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Capitolo 1: Valori musicali
Uno spot televisivo
Spot Prudential fine 1992 si può pensare alla pubblicità televisiva come a una
sperimentazione di massa sul significato della musica: i pubblicitari usano la musica
per trasmettere significati per i quali ci vorrebbero troppe parole o per i quali le parole
non risulterebbero convincenti. Il senso dello spot emerge da questo stridente
accostamento tra musica che si vede e quella che si sente: il rock indica gioventù,
libertà, spontaneità, autenticità; la musica classica, per contrasto, evoca maturità ed
esigenza di assumersi delle responsabilità familiari e sociali. Attraverso la musica, lo
spot realizza una specie di trucco da prestigiatore, combinando entrambi gli insiemi di
valori e trasmettendo così il messaggio dell’inserzionista a una fetta di società che ci si
aspetterebbe impermeabile ad esso. Quello che si vuole evidenziare non è tanto il
modo in cui questo particolare spot usa questa particolare musica per trasmettere
valori e significati, ma piuttosto ciò che, nella musica, fa sì che possa essere usata in
questo modo – il che equivale a dire: ciò che fa sì che della musica ci importi in un
certo modo.
Si potrebbe definire la musica come un insieme di suoni generati dall’uomo, che siano
piacevoli da ascoltare e che siano tali in sé e non semplicemente per il messaggio che
trasmettono, tuttavia lo spot di Prudential rende manifesto in quale misura la musica
sia qualcosa di più di qualcosa di piacevole da ascoltare. Sentire uno o due secondi di
musica, in uno spot, è sufficiente per sapere di che tipo di musica si tratti, a quale
genere sia riferibile, che tipo di associazioni o connotazioni comporti (naturalmente,
ciò richiede quel tipo di familiarità che deriva dall’essere cresciuti in una particolare
cultura). Dal momento che la musica e le sue associazioni variano sostanzialmente da
luogo a luogo, essa funziona come simbolo di identità nazionale e regionale. Oggi la
società urbana, occidentale o occidentalizzata, è frammentata in una quantità di
sottoculture distinte, anche se sovrapposte, ciascuna con un’identità musicale propria.
Nel mondo d’oggi, decidere che musica ascoltare è una parte significativa del decidere
e manifestare alla gente non solo chi si “vuole essere”, ma chi si è.
Quando parliamo di “musica” siamo facilmente portati a credere che c’è qualcosa che
corrisponde a quella parola, ma quando parliamo di musica parliamo davvero di una
molteplicità di attività ed esperienza: è il solo fatto che chiamiamo tutte “musica” a far
sembrare ovvio che abbiano a che fare l’una con l’altra.
Autenticità in musica
Lo spot Prudential era tutto imperniato sull’autenticità, ecco perché è basato sulla
musica rock, dal momento che l’idea di un’autenticità è profondamente radicata nel
nostro modo di pensare al rock. I blues erano visti come l’autentica espressione di una
razza oppressa, una musica che veniva dal cuore (o dall’anima, il successivo soul). Ma
che certa musica sia naturale e altra invece artificiale è un’idea vecchia (Jean-Jacques
Rousseau). Suonare con il cuore, in maniera naturale: la musica vera, non l’esercizio di
un artificio (salta fuori che la musica vera è sorprendentemente simile al blues). A
fronte di questi presupposti è ovvio che la letteratura critica sulla popular music si
concentri prevalentemente sulle sue qualità viscerali e contro-culturali, minimizzando i
debiti nei confronti della tradizione d’arte classica. Ma l’idea di autenticità, nella
musica pop, non è imperniata solo sulla contrapposizione con la musica d’”arte”. Ha
invece un aspetto esplicitamente etico che deriva in larga misura dalla
commercializzazione del blues, negli anni Cinquanta o Sessanta. Erano gli anni in cui,
per la priva volta, case discografiche e compagnie radiofoniche americane
cominciavano a intravedere i potenziali orizzonti di mercato che poteva avere la
musica nera presso il pubblico bianco. Tuttavia, invece di commercializzare
direttamente le incisioni degli artisti neri, ne fecero re-incidere le canzoni da musicisti
bianchi. Il rock ‘n’ roll fu in effetti la versione bianca del rhythm ‘n’ blues (si pensi al
“re del rock” Elvis Presley). Realizzando delle “cover”, le case discografiche e le
compagnie radiofoniche evitavano di pagare i diritti d’autore agli artisti originali. Ma
quando il movimento per i diritti civili dei neri prese slancio, nacque uno scandalo e
l’idea delle versioni “cover” divenne, in blocco, disonorevole. Il risultato fu che lo
sviluppo del rock e in particolare del rock progressivo si associò strettamente all’idea
che ci fosse qualcosa di disonesto nell’eseguire musica che non fosse propria: dalle
band ci si aspettava che si scrivessero da sé la propria musica e che sviluppassero un
proprio stile. E soprattutto ci si aspettava che le band si formassero spontaneamente,
anziché essere messe insieme dagli impresari dell’industria del disco. E lo stesso
sistema di valori rimane oggi sostanzialmente intatto. I critici della musica pop
