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ROMA SI ESPANDE
Dal III secolo a.C. i domini romani iniziano ad espandersi grandemente.
- Fine della Prima guerra punica: Roma controlla tutta la penisola italica e numerosi
territori del mondo mediterraneo. La Sicilia e la Sardegna (isole tolte ai cartaginesi),
la Spagna (anch'esso prima territorio cartaginese).
- Fine della Seconda guerra punica: con la Battaglia di Zama nel 202 a.C. la città di
Roma è la potenza egemone nel Mediterraneo occidentale.
- Nei cinquanta anni successivi si estende prima verso la Grecia e poi in Asia.
Questa rapida ed enorme dilatazione del dominio romano pone l'esigenza di
organizzare l'amministrazione di questi nuovi territori, di creare cioè degli organi
dello stato atti a governarli. Chiaramente la via che viene presa è diversa da quella
percorsa per l'amministrazione dell'Italia.
In Italia i romani non avevano seguito un metodo unitario: avevano seguito un
metodo volgarmente indicato con divide et impera : soluzioni differenziate con
l'unico scopo di evitare che tutti gli altri popoli si unissero contro Roma.
In alcuni casi i territori conquistati diventano territori romani. Le antiche città
• autonome esistenti in quei territori vengono trasformate in entità
amministrative che prendono il nome di municipia (munera capere = queste
entità erano tenute a pagare dei munera, delle tasse a Roma). Sono quindi
entità che perdono sovranità e riscuotono le tasse per conto dei romani.
Tutto questo assetto municipale viene alla fine disciplinato in maniera
unitaria da una legge di Giulio Cesare nel 45 a.C. che prende il nome di lex
iulia municipalis il cui testo ci è pervenuto per intero ed è conservato nelle
epigrafi presso il museo archeologico nazionale di Napoli.
In altri casi Roma lascia autonomia alle città conquistate e le lega a sè
• attraverso dei trattati internazionali che prendono il nome di fedus, al plurale
federa. I romani in questo senso distinguono tra:
- Federa equa: trattati nei quali – almeno a stare al trattato scritto – le parti,
Roma e l'altra città, sembrerebbero alla pari. La sovranità dell'altro stato
viene integralmente rispettata ma poi nei fatti i rapporti di forza sono a
favore di Roma, ormai stato egemone.
- Federa iniqua: formalmente viene rispettata la sovranità, ma nel trattato
sono previste delle limitazioni molto forti alla sovranità dell'altro stato.
I romani mettono in atto una progressiva e graduale politica di
• romanizzazione, che spesso viene portata avanti con uno strumento che è la
creazione di colonie abitate da cittadini romani, nei territori di recente
conquista, nei punti più strategici. Le colonie sono formalmente autonome
ma praticamente anch'esse dipendenti da Roma. Questo modello seguito per
l'Italia porterà, verso la fine della Repubblica, alla sua unificazione territoriale
e alla trasformazione dello stato romano in uno stato romano-italico.
Questo modello non può essere seguito per i nuovi territori in quanto essi hanno
una dimensione culturale totalmente diversa ma anche perchè sono percepiti come
stranieri, come non italici, che i romani vogliono sfruttare economicamente il più
possibile. In questi nuovi territori i romani inviano un governatore.
I primi due territori fuori dall'Italia che vengono trasformati in province sono la
Sicilia e la Sardegna. Vengono istituiti due nuovi pretori.
[ Ci sono quindi i due pretori (urbanus e peregrinus) della giurisdizione civile, ci sono
almeno altri quattro pretori per la giurisdizione penale, ci sono ora altri due pretori,
]
governatori di Sicilia e Sardegna.
Le province continuano ad aumentare: sorgono altre due province in Spagna, altre
in territorio africano tolto a Cartagine, altre in Oriente già nel II secolo. Siccome si
ritiene non possibile aumentare a dismisura il numero dei pretori, anche perchè essi
erano tutti magistrati eletti annualmente, si decide di affidare il governo delle
province agli ex consoli e agli ex pretori, ai quali viene prorogato l'imperium.
Nasce in questo modo una nuova magistratura che avrà una grande importanza
negli sviluppi successivi: nascono i proconsoli e i propretori, ovvero quei magistrati
che governano la provincia assumendo gli stessi poteri dei consoli e dei pretori.
A partire da questo momento, quando consoli e pretori terminano l'anno in carica
vengono inviati a governare ed amministrare una provincia con questi nuovi titoli.
Si inizia a distinguere tra province pretorie e province consolari.
II secolo a.C.
Inizia una fase storica all'interno della quale si manifestano i primi segni di crisi
dello stato repubblicano. Questa parabola discendente porterà – sul finire del I
secolo a.C. – alla fondazione del principato augusteo, un regime politico in cui le
libertà repubblicane, la libertà politica dei cives viene sostanzialmente cancellata.
Le istituzioni repubblicane riuscirono a garantire la massima libertà politica ai
cittadini. Non è un caso che alle istituzioni romane repubblicane rivolgeranno la loro
attenzione molti pensatori moderni, a cominciare da Montesquieu.
Allora perchè queste istituzioni repubblicane a un certo punto entrano in crisi??
