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Non c’è dubbio che su alcuni reati la percentuale degli stranieri sia molto più alta, ma è anche
vero che un numero non piccolo di reati è legato alla condizione stessa di stranieri. Si tratta di
reati amministrativi (ad es. mancanza del permesso di soggiorno), ossia di reati legati ad una
condizione, non ad un atto compiuto.
Altro problema, analogo a quello degli adulti stranieri in carcere, è la difficoltà per i minori
stranieri di accedere a pene alternative (ad es. domiciliari) per mancanza di famiglia, di
domicilio o per domicilio non dichiarato: quindi, restano più a lungo negli istituti.
Inoltre, gli stranieri sono più presenti nelle carceri, perché sono più frequentemente oggetto di
controlli, perquisizioni e operazioni mirate.
CAPITOLO 6
Tutti gli stranieri provenienti dai paesi poveri sono ad alto rischio di sfruttamento, specie se si
trovano in condizione di irregolarità amministrativa.
In Italia sono decine di migliaia le persone che, ogni giorno, mediante violenza, minaccia,
inganno, abuso di autorità, sono soggette a sfruttamento sessuale assimilabile alla schiavitù,
ossia vengono costrette a prestazioni sessuali.
La maggior parte di queste donne è stata soggetta a tratta, ossia è stata fatta arrivare in Italia
– più o meno con l’inganno – da mediatori senza scrupoli, che le hanno vendute a
organizzazioni criminali, che le fanno vivere segregate e le costringono a prestazioni sessuali,
ricattandole sotto la minaccia di violenze personali o verso la famiglia di origine.
Nei paesi europei vi sono oggi tre modalità per affrontare la questione della prostituzione:
1. Non proibisce né la vendita né l’acquisto delle prestazioni sessuali, ma punisce chi sfrutta
questo mercato (Italia);
2. Legalizza sia l’acquisto che la vendita del sesso, legalizzando anche le imprese che
organizzano l’incontro tra la domanda e l’offerta (Germania);
3. Proibisce l’acquisto, ma non la vendita, di prestazioni sessuali (Svezia); - > la legge
rappresenta un ostacolo all’insediamento dei trafficanti e dei protettori e aveva determinato
una riduzione della criminalità organizzata. Quindi, se l’obiettivo è ridimensionare tutto il
mondo dello sfruttamento che gira attorno alla prostituzione e combattere la tratta, questo
modello sembra più efficace di quello tedesco.
L’esperienza degli altri paesi dimostra che se il mercato del sesso viene legalizzato diventa
praticamente impossibile contrastare la tratta degli esseri umani a scopo sessuale.
In Italia è probabile che se la prostituzione venisse legalizzata i bordelli rischierebbero di
moltiplicarsi a dismisura, non migliorando le condizioni delle prostitute, indebolendo il
contrasto alla tratta e favorendo gli affari delle mafie.
CAPITOLO 7
Un rifugiato è una persona che scappa (da guerre, da persecuzioni razziali, etniche, religiose,
politiche, legate all’orientamento sessuale, da catastrofi ambientali e climatiche, dalla fame,
dalla persecuzione di un capo locale) e cerca rifugio, ossia un posto in cui stare, dove essere
protetto, dove non rischiare più la vita. Convenzione di Ginevra 1951,
La condizione di rifugiato è definita dalla del un trattato delle
articolo 1
Nazioni Unite firmato da 147 paesi. Nell’ della Convenzione si legge che è considerato
‘chiunque, nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua
rifugiato
3
religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le sue
opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale
timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato ’. Quindi, dal punto di vista giuridico-
amministrativo è quindi una persona cui è riconosciuto lo status di rifugiato perché se tornasse
nel proprio paese d’origine potrebbe essere vittima di persecuzioni.
Il problema dei rifugiati ha finito inevitabilmente per sovrapporsi a quello degli sbarchi e dei
profughi.
Per i rifugiati, occorre non solo suddividerli correttamente sul territorio, ma migliorare
complessivamente il meccanismo di gestione. Alcune cose vanno fatte a livello europeo:
cambiamento della normativa europea, disciplinata dagli accordi di Dublino nelle loro varie
formulazioni; consentire la mobilità o la ricollocazione sulla base di un’equa distribuzione tra
paesi; fornire i dovuti incentivi economici a chi ne accoglie di più; lavorare sulla prevenzione nei
paesi d’origine; elaborare una strategia che consideri strutturale e non emergenziale l’ingresso
dei rifugiati e migranti in Europa, in maniera sicura, legale e pianificata.
Altre cose vanno fatte a livello nazionale e locale: accelerare drasticamente la rapidità dell’iter
burocratico per il riconoscimento; consentire per legge al rifugiato di poter lavorare in tempi
rapidi, passando dallo stato di soggetto passivo a quello di soggetto attivo della propria
integrazione.
I rifugiati politici veri si caratterizzano dalla tendenza a voler rientrare nel loro paese, se la
situazione lo rende possibile, poiché a differenza di altri loro non se ne sono andati via
volontariamente.
Proprio per questo il rifugiato ha il diritto di essere accolto, riconosciuto in maniera diversa
rispetto ai migranti economici: perché, suo malgrado, è portatore di una conoscenza che possa
aiutare noi a migliorare la nostra consapevolezza e conoscenza.