generalmente ignorano i gruppi “look-alike”, il cui obiettivo è imitare l’aspetto e il
sound delle grandi band del passato, più che sviluppare uno stile proprio. I musicisti
rock sottolineano la differenza tra loro e i musicisti pop: i primi suonano dal vivo,
creano la loro musica e modellano la loro identità, hanno il controllo del proprio
destino; i secondi, invece, sono marionette manovrate dall’industria della musica
discografica, che si arruffianano cinicamente o ingenuamente i gusti del pubblico ed
eseguono musica composta e arrangiata da altri; mancano di autenticità e perciò
vanno messi all’ultimo gradino della gerarchia della musica. Vista in un altro modo, la
gerarchia musicale pone i creatori della musica al di sopra di chi ha un mero ruolo di
riproduttore: in altre parole, gli esecutori. Tardi anni Ottanta e primi anni Novanta si
dimostrò che band del rock creavano nuovi stili e nuove composizioni proprie: la
musica rifletteva questa visione, non i gusti del pubblico o la richiesta dell’industria; le
band erano veri e propri autori (cosa non del tutto vera, il legame con l’industria
discografica era molto stretto). La difficoltà di sostenere una contrapposizione tra
“autentica” musica rock e “inautentica” musica pop risulta significativa, poiché
dimostra che i critici hanno costruito questa contrapposizione deliberatamente, non in
base alle circostanze. Prima di trattare cosa ha motivato questo atteggiamento nei
confronti della musica pop, è utile pensare a quanto la musica classica si incentri
sull’idea del “grande” musicista, definito come un artista la cui abilità tecnica è data
per scontata, ma la cui arte sta nella personale visione che lui è in grado di elaborare:
vendendo questi artisti, le case discografiche sono impegnate soprattutto in una
promozione d’immagine. Così, ciò che vendono, è la concezione interpretativa
dell’esecutore eccezionale, carismatico: Beethoven interpretato da Pollini; Mahler
interpretato da Rattle. In altre parole, gli esecutori sono promossi come star, proprio
come nella musica pop. L’industria della musica classica promuove i grandi interpreti
nel loro ruolo di creatori o “autori”, più che come semplici riproduttori di musica. La
letteratura accademica sulla musica, quasi invariabilmente esalta gli innovatori, i
creatori di tradizioni, autori come Beethoven e Schoenberg, a spese degli assai più
conservatori musicisti che hanno scritto nei limiti di uno stile consolidato. Nella nostra
cultura, dunque, è attivo un sistema di valori che antepone l’innovazione alla
tradizione, la creazione alla riproduzione, l’espressione personale alle abitudini
correnti. In una parola, la musica dev’essere autentica, perché altrimenti sarebbe a
malapena musica.
Parole e musica
Il linguaggio, più che limitarsi a rifletterla, costituisce la realtà. Questo significa che i
linguaggi musicali che usiamo, le storie che raccontiamo sulla musica, aiutano a
determinare che cosa la musica è. Il nostro modo di pensare la musica influenza anche
il modo in cui facciamo musica e ciò che chiamiamo “tradizione”, tanto in musica
quanto in qualsiasi altro campo. Abbiamo ereditato dal passato un modo di pensare la
musica che non può rendere giustizia della molteplicità di prassi ed esperienze alle
quali questa piccola parola, “musica”, rimanda nel mondo d’oggi. Nell’800 la musica
veniva concepita come se fosse basata sulla produzione di composizioni destinate a
essere eseguite e infine fruite dal pubblico che le ascoltava. La cultura musicale, in
breve, era vista come un processo di creazione, distribuzione e consumo di quelli che,
intorno all’inizio del XIX secolo, cominciarono a essere definiti “lavori” musicali. Il
termine è significativo, poiché crea un diretto collegamento con il mondo
dell’economia. Il “lavoro” musicale diede una forma permanente alla musica. La
musica non fu più pensata come puramente evanescente, un’attività o esperienza che
sfuma nel passato non appena è finita. Questo perché, mentre le esecuzioni di lavori
musicali hanno luogo in un tempo definito, il lavoro, in quanto tale, resta.
Capitolo 2: Ritorno a Beethoven
Gioia attraverso la sofferenza
L’inizio del XIX secolo, nelle capitali dell’Europa settentrionale e centrale, è il periodo
nel quale il modello capitalista di produzione, distribuzione e consumo si radicò
profondamente nella società; per tutta l’Europa era in corso un processo di
urbanizzazione. Nelle arti, lo sviluppo più importante del periodo fu ciò che potrebbe
essere definito come la costruzione del soggettivismo borghese. Le arti esploravano ed
esaltavano il mondo interiore delle emozioni e dei sentimenti; la musica, in particolare,
voltò le spalle al mondo per consacrarsi all’espressione personale. Grazie alla sua
efficacia nel rappresentare emozioni e sentimenti in maniera diretta, la musica si trovò
a occupare una posizione privilegiata nell’ambito del Romanticismo. Il primo Ottocento
è stata l’epoca di Beethoven e di Rossini, ma è stata quella di Beethoven a
condizionare, da allora, la riflessione sulla musica. Il voltare le spalle al mondo può
essere rintracciato nel rifiuto da p