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IL TRASFORMISMO

Depretis fondò la sua proposta di unificare i gruppi parlamentari sulla base unitaria della classe

politica liberale e sulla convinzione che esistesse una comune e radicata cultura politica.

Il trasformismo nacque con un preciso indirizzo politico, diverso rispetto a quello che si sarebbe

rivelato negli anni seguenti, e intese a rispondere a esigenze reali presenti nella società politica

di quegli anni: voleva significare ‘trasformazione dei partiti’.

I deputati erano espressione degli interessi particolaristici del proprio collegio, erano facilmente

acquisibili da parte del governo attraverso la concessione o la negoziazione di favori sul piano

legislativo-amministrativo: ne conseguiva un’attività parlamentare fortemente suscettibile di

spostamenti anche minimi all’interno dei gruppi che avevano a capo i leader più forti nella

raccolta del consenso elettorale e che cercavano di proteggere coloro con un collegio meno

sicuro.

Il dibattito parlamentare del maggio 1883 sanzionò la vittoria del trasformismo. La classe

liberale credeva che per il rafforzamento del sistema politico fosse necessario trasformare i

partiti al fine di costruire una dinamica politica e parlamentare che avesse permesso una

contrapposizione tra due partiti programmaticamente ben definiti e ambedue legittimati al

governo del Paese, ma finiva per insistere sulla primaria esigenza di conservare e proteggere il

sistema costituzionale dagli attacchi delle forze anticostituzionali. La volontà di continuare a

difendere il sistema non poteva portare che alla riproposizione di scelte trasformistiche: che in

quel contesto venivano obbligate e in fin dei conti erano le sole veramente razionali.

I NUOVI INTERESSI, LA NUOVA BORGHESIA

A metà anni Settanta iniziò a manifestarsi la consapevolezza che la Destra non riuscisse più a

comprendere le forze emergenti dall’interno della società civile, a rispondere alle domande

provenienti da nuovi gruppi d’interesse e di pressione, ad allargare il consenso alle nuove forze

della borghesia e della società politica compatibili con la stabilità del sistema: i governi di

Depretis permisero la partecipazione di settori nuovi della nascente industria, il collegamento

tra settori più antichi della classe dirigente con gruppi economici e finanziari di più recente

formazione.

Il momento più delicato fu rappresentato dalla svolta protezionistica del 1887 che portò

all’adozione di un dazio protezionista nei confronti del grano e di una tariffa doganale

fortemente protettiva nei confronti dell’industria tessile e dell’intero ciclo siderurigico-

meccanico: aveva favorito l’industria contro l’agricoltura; aveva favorito la granicoltura contro

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le altre colture più ricche; le fabbriche del nord prendevano il posto di quelle estere a danno del

Mezzogiorno; aveva giovato maggiormente gli agrari del nord rispetto a quelli del sud.

I LIMITI COSTITUZIONALI

L’esigenza di trasformare i partiti nasceva dalla volontà di rafforzare il sistema politico

attraverso una maggiore funzionalità del parlamento. La classe politica liberale, ritenendo di

dover conservare la stabilità istituzionale, divenne consapevole della debolezza dei governi

dovuta alla difficile composizione di una maggioranza sicura in parlamento.

La riforma elettorale del 1882 puntava sull’allargamento della partecipazione politica a quei

nuovi settori della borghesia al fine di poter realizzare una fruttuosa egemonia di classe.

Ebbero per la prima volta il voto settori della piccola borghesia e del mondo operaio urbano, i

contadini più ricchi e i piccoli proprietari: il progetto naufragò a causa del moltiplicarsi di

interessi contrastanti.

Il parlamento rappresentativo di una ristretta fetta della società civile continuò ad essere

un’assemblea difficilmente governabile: forti conflitti continuarono a lacerarlo.

PARLAMENTARISMO, TRASFORMISMO LIBERALE, TRASFORMISMO

CONSERVATORE

Il trasformismo puntò alla stabilizzazione del sistema: si trattò di un fattore fisiologico

all’interno di un sistema fondamentalmente élitario, come quello liberale, perennemente alla

ricerca di una mediazione nel rapporto società-Stato, che eludesse il pericolo del conflitto. Alla

fine della sua lunga egemonia, Depretis dovette arrendersi all’evidente precarietà del suo

sistema, che aveva formalmente risolto la questione relativa alla formazione di una

maggioranza, ma che si logorò proprio a causa della conflittualità procurata dalle disparate

componenti di questa maggioranza. Il successore di Depretis, Crispi, non si sarebbe rivelato

particolarmente innovativo, si trattò di differenze nei modi e nei comportamenti, tanto che

divenne legittimo distinguere tra “trasformismo crispino” e “trasformismo depretino”.

I limiti del “parlamentarismo”, cioè delle pratiche istituite dalla politica di Depretis, non furono

evidenziati solo da Crispi. Vi era l’esigenza di ricondurre ad una dialettica più composta

l’attività del parlamento e la necessaria divisione tra partiti per la formazione di maggioranze

capaci di condurre in modo unitario e coerente l’azione di governo. In un momento in cui le

competenze e le funzioni dello Stato si allargavano, le disfunzioni apparivano particolarmente

pericolose.

