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CAPITOLO SESTO: IL NOVECENTISMO DEI PITTORI, DEGLI ARTISTI E DEGLI ARCHITETTI A TEATRO
All’inizio del pensare lo spazio del teatro nel Novecento c’è la rivoluzione ideologica e sistematica proposta dal
duo FuchsLittmann, da Appia e da Craig: i princìpi sono quelli della realtà della scena come materiale
generatore dello spazio teatrale, dello spazio come linguaggio espressivo dell’opera e quindi del regista. La
scena aperta porterà all’abolizione del sipario; il montaggio, la simultaneità, la pluralità dei luoghi nel tempo e
nello spazio si apriranno ad ogni forma possibile. Lo spazio non sarà più quello “reale” degli spettatori e quello
“finto” degli attori.
La scena delle avanguardie 13
Gran parte della storia dello spazio scenico nel XX secolo sono ricerche e sperimentazioni che cambiano il
teatro ed il suo spazio, ma sempre in situazioni marginali. Eppure queste sperimentazioni estreme di forme e
linguaggi hanno contribuito a creare il teatro come luogo del possibile. Il teatro delle “avanguardie storiche” se
non è stato una vera rivoluzione ha certamente contribuito a modificare e riformare i modi rappresentativi e la
cultura dello spazio teatrale.
I punti di partenza comuni sono il rifiuto di una scena che produce l’illusione della realtà fenomenica
(l’antinaturalismo), la volontà di non separare pubblico e scena, la scissione dramma e teatro, la liberazione
espressiva; ed anche l’esperienza del cabaret futurista dadaista ed espressionista.
Diffusa è la tecnica del montaggio, nell’interazione con la pittura e in quella più profonda con il cinema: così lo
spazio del teatro si cerca fuori dal teatro, anche se la tendenza prevalente è quella di rifondare la struttura e la
forma architettonica della sala sul modello della salaauditorio di Wagner. Questa fuga dagli edifici teatrali è
sostanziale perché non cerca tanto una forma quanto un senso ed un ambiente.
Le molte ricerche delle avanguardie europee hanno un evidente debito verso il primo Futurismo, di Marinetti e
soci, per la distruzione dello spaziotempo scenico, la tecnica della sorpresa, la rottura della scatola ottica e
l’abolizione della ribalta; ma soprarrutto per la proposta di uno spazio “attivo” (Teatro sintetico futurista, 1915).
Ma il ruolo delle arti figurative negli sperimentalismi scenici è già nel Simbolismo, anche se furono pochi i
pittori capaci di lavorare con lo spazio scenico e di non limitarsi a pensare il fondale come un grosso quadro (si
afferma la scena pittorica al teatro Paul Fort con i pittori Nabis (tra cui ToulouseLautrec); Edward Munch
lavora per Reinhardt. Eppure i pittori a teatro non incidono sullo spazio scenico di per sé, bensì per la scena
semplificata ed antinaturalistica che comportano: specie per la diversa coscienza di spazio e colore che
diffondono nella tela di fondo e nei costumi.
Il Futurismo vuole investire globalmente lo spazio del teatro, in senso eversivo: i manifesti si susseguono a
ripetizione (luce attiva e scena astratta, mito della macchina e del movimento, provocazione, scarto e
montaggio); il Cubofuturismo influenza la stagione complessa dell’avanguardia russa, con scene astratte e
simboliche, reali nel movimento degli attori, strutture a vista con differenti piani, scale, scivoli, torri e
piattaforme (in uno spazio praticabile e tridimensionale).
Il “montaggio” delle attrazioni di Ejzenstejn arriva a collocare lo spazio della scena negli spazi della realtà
(Maschere antigas viene addirittura allestito in un gasometro nel 1924); volumi praticabili, oggetti deformati e –
soprattutto – uno spazio che l’attore rende reale ed usa per evidenziare il ritmo dell’azione (ritmo che poi il
regista russo trasporterà anche nel cinema, raggiungendo il risultato perfetto con il suo “montaggio delle
attrazioni” nel film Sciopero del 1925).
La scena come elemento creativo del teatro è alla base anche di quegli scenografi dei primi anni Trenta che,
negli Stati Uniti, daranno vita alla New stagecraft, un movimento strettamente legato alle avanguardie europee
ma soprattutto ad Appia e Craig e al teatro di Stanislavskij, Reinhardt e Copeau.
I teatri d’arte, influenzati da Copeau, svilupperanno scene semplici e simboliche, specie quelle del Group
Theatre, intorno al quale si stringe la New Stagecraft con le opere di Norman Bel Geddes e di Lee Simonson.
Più che il movimento d’insieme, però, saranno i singoli artisti e le singole personalità a dare novità e
suggestioni
Il teatro degli architetti
Per le nuove scene occorrono nuovi teatri, ma l’edificio teatrale è una costruzione costosa e duratura: non è
certo possibile sperimentare nuove soluzioni in un così mastodontico lavoro. E’ questa una profonda
contraddizione che porterà alla separatezza tra i teatri degli architetti e quelli degli uomini di teatro. Negli anni
cinquanta del Novecento questa contraddizione arrivò a far pensare all’inutilità di costruire edifici teatrali; per il
costo, il riutilizzo di edifici esistenti, l’uso di spazi non destinati al teatro e – in special modo – il costante esodo
degli uomini di teatro.
