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GIULIANO VOLPE – PATRIMONIO AL FUTURO
Beni culturali al tempo della crisi
La crisi che Italia e mondo occidentale stanno vivendo non è solo economica, ma anche
strutturale. Investe i rapporti, lo sviluppo, i modi di vivere, l’organizzazione sociale e politica e i
valori e principi etnici. Ci troviamo in una fase di transizione che vede la destrutturazione di un
sistema. Che ruolo svolgono patrimonio culturale e paesaggio in tutto questo? Che contributo
possono svolgere, e quali saranno le professioni del futuro in quest’ambito? Come bisogna agire?
Servirebbe una alleanza di innovatori, un gruppo di persone con voglia di cambiare le cose e idee
concrete per portare questo a termine. E’ necessario far innamorare i cittadini del proprio
patrimonio culturale. Tuttavia gli specialisti del campo hanno sempre “diviso” (anche se
inconsapevolmente) cittadini e patrimonio. Questa è una sfida attuale: rendere i cittadini stessi
protagonisti dell’arricchimento e della trasmissione di quel patrimonio che hanno ereditato.
Da Franceschini a Franceschini
Nel brano tratto dalla relazione finale della Commissione Franceschini istituita 50 anni fa si
sottolinea con chiarezza come già allora si avvertisse il bisogno di una riforma in campo culturale.
Ancora oggi tuttavia si chiede soprattutto di aumentare le risorse e il personale (richiesta
giustissima, che però non tocca il cuore del problema.) E’ una concezione piuttosto semplicistica
che ritiene che con maggiori risorse tutto funzionerà a meraviglia. In realtà non è così, perché non
si affronta la questione dal punto di vista propriamente culturale, ma solo da quello amministrativo.
Dieci anni dopo la commissione franceschini (1974), Giovanni Spadolini istituisce il ministero per i
beni culturali e ambientali, azione a cui si arrivò dopo anni di riflessione; ma che comunque
incontrò forti critiche. Nel 1998 assunse la denominazione di ministero per i beni e le attività
culturali. Poi nel 2013 è divenuto Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. I continui
sconvolgimenti normativi e le frizioni tra rispettive competenze non hanno però intaccato la finalità
della tutela. La riorganizzazione di dario franceschini del 2014 è coraggiosa ma non priva di
problemi perché elaborata in poco tempo e sotto il controllo della spending review. C’è da dire però
che nelle intenzioni non è l’ennesima riorganizzazione amministrativa ma un progetto con obiettivi
concreti, come il riequilibrio tra tutela e valorizzazione, l’art bonus e il decreto musei.
Cinquant’anni dopo
La domanda da farsi è: a cinquant’anni dalla commissione franceschini e a 40 dall’istituzione del
ministero, è ancora possibile utilizzare gli stessi modelli organizzativi? Marco Cammelli ha
recentemente indicato le tre anomalie che nel tempo hanno caratterizzato il ministero: 1)
Organizzativa. Concentra nel suo cuore funzioni e compiti opposti che stridono; 2) Giuridica. Si è
ispirato più al sistema dell’Ancient Regime di concentrazione dei poteri che a quello di
Montesquieu sulla separazione dei poteri; 3) Incapacità di guardarsi come insieme. Quindi il limite
principale consiste proprio nell’aver provocato sempre più una separazione netta tra specialisti del
settore e comuni cittadini. Le soprintendenze sono state a lungo l’unico baluardo a difesa del
patrimonio culturale contro le speculazioni e l’insensibilità. Ma il loro ruolo è ormai obsoleto e
necessita di una profonda innovazione.
Dalla frammentazione alla visione globale
Cosa si intende per “innovazione” in quest’argomento? La prima innovazione dovrebbe riguardare
l’estensione dell’approccio globale anche al mondo della tutela, valorizzazione e fruizione del
patrimonio culturale. E’ errato continuare a proporre una visione del patrimonio “frammentaria”,
dettata da visioni accademico-antiquarie. Al contrario, si dovrebbe proporre una visione olistica del
patrimonio che consideri il paesaggio come filo comune e unificante. Andrebbe dunque affermata
una visione globale di tutela che tenga conto di tutte le componenti-paesaggio. Per cui sarebbe
necessario organizzare il ministero con strutture periferiche uniche a base territoriale, dotate di
competenze multidisciplinari e organizzate in equipe miste.
Monumenti, paesaggio, contesto, globalità: una rivoluzione metodologica
Tutte le scienze dei beni culturali hanno conosciuto un processo di rinnovamento, modificando i
loro metodi e obiettivi come conseguenza. Tuttavia ancora non è globalmente compreso che la
comprensione del passato necessita di un approccio globale e non settoriale (anche se il processo
è in fase di maturazione). Anche Gianpietro Brogiolo sottolinea l’importanza di passare ad una
archeologia dinamica per definire l’evoluzione degli ambienti socioculturali. Tuttavia la globalità non
va confusa con un insieme confusionario di discipline, ma come una globalità di approcci, tecniche
e sistemi. Nella prospettiva di una concezione globale è il paesaggio a rivestire un ruolo cardine,
non tanto per questioni estetiche, quanto per essere un complesso sistema di relazioni. Così
inteso il paesaggio emerge come punto di convergenza di percorsi di ricerca diversificati.
