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Egli ha costruito una storia delle logiche e dei meccanismi che presiedono alla
genesi del diritto.
L’architettura del libro si basa sull’idea del progresso. Da questa premessa
l’autore ha una visione pessimistica della storia umana distinguendo tra società
progressive e stazionarie.
Le società progressive erano quelle appartenenti al ceppo indoeuropeo mentre
la civiltà stazionaria per eccellenza era quella indù. Le altre società vengono
svalutate e una volta ricondotte all’interno della stazionarietà, l’autore se ne
disinteressa. Si può richiamare queste società solo per identificare quei fattori
di blocco intervenuti nella storia.
La posizione del giurista inglese non era univoca e lascia aperta la possibilità
che il processo di crescita delle società progressive fosse estendibile a tutte le
società.
Egli si rivolge ai poemi omerici per affermare che la sentenza (themistes cioè
pronuncia sovrana ispirata dalla divinità) anticipa la legge, escludendo pertanto
che il fondamento della legalità risiedesse nella consuetudine. Il superamento
di questo stadio primitivo sarebbe stato possibile grazie a un evento avvenuto
in poche società: la formazione di regole consuetudinarie sotto il controllo
dell’aristocrazia.
Oriente e occidente seguono cosi due percorsi diversi: alla preminenza di ceti
sacerdotali in oriente, si affaccia lo sviluppo delle aristocrazie, passate a
controllare la produzione consuetudinaria del diritto.
Il fattore di blocco precocemente intervenuto sarebbe la religione.
L’autore mette a fuoco successivamente tre caratteri potenzialmente involutivi:
la legislazione e l’analogia, la finzione legale e l’equità. Se la legislazione
interviene in tempo, la società si evolve abbandonando la consuetudine e una
possibile dilatazione eccessiva dell’azione (analogia). Se la finzione legale
interviene nel momento giusto, essa costituirà uno strumento evolutivo. Se
invece l’equità interviene troppo presto nella storia (come in Grecia), essa sarà
un fattore di blocco.
Insomma, per Maine, non sembra che i fattori storici abbiano un valore
univoco: la loro funzione negativa o positiva va correlata con il fattore tempo.
Nella prima parte, l’autore non fa uso di un vero e proprio sistema comparativo
tranne per i due fondamentali sistemi progressivi: il diritto romano e la
tradizione inglese. Egli tende a sottolineare debolezze più a svantaggio del
diritto inglese.
Nella seconda parte c’è un organico sistema comparativo, attraverso l’utilizzo
di uno strumentario utile per la ricostruzione delle origini del diritto (importanza
di codice di Manu).
Punto di partenza è di una diretta linea di sviluppo dal nucleo sociale
elementare, costituito dalla famiglia patriarcale, sino all’ordinamento statale.
La famiglia patriarcale costituirebbe l’embrione della società civile,
preesistendo agli inizi dell’esperienza giuridica. All’interno di questa sua
costruzione è possibile individuare un momento di passaggio da una fase
naturalistica, nella costruzione del gruppo sociale di base, ad un legame di tipo
convenzionale fondato su finzioni (adozione). La centralità delle strutture
patriarcali lo aiuta nella sua polemica anticontrattualista perché gli permette di
identificare la società primitiva non come un insieme di individui ma come
un’aggregazione di famiglie: l’unità della società antica era la famiglia.
L’evoluzione del sistema successorio, delle forme di proprietà, dei rapporti
contrattuali e del sistema di responsabilità penale prendono consistenza dal
punto di partenza unitario rappresentato dalla famiglia patriarcale delle origini.
I due capitoli dedicati alle forme di successione ereditaria servono a Maine per
dimostrare che il sistema testamentario è il risultato di un complesso processo
storico partito da premesse opposte.
La rilevanza, attribuita dai moderni, alla volontà del testatore non trova
corrispondenza nell’esperienza romana delle origini, il cui obiettivo era quello di
identificare un erede universale del defunto. Questo tipo di successione è
funzionale alla conservazione dell’unità familiare, per dichiarare chi avrebbe
assunto il comando della famiglia.
Il riferimento al mondo dei patriarchi indù induce a immaginare un sistema di
successione familiare, fondato sulla primogenitura, anteriore alle forme del
diritto romano arcaico basato sulla successione ab intestato. Nelle istituzioni
indù la famiglia patriarcale è un’entità politica e così il potere del pater si
trasferisce direttamente al primogenito: il potere patriarcale non è solo
domestico ma anche politico.
La proprietà, nelle fasi iniziali della storia umana è collettiva (spunto da società
indù). Da questa consapevolezza, egli immagina che i diversi tipi di comunità di
villaggio corrispondono ai diversi stadi di un processo di trasformazione
realizzatosi ovunque nella stessa maniera. Questo schema si applica sia alle
strutture familiari sia alla proprietà. Così come la famiglia in senso proprio
appare l’ultimo stadio evolutivo che inizia con il più ampio gruppo parentale di
tipo agnatizio, le quali una volta dissolte in famiglie separate vengono
soppiantate successivamente dall’individuo. A questi stadi sarebbe corrisposta
un’analoga modificazione nella natura della proprietà. La proprietà individuale
sarebbe così il risultato del progresso giuridico.