CAPITOLO 8
La sempre più diffusa mobilità territoriale non è una caratteristica dei soli immigrati, ma è un
processo che coinvolge fette sempre più grandi della società e, in proporzione, più gli autoctoni
degli immigrati, più le classi superiori di quelle inferiori. Infatti, anche se scomparissero tutti gli
homo
immigrati da una società, questo processo andrebbe avanti ugualmente. Per questo, l’
sapiens homo vagans.
sta diventando
La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non è solo un fatto
quantitativo con svariate conseguenze sociali, economiche e culturali, ma è anche un fatto
qualitativo, poiché producono e creano nuove problematiche e nuovi processi di interrelazione.
Infatti la presenza di diversi gruppi culturali e di diverse entità religiose, ci costringe a fare i
conti con quella che potremmo chiamare una diversa ‘geo-religione’, meno legato ai confini
degli Stati e alla separazione, e più legato alla mobilità e all’interconnessione.
Non c’è più un popolo con una propria fede che abita un determinato territorio, ma assistiamo
al progressivo prodursi di una realtà molto più articolata, in cui su un medesimo territorio si
mischiano popoli, culture, religioni ed etnie. Quindi, la pluralità, considerata patologia, sta
diventando normale, un effetto della globalizzazione.
Globalizzazione e migrazioni hanno avuto l’effetto non intenzionale di rendere disponibili su
scala globale culture lontane e sconosciute.
Infatti, da un lato avviene la scoperta o la riscoperta di culture e saperi altrui; dall’altro c’è
l’arrivo, attraverso le migrazioni di saperi condivisi da alcuni gruppi: si tratta non solo di
conoscenze e idee sul mondo, ma di pratiche sociali e culturali diffuse e condivise all’interno di
gruppi sociali sempre più ampi.
Di contro, però, ci si divide su fattori di inclusione ed esclusione: si sta diffondendo la paura,
strumentalizzata a livello mediatico e politico. Ciò determina rifiuto, chiusura, incertezza, stress
e pregiudizi (ossia, giudizi dati prima di conoscere davvero e di persona).
Il conflitto, però, esiste a prescindere dalle migrazioni, anche se, comunque, le migrazioni
possono portare nuove forme di conflitto nelle società (tra culture, tra religioni e tra modi di
vivere diversi e contrastanti).
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Il conflitto non è necessariamente sinonimo di violenza, infatti la sfida è nel trovare i metodi
non violenti per risolvere i conflitti. Questo, tuttavia, è possibile solo riconoscendo il conflitto e
quindi gestendolo, non negandolo e reprimendolo.
Nel conflitto si impara a misurare la differenza tra ciò che siamo, ciò che vogliamo e ciò che
possiamo ottenere. Tutto questo funziona finché il conflitto non porta a voler eliminare
fisicamente l’altro, ma purtroppo non è così: in questo caso, il conflitto cresce di scala e diventa
distruttivo.
CAPITOLO 9
Oggi stiamo assistendo al passaggio dall’Islam in Europa all’Islam d’Europa, per avviarci a
quello che sarà semplicemente l’Islam europeo.
Un Islam che sfa vivendo processi lunghi di inclusione e di integrazione sostanziale
(dall’economia alla scuola, dalla cittadinizzazione e istituzionalizzazione all’ingresso nei
meccanismi di welfare religioso, dalla presenza culturale a quella cultuale), ma nello stesso
tempo è sottoposto e sottopone a situazioni di percezione conflittuale talvolta esasperata.
Dal punto di vista demografico-statistico l’Islam italiano mostra una notevole costanza: da
quasi un ventennio rappresenta ormai circa un terzo degli immigrati.
Dal punto di vista religioso, la componente principale, nonostante l’aumento di flussi migratori
da est e la diminuzione di quelli da sud, continua ad essere quella islamica. Il dato sulle
migrazioni, però, ci racconta solo una parte di realtà: ai musulmani immigrati bisogna
aggiungere quelli naturalizzati, cioè che hanno acquisito la cittadinanza italiana, e i convertiti,
cioè gli italiani che hanno scelto l’Islam.
L’Italia, per quanto riguarda l’immigrazione, però, è sempre e solo stata attenta agli aspetti
politici e strategici, alla produzione legislativa, agli aspetti legati al permesso di soggiorno e
all’entrata nel mondo del lavoro, tralasciando gli aspetti culturali e religiosi.
La logica è cambiata in parte con il decreto legge Turco-Napolitano (286 del 1998), che
aggiungeva all’aspetto emergenziale e sempre dichiarato come urgente, una più ampia logica
basata su diritti e doveri di più lungo termine.
A tutt’oggi non esiste una legge sull’immigrazione che prenda in considerazione, anche
collateralmente, gli effetti culturali e religiosi della presenza immigrata. Si è arrivati, però, al
paradosso di riconosce chiese e confessioni religiose anche piccole, ma non le principali
confessioni presenti tra gli immigrati, e tra esse in particolare l’Islam. Inoltre, viene considerato
progressivamente come normale, dai media e da alcune forze politiche, proporre consultazioni
referendarie per consentire di aprire una sala di preghiera in una determinata località,
di