Superare le divisioni specialistiche
Come conciliare approccio globale e specializzazione settoriale? Ogni specialismo può esprimersi
al massimo potenziale solo con la consapevolezza della propria limitatezza sollecitando confronti e
dibattiti che coinvolgono sia saperi umanistici che tecnico-scientifici. Globalità diventa quindi la
continua ricerca di sapere attraverso interazioni, confronti, disciplina, lavoro in equipe e apertura
verso le nuove teorie. E’ anche la creatività una delle principali garanti dell’innovazione.
Conservatorismo, conformismo, rigidità, mancanza di coraggio sono invece deleteri per
l’innovazione. Per questo l’unico modo per percorrere nuove strade consiste nell’attività
sistematica e pluriennale di gruppi di lavoro o scuole nelle quali si insegni anche il dubbio, la
capacità di mettersi in gioco. Di tutto ciò c’è molto poco nell’organizzazione della tutela, a causa di
un grave ritardo culturale che solo oggi inizia pian piano a colmarsi.
La visione olistica entra nel linguaggio ministeriale
La riorganizzazione del MIBACT contiene novità interessanti. Si supera la tradizionale
frammentazione a livello sia centrale che periferico. Le soprintendenze ai beni architettonici e
paesaggistici e quelle ai beni storico-artistici si sono unificate (un bel passo in avanti, ma sarebbe
stato meglio se si fossero unificate anche quelle archeologiche). Non siamo ancora alle strutture
periferiche uniche a base territoriale, che sarebbero le più coerenti con l’idea organica di
patrimonio culturale e paesaggistico (oltre ad essere la soluzione più semplice), ma sembriamo
essere sulla buona strada per la costituzione di equipes con competenze multidisciplinari, come si
evince dall’istituzione della commissione regionale per il patrimonio culturale, che coordina l’attività
di tutela e valorizzazione del territorio regionale, favorisce l’integrazione multidisciplinare tra diversi
istituiti e garantisce una visione olistica del patrimonio culturale e paesaggistico. L’eliminazione
delle direzioni regionali e la loro trasformazione nei segretariati regionali sono i primi passi al
superamento delle sovrapposizioni di competenze e alla semplificazione della linea di comando tra
centro e periferia. Un’altra novità importante è rappresentata dalla creazione di poli museali
regionali accanto alla individuazione di 18 grandi musei sganciati dalle soprintendenze e diretti da
personale competente, selezionato con bandi internazionali. Si comincia così a costruire un
sistema museale nazionale articolato in grandi musei autonomi e poli regionali, dipendenti dalla
nuova direzione generale dei musei.
Un centro agile e forte, periferie interdisciplinari solide
Anche la pesante struttura si modifica: anche se aumentano il numero di direzioni generali, la
struttura dimagrisce nel numero di dirigenti, a vantaggio delle articolazioni periferiche. Non vi è
dubbio che una struttura centrale più snella sarebbe preferibile. Il centro dovrebbe essere agile,
ma non per questo meno autorevole. Tutto dipenderà da come verrà presentata la riforma e dai
suoi contenuti (si spera il più possibile culturali e non burocratici).
I Policlinici dei beni culturali e del paesaggio
Il 19 marzo 2015 è stato sottoscritto un accordo tra MIBACT e MIUR con intento di attivare
collaborazioni e scambi tra soprintendenze, università e CNR, cioè i cosiddetti “policlinici dei beni
culturali e del paesaggio”. Si tratterebbe di strutture pubbliche basate su collaborazioni tra docenti,
ricercatori, tecnici, funzionari, bilbioteche, ecc. Questa integrazione di competenze e
professionalità potrebbe garantire risultati positivi nella ricerca, nella tutela, nella comunicazione e
nella valorizzazione, a completo vantaggio degli studenti che si troverebbero a studiare e svolgere
tirocini non episodici in vista di un futuro impiego nel settore. Questa collaborazione sistematica
non deve però tramutarsi in un grande indistinto contenitore nel quale mescolare ruoli, funzioni,
responsabilità senza garantire un’effettiva dialettica. Tutto questo è attualmente un sogno, ma si
dovrebbe iniziare a sperimentare definendo meglio i parametri magari a livello regionale, visto che
alle regioni spetta la valorizzazione e che spesso sono dotate di risorse notevoli.
Una formazione da rivedere: lauree, specializzazioni, dottorati e scuola nazionale del
patrimonio
Una auspicabile collaborazione tra i 2 ministeri dovrebbe favorire una revisione della formazione
universitaria nel campo dei beni culturali, ponendo fine a percorsi formativi disomogenei, ripetitivi e
professionalità improbabili. Molti corsi di studio sui beni culturali hanno visto un crollo delle
iscrizioni, molti corsi chiuderanno a breve a causa della mancanza di reali prospettive lavorative.
Quello del lavoro è l’ambito a cui dedicare la massima attenzione. Intere generazioni di giovani
sono state condannate a esasperanti forme di precariato, seppure con formazione di altissimo
livello e spesso fuggono all’estero dove sono apprezzati o gettano la spugna dedicandosi ad altro.
Un vero spreco per un paese che ha investito risorse nella formazione di tali professionisti. Una
revisione totale è necessaria soprattutto nel terzo livello, cioè quello post lauream, dove c’è un
vero caos tra master, scuole di specializzazione e dottorati di ricerca ormai divenuti iper-generalisti