Il suo disegno si conclude con l’analisi degli effetti ultimi della progressiva
crescita d’importanza della volontà individuale. Essi hanno il punto di massima
nella storia delle obbligazioni. Alle origini la forza pervasiva del gruppo, che
assorbe l’individuo, è l’unica a definirne lo statuto. Nelle società primitive
l’uomo non ha la possibilità di porre in essere diritti e obblighi. Anche qui è da
immaginarsi un’evoluzione che passa per la distinzione tra atto traslativo e atto
costitutivo di obblighi per arrivare alla nozione di contratto.
Egli critica fortemente la fides intaccando un postulato delle teorie
contrattualiste: il rispetto degli obblighi assunti non costituisce un presupposto
per la formazione di una società organizzata. Essa stessa è parte di uno
sviluppo storico. Da ciò consegue la priorità delle forme di dipendenza fondate
su uno status giuridico rispetto al contratto (from status to contract). Egli cosi
aggrediva le teorie secondo cui il diritto aveva avuto origine dal contratto.
L’errore sarebbe stato ancora di proiettare verso le epoche antiche quella
preminenza del contratto riscontrabile nella modernità.
L’ultima categoria molto importante è quella dell’obbligo di risarcimento dei
danni arrecati da comportamenti illeciti: il sistema penale alle origini era molto
più sviluppato rispetto alla sfera civilistica causato dalla relativa povertà dei
rapporti privatistici.
Dopo la pubblicazione di “Ancient Law”, gli viene assegnato un importante
ruolo politico in India, dove è a diretto contatto con la realtà da lui spiegata
nelle sue teorie. Egli non generò grossi cambiamenti nell’amministrazione
indiana grazie al suo orientamento innovatore ma moderato. Sicuramente
riuscì più di alcuni suoi predecessori ad impostare una politica di rispetto verso
la colonia indiana: il rispetto della tradizione degli altri popoli era requisito
necessario per impostare una politica di successo. Fu un forte sostenitore della
codificazione indiana.
Pubblicò, dieci anni dopo “Ancient Law, “Village Communities” nel quale egli
andò oltre agli orizzonti tracciati dalla sua precedente opera: vediamo ora al
centro del suo interesse il possibile sviluppo di una società stazionaria come
quella indiana (la società per eccellenza stazionaria).
Il metodo comparativo viene affinato per cercare di reinterpretare le istituzioni
indiane secondo parametri conosciuti (formazione del sistema feudale
nell’Europa occidentale) ma soprattutto per cercare di cogliere la realtà indiana
nella sua dimensione dinamica. Con due risultati: il superamento di una
impossibile evoluzione della società indiana e la possibilità di gettare una
nuova e sorprendente luce sulla stessa storia europea.
Nella ricostruzione del processo formativo della società feudale individua due
fenomeni paralleli ma apparentemente contradditori: un sistema di
utilizzazione della terra di tipo comunitario, dall’altra l’affermazione di un
potere feudale. La più antica forma di comunità di villaggio non si dissolve con
l’affermarsi del potere feudale ma vive accanto a questa signoria. All’interno
del villaggio si formano potenziali squilibri che innescano il processo di
formazione della signoria fondiaria. Questo mutamento rappresenta un
progresso rispetto alla forma pura di comunità di villaggio dato che il rapporto
del signore feudale con la terra rappresenterebbe l’inizio di un’autonomia sulla
stessa. L’organizzazione feudale della terra si delinea come il necessario stadio
di passaggio dalle primitive forme comunitarie alla piena affermazione della
proprietà individuale.
Si conferma l’idea di un’evoluzione dalla preminenza del gruppo verso
l’autonomia individuale, facendo tramontare l’interpretazione della comunità
agraria medievale come fattore di progresso.
Essa è rafforzata dai riscontri presenti nella realtà indiana, ricavati grazie
all’utilizzo del metodo comparativo (presenza di potenziali linee di sviluppo):
all’interno del villaggio indiano vi è una stratificazione, con la conseguente
emersione di famiglie più autorevoli, che poteva favorirne la trasformazione in
una signoria fondiaria di tipo feudale.
Il governo inglese avrebbe quindi interrotto lo sviluppo giuridico indiano, il
quale poteva ripercorrere gli schemi evoluti della storia europea. Maine veniva
a concludere, con una dose di perplessità, che a questo punto sarebbe stato
meglio imporre una codificazione nuova non rispettando le tradizioni. Una
questione, forse, senza soluzione.
In seguito alle critiche di McLennan, egli sembra perseguire l’obiettivo di
ridimensionare la portata dei suoi schemi (sempre basati sul modello
patriarcale) restringendo la sua delimitazione al solo mondo indoeuropeo.
Secondo questa sua linea difensiva, le comparazioni da lui effettuate sarebbero
state sempre circoscritte a tale ambito, non elevandosi mai ad enunciazioni
generali in