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Ad incoraggiare questo senso di appartenenza è il continuo esercizio della creatività in

un ambiente di lavoro progettato ad hoc dall’architetto e paesaggista americano Peter

Bohlin, che, di nuovo, richiama il modello universitario. I circa 6 ettari e mezzo di

terreno in cui dal 2002 si colloca a Emeryville, la sede della Pixar è in effetti un vero e

proprio campus, ma anche una seconda casa per i dipendenti. La struttura dell'edificio

principale in cui si svolgono le attività lavorative dello studio è quella di una sorta di

hangar per aeroplani in acciaio e muratura con il tetto in metallo curvato e l'enorme

atrio open space pensato come piazza in cui fare incontrare i membri. La parte

edificata si integra con una concezione paesaggistica all'avanguardia caratterizzata

dalla presenza di luoghi concepiti per camminare, sedersi, parlare o consumare il

pranzo all'aperto, e comprendente un anfiteatro da 600 posti, 2 ristoranti, un campo

da calcio, una palestra, una piscina, un orto botanico. La sensazione di libertà e

naturalezza che si respira alla Pixar è pertanto essa stessa il prodotto di un’oculata

invenzione, quella appunto di una struttura chiusa che simula una spazialità infinita. In

questo modo si ha sempre questa tendenza a evocare un modello scientifico e

militare, richiamando un laboratorio in cui si lavora al potenziamento delle proprie

armi segrete, ma dall'altra parte abbiamo anche quindi questa azienda che tratta i

suoi dipendenti come figli a cui mette a disposizione un piacevole ambiente di lavoro,

friendly e aperta al continuo scambio di competenze ed idee.

- Estetica, tecnologia, ideologia

1. “Better than real”

In un solo decennio, tra il 1995 e il 2005, sia tra l'uscita di Toy Story e

l'ultimo anno in cui la Pixar mantiene lo status di società indipendente prima

dell'acquisizione da parte della Disney, i prodotti della partnership tra i due studi

generano più di 3 miliardi di dollari al box office mondiale. Tra le ragioni di questo

successo c'è quella che Jay David Bolter e Richard Grusin definiscono la “rimediazione

all'indietro” operata dal cinema d'animazione computerizzato, cioè quel processo

secondo cui un nuovo medium rimodella, rilegge, riformula un medium precedente

che nella fattispecie è rappresentato dal cinema hollywoodiano classico. Ciò che si

impone immediatamente all'attenzione di pubblico e critica è la curatissima veste

estetica delle nuove immagini che l'opera (Toy Story) del 1995 suggella come un vero

e proprio standard da cui ogni film creato digitalmente non potrà più prescindere. Per i

padri della Pixar l'idea di base è quella di applicare i principi dell'animazione

tradizionale all’animazione computerizzata 3D. Secondo loro tale regola può essere

applicata anche al campo delle nuove immagini, di fronte alle quali la meraviglia e lo

stupore del pubblico devono procedere sempre di pari passo con il realismo dello

spettacolo offerto. Questo significa costruire una narrazione forte, robusta, controllata

In ogni dettaglio e soprattutto delineare con la massima precisione ed efficacia

l'orizzonte visuale in cui essa dovrà calarsi. Il fotorealismo costituisce in tal senso un

principio fondamentale nella sua qualità di falsificazione informatica non già della

realtà, ma del modo in cui l'occhio umano è stato abituato a riconoscerla e persino a

pensarla da quasi due secoli a questa parte. Lo studio quindi cerca di far passare per

reale l'immagine fotografica con una simulazione del vero. E questo è il bagaglio

culturale che questi uomini di animazione digitale utilizzano per spingersi verso una

dimensione estetica più reale del reale, ossia ad un iperrealismo assoluto e

incontaminato. Essi utilizzano questo software di renderizzazione per configurare una

caricatura di quella stessa realtà collocata a metà strada, secondo la tradizione

Disney, tra naturalismo e illusionismo. Ciò è evidente già dal primo Toy Story, nel

quale gli autori hanno accuratamente progettato gli interni e gli accessori della casa

con elementi dal mondo reale e accentuandone alcuni tratti all'interno della realtà

intensificata dell'animazione. Allo stesso modo per quanto riguarda la morfologia dei

personaggi, la Pixar continua tutto oggi a rispettare la regola dell'amplificazione di

alcuni tratti, come ad esempio gli occhi che devono risultare più grandi del normale

per creare empatia soprattutto nei più piccoli, senza però arrivare a quella

deformazione ai limiti del grottesco ricorrente nell'estetica dei nuovi studi di

animazione contemporanei. Ciò che insomma rende l'estetica della Pixar così unica è

proprio la convergenza di impossibilità e verosomiglianza in un contesto totalmente

integrato che produce una specifica sensazione di magia, rendendo il ricorso al

realismo subordinato al richiamo e alla provocazione dell'immaginazione. I realismo

secondario o di secondo grado che contraddistingue l'estetica della Pixar rappresenta

quindi l'unione dei codici del cinema dal vero con quelli del cartone al fine di

raccontare nel modo più efficace possibile il lato emotivo della realtà, ecco perché la

costruzione visiva delle immagini dei cortometraggi animati si muove come se si

avesse a che fare con una macchina da presa reale, una cinepresa che rispetti le

esigenze narrative, che si limiti al massimo all’esibizionismo dei punti di vista

impossibili e che si comporti costantemente come se fosse un dispositivo reale. In

molti casi si ricreano fedelmente singoli punti di vista, movimenti di macchina presenti

in particolari sequenze di film in live-action dove si addirittura arriva a ribattezzare la

cinepresa virtuale con i nomi dei registi presi a modello. Un esempio si ha nel primo

Toy Story, con il caso della “Branagh-cam”, responsabile del movimento circolare della

cinepresa virtuale intorno al pupazzo cowboy, nel momento della caduta della finestra

dell'amico Buzz Lightyear: ritroviamo questo movimento di macchina particolare infatti

nel film uscito l'anno prima di Kenneth Branagh, “Frankenstein di Mary Shelley”.