1. Il primo fattore è sicuramente rappresentato dalla situazione geopolitica.
Roma nel corso del II secolo è diventata la potenza egemone in tutto il
Mediterraneo, un impero con tante province. La sua base territoriale si è
enormemente dilatata, e questo inizia a porre dei problemi rispetto a delle
istituzioni – quelle romano repubblicane – che erano state create per una struttura
statale che al massimo poteva avere le dimensioni dell'Italia.
Si crea un problema di rappresentanza politica. La soluzione che i romani elaborano
per il governo delle province (proconsoli e propretori) è una soluzione che a lungo
andare risulta sbagliata: proconsoli e propretori avevano poteri vastissimi, poteri
che a Roma e in Italia erano necessariamente suddivisi tra varie magistrature.
A Roma e in Italia vi era quindi un sistema di pesi e contrappesi, una sorta di
equilibrio, nelle province invece no.
Il Senato in genere invia nelle province dei delegati, una commissione di senatori
con il compito di controllare l'operato del governatore. È chiaro che si tratta di un
controllo spesso insufficiente che non riesce ad arginare quella che è in realtà una
concentrazione di poteri enorme. I governatori sono a capo di tutto il governo
provinciale: controllano l'amministrazione della giustizia – civile e penale – e
soprattutto comandano l'esercito. Progressivamente si trovano in una posizione di
crescente supremazia legata al comando delle legioni. Questa criticità si accentua
ulteriormente quando, alla fine del II secolo, Caio Mario riforma l'esercito
trasfomandolo da esercito di leva a esercito professionale, di mercenari. Tutto ciò
accentua lo scollamento tra cittadino e soldato, che sino a quel momento erano la
stessa cosa. Prima necessariamente prevaleva il senso dello stato, il senso della
fedeltà alla repubblica. Ora no: i mercenari sono più fedeli al comandante che allo
stato. La loro sorte dipende dalla sorte del comandante.
Cresce – all'inizio lentamente poi in modo sempre più evidente con i protagonisti
delle guerre civili, Lucio Cornelio Silla, Cesare Pompeo, Augusto – un potere
eversivo legato al ruolo crescente che gli eserciti professionali hanno all'interno
dello stato. A questo non vi è rimedio, in quanto gli eserciti sono indispensabili per
la politica imperialista di Roma.
2. L'altro fattore di crisi è legato alla trasformazione delle strutture economiche.
Tra il III e il II secolo le basi economiche romane mutano profondamente. I motivi
si riscontrano nello sviluppo del capitale commerciale e nella nascita di una
economia di tipo schiavistico. Fino a questo momento la presenza di schiavi era
ridotta, limitata, esigua. Con le guerre di conquista l'economia romana si trova a
disporre di una enorme quantità di forza lavoro servile. Questa manodopera servile
entra in concorrenza con il lavoro salariato. Questa invadenza determina la
formazione di un proletariato urbano – a Roma e nelle principali città dell'Impero –
che vive spesso nelle frumentationes, le distribuzioni gratuite di grano al popolo.
È una massa di persone sempre più facilmente manipolabile, sempre meno
attaccata ai destini dello stato repubblicano, sempre più preoccupata della
sopravvivenza giorno per giorno. Questo è particolarmente evidente se si considera
la situazione dal punto di vista dell'ager publicus: siamo in una fase in cui si creano
enormi latifondi coltivati da ingenti masse di schiavi. Scompare il ceto di piccoli
coltivatori ed agricoltori, quella plebe rurale che era stata una delle anime delle
riforme democratiche dello stato tra il IV e il III secolo, una delle colonne portanti
della repubblica. Ceto che pian piano si trasforma in proletariato urbano.
3. Infine questa è una epoca di grandi cambiamenti sociali, dal punto di vista della
civiltà, del modo di pensare, della stessa religiosità che entra in crisi. Questo è in
larga parte dovuto al fatto che la società romana entra in contatto profondo, si
avvia potremmo dire un processo di osmosi, con le grandi civiltà dell'Oriente, a
cominciare da quella greca. Tutto ciò mette in moto processi di radicale
trasformazione della società.
L'insieme di tutti questi fattori e cambiamenti determina una crescente
inadeguatezza delle istituzioni tradizionali, incapaci di fronteggiare le nuove sfide
che questi cambiamenti comportavano.
Ci saranno alcuni riformatori coraggiosi che cercheranno di porre rimedio.
Tra questi va anzitutto ricordata l'azione riformatrice di due politici appartenenti al
movimento dei populares: i fratelli Tiberio e Gaio Gracco.
I gracchi cercheranno di reagire ad una deriva, involuzione oligarchica. È questa la
logica che guida la loro azione politica e quindi le leggi che portano il loro nome.
Questi tentativi riformatori, per varie ragioni, non riusciranno ad impedire una crisi
che raggiunge la sua fase più acuta a partire dal secondo decennio del I secolo a.C.
caratterizzata dal fatto che la lotta politica degenererà nelle guerre civili.
Per spiegare l'azione politica di Tiberio e Gaio Gracco occorre fare un passo indietro.
L'economia di questo periodo è caratterizzata dall'accumulo delle terre, la
concentrazione della disponibilità degli agri nelle mani di pochi e dal fatto che
questi enormi possedimenti terrieri sono sfruttati e resi produttivi attraverso criteri
capitalistici, tesi alla massimizzazione del profitto.
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