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CONFIGURAZIONE DEL PROBLEMA
Se il cristianesimo vuole contribuire per un mondo migliore, dovrà attivare una prassi migliore: non
cercare la verità come teoria, ma produrla come realtà. Si pone, allora, il problema delle possibilità
e dei limiti della ragione riguardo alla fede.
PRIME CONTROISTANZE
La grandezza di una cultura si misura non solo dalla sua capacità di comunicare, di dare e di
prendere ma anche di ricevere, di trarre e assimilare come proprio. Questo significa che il
cristianesimo può aver attinto i suoi principi da altre civiltà, ma ciò che lo rende proprio e originale
è il significato universale che essi hanno assunto nella forma spirituale della specificità cristiana.
Tale universalità consiste nell’unità inscindibile di fede e di vita: la scelta di Dio è sempre una scelta
vitale.
TRE ESEMPI DEL RECIPROCO RAPPORTO TRA FEDE ED ETHOS
a) Il Decalogo
Nel Decalogo che nelle sue formulazioni centrali non si discosta dagli elenchi egizi come dai
rituali babilonesi, Dio si presenta al popolo per mostrargli Chi è Colui con il quale Israele ha
stretto l’alleanza. Da qui lo stesso concetto di “santo” ha subito un’evoluzione: se nella storia
delle religioni il “santo” è l’essere totalmente altro della divinità, nel Decalogo l’essere
totalmente altro di Jahvè costituisce la sua santità, cioè la grandezza morale del
comportamento etico dell’uomo secondo il Decalogo.
b) Il nome “cristiano”
Il termine “cristiano” fu inizialmente usato per indicare i fedeli della comunità di Antiochia. Per
il diritto romano i “cristiani” sono gli aderenti alla comunità dei cospiratori di Cristo, per questo
autori di crimini e passibili di pena. Già con Ignazio di Antiochia la parola viene utilizzata con
l’orgoglio di chi si sente degno di autodefinirsi credente in Cristo. Questo si spiega alla luce
della teologia del martirio fatta propria da Ignazio: la comunione con Cristo implica una pena
che permette di partecipare alla sua morte come se la parola “cristiano” racchiuda la
dimensione del martirio: i fedeli in Gesù Cristo non si limitano a riprendere da Gesù una teoria
ma ne condividono la scelta di vita e di morte. Il cristianesimo assume i caratteri di un’
”ortoprassi”: la condivisione di uno stile di vita. Ignazio riprende, inoltre, il vocabolo greco
chrestos che significa buono ritenendo che sarebbe stato mutato in christos che per Romani
era divenuto sinonimo di cospiratore; da qui il cristianesimo è una cospirazione volta al bene.
c) L’esortazione apostolica
La stretta connessione tra fede e “imitazione” è connotazione della predicazione di San Paolo:
“… Avete appreso da noi come comportarvi”(Prima Lettera ai Tessalonicesi): la fede cristiana
decide in conformità alla tradizione veterotestamentaria e in concreto agli insegnamenti di
Gesù Cristo. Per Paolo la coscienza e la ragione non sono grandezze variabili che oggi dicono
una cosa e domani ne affermano un’altra.
FEDE-MORALE-MAGISTERO
Con riferimento all’esortazione apostolica, ci si introduce al tema del Magistero cioè
all’insegnamento che l’Apostolo indirizza alle comunità cristiane non nella forma del
rimprovero o dello sprone. Egli preferisce la modalità dei consigli paterni all’interno della
famiglia cristiana; è il richiamo della pietà di Dio stesso. Diventa invito alla docilità, alla
pazienza, alla verità, alla serenità, alla gioia: atteggiamenti che manifestano il comandamento
dell’amore.
La specificità del cristianesimo consiste nell’unione dell’ortodossia (fede cristiana) con
l’ortoprassi (la prassi della fede): la prassi della fede dipende dalla verità di fede e si oppone a
una fede che prima crea fatti per poi produrre la verità. La fede, inoltre, è convinta che la
ragione sia capace di verità. Il compito del Magistero consiste, allora, nell’evitare l’abbandono
della ragione al tempo e il farsi sopraffare dall’onnipotenza della prassi; evitare, inoltre, di
confondere ciò che è veramente ragionevole con ciò che è ragionevole in apparenza.
3. IL COMPITO DEL VESCOVO E DEL TEOLOGO INNANZI AI PROBLEMI DEL NOSTRO TEMPO
L’umanità di oggi corre il rischio di distruggersi dall’interno a causa della sua disgregazione morale.
Essa è più preoccupata dei pericoli esterni e non si accorge del processo di deterioramento
interiore. L’altra difficoltà attuale è il disequilibrio tra il progresso tecnico e lo sviluppo della morale.
Cosa può fare la Chiesa per ristabilire l’equilibrio tra tecnica e morale, come può trasmettere nuova
forza morale?
I – LE QUATTRO FONTI DELLA CONOSCENZA MORALE E I RELATIVI PROBLEMI
1. Riduzione all’ “oggettività”
Caratteristica della società moderna è la specializzazione o separazione dei saperi. Esistono
degli specialisti di morale? L’affermarsi delle tecniche ha determinato la tendenza a ridurre
tutto a quantità e misura. Si tende a calcolare il comportamento, a costruire una nuova morale
sulla statistica e la pianificazione. Chi determina i fini, chi pianifica?