Troviamo quindi il volere di questo nuovo regime tecnologico della retorica del “Better

than real”, che è associata tradizionalmente all'estetica Disney e prodotta da quel

sottile quanto precario equilibrio tra reale e meraviglioso.

2. Umano, troppo umano, perturbante

Nei film della Pixar l'impianto estetico si fonda sulla messa a punto di

una serie di codici che determinano nello spettatore una sensazione di confidenza, ma

anche un sottile dubbio o sospetto nei confronti di quanto vede. Già a partire dai primi

cortometraggi, nell'universo estetico della compagnia californiana si impone in

maniera crescente una condizione di incertezza che deriva dal particolare statuto delle

immagini, poiché non si capiva se fossero cartoni animati, animazione tridimensionale

(pupazzi), live-action o forse una combinazione di tutti e tre. In più di un film si

penserà proprio al cinema a pupazzi animati, portando ad evidenziare come le nuove

immagini, anche se lavorate al computer, facessero comunque affidamento alla realtà,

poiché infatti per passare dall'ideazione su carta al computer c'è bisogno di un

modello reale tridimensionale dal quale potersi ispirare. In altri termini, a monte di

ciascun personaggio digitale si colloca una sua matrice reale rappresentata da un

modello in argilla che viene scansionato e trasposto nel mondo del computer. In

questo modo gli animatori, faranno dei veri e propri burattinai, dovranno animare e

conferire vita a questo pupazzo. L'equilibrio tra immagini digitali e immagini così

familiari e simili a quelle di esseri umani, porta a quella sensazione di perturbante di

inquietudine e repulsione. Infatti, spesso e volentieri ci troviamo esposti a un effetto

perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa sottile, quando appare

realmente ai nostri occhi un qualcosa che fino a un momento precedente avevamo

considerato fantastico. Infatti, bisogna cercare di non oltrepassare questo confine

labile, l'aspetto delle animazioni non dovrà risultare troppo umano, poiché la

familiarizzazione del pubblico altrimenti risulterà negativa. Ben consapevole di tale

legge, prima di affidare nei suoi lungometraggi ruoli da protagonisti ad esseri umani,

la Pixar percorre a un lungo tragitto fatto di ricerca e test mirati proprio a trovare il

giusto mezzo collocato ai bordi di questo confine sottile. Infatti, nelle prime

rappresentazioni e nei primi cortometraggi, come ad esempio in Toy Story e A Bug's

life, le figure umane faticano di fatto a ritagliarsi un dignitoso spazio, sono ancora delle

comparse, configurazioni grafiche tendenzialmente vuote che lasciano lo spazio di

“umano” ad altre creature organiche, come le formiche, o inorganiche come i

giocattoli. È con Gli Incredibili che questa tendenza viene ribaltata, anche se i

personaggi che ne sono protagonisti, dato che hanno dei superpoteri non dovrebbero

essere considerati veri e propri essere umani. La fumettizzazione dei tratti resta la

strada più sicura per la resa visiva di queste figure al centro di una vicenda dagli

evidenti intenti eroici nei confronti del genere di spionaggio e supereroico. I

personaggi degli Incredibili fondano i propri superpoteri su doti di plasticità fisica che a

loro volta rimandano ad alcuni archetipi familiari; infatti il vigore fisico del padre deve

simboleggiare la solidità del capofamiglia, la flessibilità della moglie evoca il

multiforme ruolo cui viene chiamata la donna nella società moderna, quanto ai figli

abbiamo la classica teenager insicura sempre sulle difensive che ha come capacità

quella di diventare invisibile, il fratello più piccolo trasla nel suo superpotere che lo

rende ultraveloce l’ipercinetismo tipico di tanti bambini della sua età e infine il bebè

ha ancora un potenziale irrealizzato come tutti i neonati. In Up gli umani tornano

protagonisti spogliandosi però di qualsiasi superpotere e acquisendo anzi le fattezze di

coloro che per definizione rappresentano nella società gli esseri più deboli. Anche in

questo caso la cartoonizzazione delle forme è in totale antitesi a qualsiasi tentazione

iperrealista, l'intento dell'ideatore è quello di presentare una caricatura che

nuovamente si faccia carico di veicolare i tratti distintivi dei singoli personaggi. Il volto

del protagonista appare fortemente squadrato, un po' come lo sono tutti gli oggetti

che lo circondano, a simboleggiare l'evidente spigolosità della sua indole; il giovane

Dettagli
A.A. 2018-2019
29 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher cecconimarta96 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Tecnologie del cinema e dell'audiovisivo e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi Roma Tre o del prof Uva Christian.