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QUAESTIONES DE FACTO EMERGENTES E IUS MOLENDINORUM
• Le quaestiones sono uno strumento didattico utilizzato a partire dal 1100: il docente poneva una quaestio agli studenti
i quali dovevano trovare la solutio cercando gli argomenti adatti all’interno della compilazione. Dapprima ebbero
rilievo solo nell’ambito della didattica, nella forma di quaestiones legittime, c.d. perché derivate dalla legge e quindi,
riguardando una fattispecie precisamente contemplata in essa, di più semplice risoluzione. Verso la fine del 1100 si
afferma un altro tipo di quaestiones, quelle de facto emergentes, c.d. perché derivate dal docente dal versante pratico
della sua attività, direttamente dal contenzioso dei tribunali cittadini, dunque più complesse da risolvere poiché vertenti
su fattispecie che raramente trovava una compiuta sistemazione nel corpus iuris
• L’utilità didattica di questo strumento, percepita anche dagli stessi studenti, che nei primi statuti universitari
obbligheranno il docente (da loro pagato) trattare un certo numero di questioni nel corso dell’anno, porta al filone
letterario delle raccolte di quaestiones de facto emergentes, fra cui ve ne sono alcune che divennero particolarmente
famose ed utilizzate, come la raccolta quaestiones aureae di Pillio da Medicina, degli anni ’90 del 1100, per essere
poi sostituite circa un secolo dopo dalle sabbatinae quaestiones di Roffredo Epifanio.
• Alcuni spunti possono essere tratti dalla raccolta quaestiones dominorum boneniensium dei primi anni del 1200,
quindi della stagione più risalente di questo filone letterario, ma contenenti questioni utilizzate da Bulgaro, Martino,
Jacopo e Ugo, i 4 dottori allievi di Irnerio attivi fra gli anni ’50-’60 del 1100.
1)
• Una prima quaestio proviene dalla scuola di Martino, e forse da attribuire al medesimo
• Il caso considerato è quello di Sempronio, acquirente di un terreno da Tizio, è obbligato per contratto a costruire un
ponte che consenta a quest’ultimo di raggiungere il suo fondo ubicato al di là del fiume che attraversa il fondo venduto;
il ponte viene però distrutto da un incidente atmosferico; Tizio adisce l’autorità giudiziaria chiedendo di obbligare
Sempronio alla ricostruzione del ponte
• La solutio offerta è che se il ponte è stato costruito a regola d’arte, e la causa atmosferica è così risultata di
eccezionale portata tanto da non poter essere preveduta ed essere irresistibile ad ogni costruzione a regola d’arte, allora
sempronio deve ritenersi liberato dall’obbligo contrattuale poiché -nessuno deve arricchirsi da un danno subito da altri-.
• La quaestio non si pone nell’ottica di un comportamento emulativo, nemmeno implicitamente, dato che né il
comportamento di Tizio né il comportamento di Sempronio possono dirsi dispettosi o maligni, ma la quaestio è
rilevante perché dimostra come i rapporti di vicinato siano risolti in base ad un principio equitativo di
bilanciamento delle prestazioni, un equilibrio che non può essere rotto.
2)
• La seconda quaestio è assimilabile nel caso considerato alla precedente: Tizio, venditore di una parte del suo
fondo a Sempronio, non gli ha espressamente garantito nel contratto il diritto di passaggio; Sempronio agisce con
l'actio ex empto affermando che in questo modo il fondo acquistato è per lui completamente inutile, e dunque la buona
fede impone che, pur senza previsione contrattuale, il diritto di passaggio sia compreso; Tizio argomenta che ciò è
effettivamente conforme alla buona fede contrattuale, ma che se il diritto non è previsto esplicitamente nel contratto non
vi è compreso
• La solutio martiniana dà ragione a Sempronio, compratore in buona fede, privilegiando le ragioni dell’equità sul rigor
juris
• Ad argomentum viene allegato il frammento binas aedes del titolo de servitute urbanorum praediorum del Digesto,
un frammento che il Rotondi considerò esemplificativo dell'evoluzione dottrinale che condusse i giuristi romani ad
affermare, sin dall'età classica, la necessità di un uso corretto e civile degli iura in nome di un'invalicabile solidarietà tra
consociati e, ancor prima, tra vicini.
• Specifica attenzione merita un più cospicuo gruppo di quaestiones che dipanano le complesse problematiche delle
DERIVAZIONI PER USO PRIVATO DELLE ACQUE PUBBLICHE, vuoi per l’irrigazione agricola vuoi per
l’uso delle correnti e dei salti come forza motrice
• Le dottrine elaborate dai glossatori intorno alle derivazioni di acque dei corsi pubblici ed ai diritti costituiti a
favore di privati o per servizi di carattere privato risentirono largamente della confusione creatasi fra la patrimonialità
del diritto longobardo-franco, che aveva trovato nella regalìa il sistema ordinario di concessione, e la demanialità del
sistema giustinianeo delle res extra commercium, genus cui le acque pubbliche appartenevano (acque che il titolare del
fondo poteva utilizzare come preferiva ma con l’obbligo di mantenere inalterato il corso e la portata del fiume, salva la
sussistenza di ragioni eccezionali, quale per esempio la presenza di un pericolo di inondazione che faccia sorgere
l'urgenza di costruire una diga per evitare danni alle colture; l’alveo dei fiumi privati era di proprietà del titolare del
fondo, mentre l’alveo dei fiumi pubblici era anch’esso una res communes omnius).