Furono le continue e fallite iniziative volte alla costituzione di partiti parlamentari capaci di

esprimere una maggioranza a convincere il costituzionalista Domenico Zanichelli che il governo

in Italia potesse solo fondarsi sul trasformismo e a indurlo ad una legittimazione di questo

piano teorico.

I limiti delle formule trasformistiche si rivelarono tuttavia notevoli soprattutto in occasione

delle proteste che a partire dalla primavera del 1897 incominciarono a investire il Paese: si

contarono 189 scioperi; il movimento socialista riuscì a farsi sentire nelle campagne e in altri

settori. Si registrò l’incremento della forza dei socialisti e dei cattolici, i quali allargarono la loro

influenza nelle campagne e all’interno di gruppi economici cresciuti con l’incremento

industriale.

In un Paese con un sistema bloccato che non prevedeva l’alternanza di governo che aveva

dovuto sempre e solo ricavare le soluzioni politiche all’interno di una medesima classe di

governo, quando non seppe più trovare una via d’uscita si puntò alla risposta forte,

rappresentata da Giolitti: il suo piano era quello di inglobare i socialisti e i cattolici. Si trattava

di un trasformismo che tendeva ad assimilare al centro gli esponenti delle opposizioni

compatibili con il sistema.

Ad un “trasformismo conservatore”, rappresentato da Crispi, sembrava nuovamente succedere

un “trasformismo liberale”.

3. GIOLITTI

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L’ASSIMILAZIONE DI “ROSSI” E DI “NERI”

Con l’affermarsi del movimento socialista e con la partecipazione dei cattolici alla lotta

elettorale, il pericolo rappresentato dai “rossi” e dai “neri” divenne presente nella prassi

politico-elettorale.

La convergenza al centro, verso il Partito liberale, di tutti gli elettori moderati rappresentò una

scelta obbligata che portava in secondo piano le differenze interne che avrebbero potuto

rappresentare motivo di divisione.

Nell’Italia centro-settentrionale i socialisti e i repubblicani erano molto forti: l’antagonismo che

caratterizzava le lotte elettorali non era più tra un candidato ministeriale e uno monarchico, ma

tra un socialista e un repubblicano, ossia un “sovversivo”.

I nuovi rapporti di forza imposero ai costituzionalisti di accantonare le divisioni interne e di

concordare candidature unitarie pur di garantire l’ordine e respingere le minacce sovversive.

Il diffondersi di una cultura socialista soprattutto in alcune aree del Paese e anche all’interno di

ampi settori della società civile che in passato si erano riconosciuti nelle élite politiche liberali,

se di fatto non portarono alla formazione di un partito di massa, spinsero la classe politica

liberale a rafforzarsi. Si ebbe anche un’assimilazione delle frange più democratiche tra i liberali

all’interno del moderatismo. I cattolici vennero considerati possibili alleati per contrastare i

socialisti: i blocchi clerico-moderati si diffusero sempre più nei governi locali.

Di fronte alla sempre più evidente partecipazione dei socialisti alla vita politica del Paese i

liberali reagirono intenzionati a limitarne lo spazio politico. Su questo concordava anche Giolitti,

il quale:

 non ostacolò direttamente lo sviluppo del movimento socialista – lo accettò

come dato fisiologico della società contemporanea;

 cercò di controllare gli esiti politici di questo sviluppo – coinvolgendo in qualche

modo le organizzazioni operaie;

Il suffragio universale apparve a Giolitti un obiettivo necessario, al fine di avviare il movimento

operaio nello Stato: avrebbe reso immuni le masse da tentazioni di anarchia e rivoluzione.

Giolitti tentò di coinvolgere i socialisti nel governo, ma alla fine i liberali si allearono ai cattolici.

La mobilitazione cattolica portò alle elezioni di parecchi deputati moderati e giolittiani

specialmente nei collegi dell’Italia settentrionale. Le elezioni del 1904 portarono alla vittoria dei

candidati ministeriali e a un arretramento di quelli dell’estrema.

“Rossi” e “neri”, gruppi ispirati ai nuovi e antichi interessi economici, divisero l’operato di

Giolitti che cercò di assimilare quanto di nuovo proveniva dalla società in trasformazione senza

squilibrare il sistema: il suo motivo guida fu il “buon senso”.

IL SISTEMA TRASFORMISTICO

La mancanza di omogeneità ideologica all’interno della maggioranza parlamentare caratterizzò

anche il primo decennio del nuovo secolo.

Giolitti:

 favorì un largo numero di collegi – attraverso l’elezione di deputati che concessero

al ministero il loro appoggio;

 cercò di ampliare l’area di intervento governativo – ampliando i poteri

dell’amministrazione;

Identificò nella burocrazia il più importante strumento di governo: facilitò l’estendersi

dell’apparato amministrativo e potenziò l’ordinamento gerarchico di tale apparato.

In Parlamento la maggioranza fu cercata attraverso l’assimilazione al centro delle forze più

moderate di destra e sinistra. Aiutò le forze cattoliche ad entrare definitivamente nel sistema

politico, in modo da trovare nel loro appoggio un’integrazione del suo potere.

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Il Partito liberale era caratterizzato da scissioni interne ed erano

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Publisher
A.A. 2018-2019
12 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher BobsK di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia contemporanea e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi Gabriele D'Annunzio di Chieti e Pescara o del prof Della Penna Carmelita.