2. La soggettività e la coscienza
E’ dato calcolare il mondo perché ridotto ad “oggetto”; di fronte a questo “oggettivo” che è
l’ambito della scienza, rimane il “soggettivo”: il mondo della libertà, del non calcolabile. Lo
spazio della religione e della morale in questo mondo appartiene alla dimensione del
“soggettivo”. La stessa coscienza appare come soggettività elevata a criterio ultimo, fonte di
capacità di giudizio morale (discerne il bene dal male).
3. La volontà di Dio e la sua Rivelazione
La storia della morale è legata alla storia dell’idea di Dio, alla sua Rivelazione.
4. La comunità come fonte di morale
Il termine “morale” assume un duplice significato derivatole dal latino mores: costume,
consuetudine e stile di vita, da un lato, ordinamento morale, dall’altro. La morale non è un
insieme astratto di norme comportamentali e, nella storia, non è mai stato ricondotto alla
dimensione della “soggettività”, ma è sempre stata garantita dalla comunità. Ogni morale ha
bisogno di un Noi che non si esprime in un calcolo del momento ma ha bisogno della saggezza
delle generazioni. Quando nuovi campi di conoscenze irrompono nella comunità e non si riesce
ad affrontarli, allora la moralità entra in crisi. Per fronteggiare questa crisi non bastano
l’esperienza e la consuetudine. E’ necessario richiamarsi all’assolutezza della volontà divina.
Solo la Rivelazione è in grado di offrire la conoscenza morale che guida la volontà umana e
supera le singole società naturali. Alla luce di questo, il vescovo è il massimo garante
dell’insegnamento della morale e della fede. In sintesi: la morale non può essere oggettivata
ma ha a che fare con l’oggettività di un agire calato nella realtà; le fonti della morale sono
quattro: 1. la realtà e la ragione che spiega questa realtà, 2. la coscienza, 3. la saggezza della
tradizione (il Noi della comunità che agisce), 4. la volontà di Dio con l’uomo e per l’uomo.
II – DUE PROBLEMI CAPITALI: COSCIENZA E OGGETTIVITA’
Prima obiezione: alla Chiesa viene rimproverato di non reagire adeguatamente alla realtà
contemporanea, di essere legata a vecchie idee e di non comprendere il linguaggio della realtà.
Questo genera il conflitto tra il vescovo e lo specialista, tra una dottrina lontana dalla realtà e
l’esatta conoscenza della realtà presente.
Seconda obiezione: la coscienza dei cristiani non è facilmente in armonia con i dettati del
Magistero ecclesiastico.
1. Che cos’è e come parla la coscienza?
Tre possibili risposte: 1. la coscienza esprime il diritto alla soggettività (ma un diritto
assoluto alla soggettività non può essere fondato); 2. la coscienza è la voce di Dio in noi (ma
Dio dice cose opposte a uomini diversi?); 3. la coscienza è il “Super-Io”, la volontà impressa
in noi da chi ci ha plasmato (la coscienza sarebbe allora schiavitù interiorizzata). Dunque?
La coscienza è un organo (Robert Spaemann), appartiene al nostro essere e necessita di
sviluppo, formazione ed esercizio. La coscienza può essere paragonata alla lingua: parliamo
la lingua che ci hanno insegnato. L’uomo è un essere che parla, la lingua gli appartiene, ma
si esprime solo imparando il linguaggio dagli altri. Allo stesso modo, l’uomo possiede di per
sé la coscienza, ma per esprimere la capacità di distinguere il bene dal male, ha bisogno
degli altri. Il silenzio della coscienza può portare a una malattia pericolosa; il pericolo più
grave è non riconoscere i peccati. Chi non coscienza potrebbe fare tutto. Il diritto alla
coscienza implica il dovere di prendersene cura. Di qui la responsabilità del Magistero alla
formazione di una retta coscienza. Tale formazione avviene in un dialogo continuo tra la
coscienza e la parola del Magistero.
2. La natura, la ragione e l’oggettività
Per molti cristiani la parola del Magistero pecca di inadeguatezza e di ragionevolezza. Il
messaggio cristiano viene dai più considerato antiquato. La cultura moderna ha segnato il
dualismo tra “oggettivo”(quantificabile, misurabile e necessario) e il “soggettivo”(libero e
non oggettivabile). La realtà, in quanto oggettiva, sembra non avere più niente di morale da
dire. Al contrario, il cristianesimo che in principio era il Logos e che l’essere stesso incarni il
Logos, quindi non solo la ragione matematica ma anche quella etica e morale. La Chiesa ha
il compito di tutelare il linguaggio dell’essere in quanto morale anche perché tale linguaggio
è il linguaggio della coscienza stessa. Senza Dio non c’è morale, senza morale non ci può
essere l’uomo. La morale non richiede l’esperto ma il testimone.
III – APPLICAZIONI
1. Il vescovo come maestro di morale
a. Il vescovo è testimone della tradizione morale della fede; per testimoniare questa
tradizione la deve conoscere innanzitutto.
b. Tale tradizione proviene dalla coscienza e parla alla coscienza. Il vescovo dev’essere
un uomo dalla coscienza che vede e ascolta e testimone di quanto ha accolto.
c. Egli deve mantenere vivi il dialogo con gli esperti che si impegna