• A ciò aggiungasi che l’imprecisione e la genericità nella disciplina delle acque, proprie delle dottrine basso-medievali,
hanno radici profonde nel diritto stesso della compilazione, che aveva risposto alle esigenze delle regioni orientali
dell’Impero con una politica di riforme improntata alla gestione delle risorse idriche nell’interesse dell’economia
pubblica e privata.
• La quasi totalità dei passi del titolo de aqua et aque pluviae arcendae è interpolata: mentre la parte occidentale
dell’Impero era ricca di fiumi tumultuosi e di acque, la parte orientale, al contrario, era caratterizzata dalla scarsità di
grandi corsi; mentre nell’impero d’occidente il problema era essenzialmente quello di evitare straripamenti ed
inondamenti dal fondo del vicino che tutelava il suo fondo, nella parte orientale, al contrario, l’obbiettivo era quello di
trattenere le poche acque disponibili; la stessa actio aquae pluviae arcendae venne estesa al fine, opposto a quello
originario, di far entrare o trattenere l’acqua nei fondi.
• Inoltre, in merito alla nozione di fiume pubblico, i giuristi dell’età di mezzo integrarono il criterio delle perennità del
corso, consolidato in un frammento del Digesto, con quello aggiuntivo della navigabilità, di chiara impronta
germanica e formalizzato dalla federiciana costituzione de regalibus. Questa integrazione di criteri produsse una
concreta estensione della categoria, di cui si giovarono, accanto ai feudatari, Comuni e principati per affermare i propri
diritti di regalìa sia sui minori corsi d’acqua non navigabili, ma perenni, sia su quelli non perenni, ma navigabili o
affluenti di navigabili.
• Considerata la rilevanza che assunse durante l’età comunale, in specie nel territorio lombardo ed emiliano, la
costruzione di una fitta rete di canali, fossi e colatoi destinati a costituire la base duratura dello sviluppo agricolo della
pianura padana, la problematica del contemperamento degli interessi tra proprietari di mulini eretti su corsi o
derivazioni di fiumi pubblici si impone come fonte di una tanto precoce quanto elevata litigiosità.
• Nel bolognese, dove è dimostrato che i mulini ad acqua si diffusero con un certo ritardo rispetto, ad esempio, ai
territori lombardi, il primo mulino idraulico per la molitura del grano compare in un’enfiteusi del 1074, con la quale
l’abate del monastero cittadino di S. Stefano concede ad una coppia di coniugi, oltre ad alcune terre di pianura ed alle
decime di una sua chiesa, anche i mulini posseduti dal monastero sul fiume Savena. La testimonianza anticipa la
politica di grandi investimenti infrastrutturali che, dalla seconda metà del XII secolo, avrebbe visto il comune felsineo
ed i suoi maggiori imprenditori privati puntare sull’obbiettivo di dotare la città di un potente sistema idraulico,
canalizzando verso l’abitato le acque dei fiumi Savena e Reno.
• Ciò detto appare del tutto fisiologica l’attenzione riservata dai glossatori delle prime generazioni postirneriane dello
studium bolognese alla casistica dei mulini costruiti sul fiume pubblico; Vi è infatti un cospicuo gruppo di quaestiones
de facto che mira a dipanare le complesse problematiche delle derivazioni per uso privato di acque pubbliche; fra tutte
queste, tuttavia, la quaestio 11 della raccolta quaestiones aureae di Pillio da Medicina mostra un casus
frequentemente ricorrente nella varie questioni in tema di disciplina delle acque, così da rappresentare una sorta di
modello e di sintesi di tutte queste, a testimonianza di come si trattasse di una realtà molto frequente e che portava a
frequenti liti fra Bologna e Modena e di come si andasse così formando una serie di regole attinenti alla costruzione dei
mulini ad acqua, cioè i termini di un articolato ius molendinorum.
1)
• Il casus è già tracciato in una prima risalente reportatio attribuita a Bulgaro: è il caso di Tizio che devia l'acqua
del fiume pubblico nel suo suolo e qui vi edifica ex novo un mulino, togliendo però l'acqua al multino di Sempronio
edificato da lungo tempo sul fiume pubblico; sempronio vorrebbe impedire a Tizio di fare l'opera sul fiume pubblico
mediante l'interdetto proibitorio, oppure vorrebbe ottenere la rimessione in pristino tramite l'interdetto restitutorio,
sostenendo che non si deve fare nel fiume pubblico ciò che ne deteriora la stato o la navigabilità.
• Le argomentazioni dell'attore, imperniate sulla natura di res communes omnium dei corsi d'acqua pubblici, lasciano
intravvedere una solutio a lui favorevole da parte del legum doctor, anche se la reportatio non è completa della solutio.
• Le tesi trovano un'accoglienza parziale nell'opinione di Ugo di Porta Ravennate, che ritiene praticabile la strada
dell'interdetto proibitorio esclusivamente se il proprietario del primo mulino sia stato, in toto, privato dell'energia
motrice delle acque.
• Le tesi di Bulgaro e di Ugo rifluiscono in due identiche questioni delle raccolte parigina e graziapolitana,
corredate dall'allegazione degli argumenta giustinianei invocati dall'actor e dal reus.
• Quelli dell'attore sono incentrati sulla vetustà di una trentennale longissimi tempori possessio che, avendo ad oggetto
una res communes omnium, non pu&