Ci sono i vecchi teatri “all’italiana” e ci sono teatri nuovi, progettati per ospitare al meglio spettacoli (con
perfezionamenti della riforma wagneriana), con palcoscenici attrezzati e con una sala rivolta verso il
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palcoscenico stesso; questi sono i teatri più diffusi, sostanzialmente simili ed unificati sotto la dicitura
morfologica di “ teatri a proscenio”, data la frontalità salascena. Altra morfologia diffusa è quella del teatro
derivato da quello greco ed elisabettiano: non nel senso della ricostruzione storica, ma in quanto strutturato
sull’unico spazio che comprende sala e scena. Così la sala può essere rettangolare o ad anfiteatro, gli
spettatori a semicerchio, frontali, o su tre lati. E’ l’assenza dell’arcoscenio che caratterizza questa morfologia,
la cosiddetta “sala aperta”.
E ancora c’è il teatroarena, la sala organizzata con una zona centrale con il pubblico attorno; oppure la più
progettata che realizzata scena anulare, con la scena intorno agli spettatori posti al centro. O la soluzione
mista tra queste due. Non vanno tralasciati i teatri “totali”, trasformabili, adattabili, che possono divenire una
qualunque tipologia di teatro; ma ci sono anche i teatri mobili, che si possono spostare e quindi allestire
ovunque.
In pratica non esiste forma o spazio del teatro che il Novecento abbia tralasciato: il che rende difficile, per un
architetto, pensare il teatro. E non c’è neppure una reale successione cronologica di tali morfologie quanto
una loro compresenza o prevalenza.
Di fronte al teatro possibile
Le tipologie del teatro come edificio si consolidano solo nel secondo dopoguerra: ci sono teatri a scena
centrale, anulare, oppure sferici. Ma il problema più studiato ed indagato è quello relativo all’adattabilità e
flessibilità dello spazio: la sala riducibile con pareti e soffitto scorrevoli, gradinate rientranti per modificare lo
spazio, pavimenti elevabili a più livelli; oppure l’aggregazione in uno stesso complesso di più sale dalle
caratteristiche diverse.
Una variante è quella proposta dal riuso di spazi preesistenti, in cui l’architettura teatrale si innesta come
spazio interno: dal classico anfiteatro alla sala attrezzata, fino all’edificio nell’edificio. Lo spazio del teatro è un
problema aperto e discusso: quindi occorre ripercorrere la storia dello spazio teatrale del Novecento, lasciando
il teatro degli scenografi e degli architetti per seguire il lavoro degli uomini di teatro.
CAPITOLO SETTIMO: NEL NOVECENTO. IL TEATRO DEGLI UOMINI DI TEATRO
Nel Novecento lo spazio del teatro che si cerca serve quasi sempre al mercato del teatro: ancor di più che
problema “artistico”, lo spazio diviene problema di mercato. Le sale si vogliono più per ospitare spettacoli che
per veri e propri luoghi dell’arte del teatro.
Gli uomini di teatro, nel Novecento, non credono nella neutralità di uno spazio rispetto alla creazione artistica e
vogliono creare uno spazio nella consapevolezza che lo spazio dello spettacolo e lo spazio del teatro sono un
senso unico del teatro stesso.
La cultura teatrale del XX secolo ha una forte coerenza e unità nella ricerca e nella sperimentazione di un
teatro possibile e che abbia senso: si va dalla riforma dello spazio teatrale proposto da Wagner allo spazio
proposto da Appia in poi; lo spazio del teatro lo si vuole virtuale, non predeterminato, funzionale agli uomini di
teatro. Da questo punto di vista il teatro del Novecento ha nel teatro all’italiana la “tradizione non di ripetizione
ma del movimento creativo da cui è nata l’opera” (Copeau), con la differenza però di costituirsi specifico di
volta in volta, per un artista e non per una civiltà.
La scena espressiva cinetica: Mejerchol’d
Il lavoro di Mejerchol’d copre i primi quattro decenni del secolo XX: in Russia egli segue una sua profonda
coerenza nella ricerca di un teatro che sappia esprimere e promuovere una società diversa. Egli conosce
presto, e bene, il pensiero teatrale in voga in Europa, specie Appia, Craig e Fuchs.
Per Mejerchol’d non serve una riforma per trasformare l’edificio teatrale, ma una rivoluzione: per lui il teatro è
un tutto unico non divisibile in sala e scena, e che alcune convenzioni (sullo spazio e sulla funzionalità)
rendono il tutto meno accogliente per attori e spettatori; dichiara inoltre che si deve lottare contro la staticità
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dell’edificio teatrale a favore di un dinamismo organico, e presenta il progetto per il nuovo teatro: a pianta
ellittica, con un grande anfiteatro per il pubblico, una arena centrale ed una alla fine della U dell’anfiteatro, con
ampi spazi per i servizi.
Il pensiero di Mejerchol’d sullo spazio del teatro è globale. Una costante che si pone come elemento di
mediazione tre scena e platea, attore e scena, dramma e regia.
La rottura con il naturalismo lo porta ad indagare lo spazio del teatro come partitura visuale bidimensionale,
con l’attore in rilievo su sfondo pittorico.
Sperimenta anche con lo spazio (conosce Appia, Wagner, Craig, JaquesDalcroze, Reinhardt; studia il teatro
cinese, giapponese, dei Comici dell’Arte) e coniuga la scena in rilievo del duo FuchsLittmann alla piantazione
scenica praticabile di Appia (eliminando l’arcoscenio coprendolo con stoffe simili alle quinte).
Tutti gli spazi possibili: Reinhardt
Lo spazio come strumento di relazione attorespettatore, la scenografia come espressione drammatur