perché rendono i cibi più appetitosi esaltandone i sapori. Nel corso del nostro sviluppo, tuttavia, gusti spiacevoli come l'amaro o il piccante si tramutano in alcuni casi in fonte di piacere, al punto da farci apprezzare il sapore del caffè amaro, del cioccolato puro, delle cime di rapa, del peperoncino, della senape: gusti incisivi e pungenti cheprocurano un piacere "trigeminale", poiché vanno a stimolare le diramazioni del nervo trigemino disseminate nella mucosa della bocca e del naso. Si può dire quindi che la caratteristica più spiccata delle preferenze alimentari umane è la plasticità. Le ricerche condotte da Linda Bartoshuk una decina d'anni fa dimostrerebbero l'esistenza di 3 gruppi di individui, dotati di differenti capacità di percezione delle qualità gustative basilari, in relazione al diverso numero dei recettori gustativi: - tasters (i gustatori medi o normali): molto più sensibili dei non-gustatori ma molto meno dei super-gustatori, rappresentano all'incirca il 50% della popolazione; - nontasters (i non-gustatori): hanno un numero di recettori inferiore alla media, quindi sono meno sensibili ai gusti piccanti, amari o acidi: provano piacere a mangiare questo tipo di cibi, con una preferenza per quelli più grassi, e tollerano bene ilbruciore e il calore dell'alcol; supertasters- i (i super-gustatori): mostrano una sensibilità spiccata, e perciò un'insofferenza, per il gusto amaro, per l'acido e per il piccante dovuta alla presenza di un maggior numero di calici gustativi rispetto alla media; percepiscono inoltre il gusto dolce con maggiore intensità. Questi soggetti non consumano mai cibi piccanti o irritanti, non tollerano gli alcolici e sono spesso ipersensibili alle bollicine dell'acqua frizzante. Tra i super-gustatori si contano più donne che uomini e ciò spiegherebbe, in parte, perché alcune ricerche sulla diversa sensibilità gustativa tra uomini e donne hanno rivelato che, già prima della pubertà, le bambine mostrano una preferenza per cibi dal gusto più delicato (come frutta e verdura) mentre i maschi sono maggiormente attratti da sapori più decisi e cibi più proteici (come la carne). Paul Rozin (1999) ha indicatoInoltre, due atteggiamenti contrapposti, caratteristici di noi onnivori, che ci guidano al consumo del cibo:
- La neofilia, il bisogno-desiderio di novità e varietà
- La neofobia, la prudenza nei confronti di ciò che è nuovo e potenzialmente pericoloso
Sta proprio qui il "paradosso dell'onnivoro": l'atto di mangiare è fonte di piacere ma anche di preoccupazione poiché siamo costantemente in bilico tra la dipendenza dalla varietà, cioè la necessità di assaggiare nuovi cibi per scoprire nuovi nutrienti, e l'ansia connessa al rischio di intossicazione. Da qui la definizione di "mangiatori angosciati".
La grande varietà alimentare a cui abbiamo accesso, lasciandoci grande libertà di scelta rispetto a organismi programmati geneticamente per nutrirsi di un solo cibo (ad esempio il koala che si nutre solo delle foglie di alcune specie di eucalipto), ci offre maggiori opportunità.
disopravvivenza favorendo l'adattabilità in ambienti molto diversi: la ricerca del cibo è quindi una pratica cognitivamente onerosa per il nostro cervello e i nostri dispositivi sensoriali, ma ci garantisce un'esistenza meno precaria. Il timore di assaggiare un cibo sconosciuto è legato non solo a preoccupazioni per la nostra salute ma anche al fatto che possa non piacerci: l'atteggiamento neofobico, che frena il nostro impulso verso nuovi sapori, presente già nei bambini di 3-4 anni, tende a regredire nel corso dello sviluppo ma ne rimangono dei residui soprattutto verso quei cibi, di provenienza animale, che possono deteriorarsi o contaminarsi (carni inusuali, pesce crudo, ostriche ecc.). Il dispiacere che proviamo al solo pensiero di mangiare cibi per noi inediti o poco invitanti, ma anche per gli escrementi, per la carne umana e per quella putrefatta, o per un disgusto: cibo associato ad un'esperienza negativa, prende il nomediun'emozione primaria comune a tutti gli umani, espressa attraverso una particolare mimica facciale considerata una forma di comunicazione a tutti gli effetti perché riconosciuta sul volto dell'altro a prescindere dalla cultura di appartenenza. I meccanismi del disgusto sono complessi e dipendono da una molteplicità di fattori: sebbene alcune sostanze risultino universalmente ripugnanti, gran parte di ciò che un individuo reputa disgustoso è determinato dalla personalità etnica e dalle esperienze individuali. Le avversioni alimentari più comuni e durature sono quelle connesse all'indigestione causata da un cibo e l'associazione tra il consumo di un cibo e una malattia concomitante. Il piacere che ci dà una pietanza dal sapore buono varia proporzionalmente in relazione alle nostre necessità fisiologiche: è più intenso quando siamo affamati e diminuisce quando siamo sazi, al punto da rendere spesso quellaStessa pietanza fastidiosa alla vista. MichelalliestesiaCabanac (1971) descrive per la prima volta il fenomeno dell'che dimostra come il desiderio e il piacere di gustare un cibo si riducono con il suo consumo effettivo; questo piacere diminuisce però solo nei confronti del cibo che abbiamo consumato, mantenendosi invece vivo per altre tipologie: questo spiega perché riusciamo a gustare un dessert dopo un pranzo ricco e appetitoso. Il bello dei dolci è proprio che non li mangiamo per placare la fame ma per il piacere aggiuntivo che sanno darci.
A spingerci ad appagare il piacere legato al profumo o alla vista di un alimento sarebbe il "cervello goloso", che avrebbe la sua centralina nell'ipotalamo nell'amigdalae (regioni del cervello di intersezione tra il sistema affettivo-sensoriale e quello del fabbisogno); un ruolo importante giro del cingolo, inoltre avrebbe il un anello di corteccia, collocato sopra le fibre che connettono i due emisferi cerebrali.
attivato in presenza distimoli emotivamente importanti (preferenze alimentari o desiderio di cibo). La ricerca neuroscientifica ha individuato anche l'area cerebrale dell'insula, del disgusto: si tratterebbe una regione che è parte integrante della corteccia gustativa primaria. Provare disgusto in prima persona e percepire visivamente quello altrui hanno nell'insula la stessa base cerebrale: una sorta di dispositivo cerebrale specchio che ci fa rivivere interiormente le emozioni altrui.
Dai piaceri del palato ai piaceri dell'eros. Già a livello lessicale possiamo notare che il cibo e l'eros sono due fonti di piacere consumare indissolubilmente connesse: il verbo si riferisce sia al matrimonio si al pasto perché in molte lingue lo stesso termine indica comertanto l'atto sessuale quanto l'atto di mangiare (ad esempio per i appetito brasiliani); anche il termine