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Eppure il senso di vulnerabilità ha spesso conseguenze nettamente diverse. Nella storia

recente, a mobilitare le folle è stata più spesso l’opposizione alla violenza che il desiderio di

essa. Di fronte alla violenza, queste masse di copri trasmettono un’emozione diversa, di sfida

ma non bellicosa, riunendosi per dimostrare un’umanità condivisa piuttosto che una minaccia

collettiva. Non esiste un modo assoluto di distinguere la folla violenta da quella non violenta:

la rivolta è il linguaggio di chi non viene ascoltato. Esprimere rabbia attrae più sguardi di

calma e razionalità. La sensazione che il linguaggio stesso venga utilizzato come un’arma per

minare la fiducia e provocare la paura è divenuta prevalente con il diffondersi dei social media

e le pratiche di trolling che li accompagnano. Parte del problema consiste nel non conoscere

mai il confine esatto tra discorso e violenza. Ciò è particolarmente difficile da stabilire in rete.

La rabbia, l’intimidazione e le bugie che si sono insinuate nei mezzi di informazione e nella

società civile, destabilizzando le istituzioni senza costruirne di alternative, possono

degenerare in una spirale di paura e sospetto reciproco. La violenza diventa attraente quanto

il potere non sembra disponibile, perché apparentemente se lo sono accaparrato le élite.

Se le folle sono il luogo in cui l’emotività prende il posto della ragione, forse una “marcia per

la scienza” è fondamentalmente controproducente. In base all’ideale di scienza moderna, gli

scienziati si differenziano dai membri di una folla o dalle figure politiche poiché sono in grado

di separare i sentimenti dalle osservazioni. Sono capaci di distinguere un dato di fatto da ciò

che è questione di punto di vista, etica o emozione. Possono farlo perché sono in grado di

mettere da parte le loro stesse identità e agire da mediatori neutrali tra i dati che raccolgono e

i documenti che finiscono sulle riviste. Diversamente dalle reti dei mezzi di informazione

digitale, gli scienziati rallentano le cose: gli esperti raccolgono i dati con cura, li analizzano in

senso critico poi li ripresentano in una forma standardizzata, piuttosto che fidarsi e

condividere ogni impressione sensoriale così come si manifesta. Sono influenzati solo dagli

elementi che hanno davanti, piuttosto che dai sentimenti di coloro che li circondano. L’abilità

degli esperti di regolare le proprie emozioni è fondamentale per la loro autorità. Gli scienziati

cercano la nostra fiducia e il nostro rispetto perché promettono di rappresentano le cose in

modo accurato. I loro dati sono una rappresentazione valida della natura. Le loro

pubblicazioni sono una valida rappresentazione di quei dati. I loro consigli sulle politiche da

adottare sono una valida risposta a quelle pubblicazioni. Confidare nella scienza significa

confidare nella capacitò delle persone di riferire e registrare le cose in maniera adeguata e

lasciare da parte i propri pregiudizi e le proprie emozioni. Questa capacità di usare il

linguaggio e la carta in una maniera rigida, affidabile è esattamente ciò che Le Bon vedeva

svanire nel momento in cui le persone si inserivano in una folla. Gli esperti sono oggi sotto

attacco. La loro capacità di riflettere la verità in modo neutro è ora osteggiata, in quanto

ritenuta legata agli interessi individuali e più emotiva di quanto i soggetti stessi siano disposti

ad ammettere. L’accusa è che costoro abbiano tramutato in arma la loro posizione pubblica in

modo da asservirla a interessi particolari. In breve, sono tutti colpevoli di ipocrisia. E come

osservava Arendt, se c’è una cosa in grado di trasformare il coinvolgimento in rabbia, più

ancora dell’ingiustizia, è l’ipocrisia. Nella folla c’è soltanto mobilitazione, non

rappresentazione, con un’autenticità delle emozioni che manca a tecnocrati ed élite.

Hobbes era abbastanza ottimista rispetto alla correttezza del suo metodo quasi matematica,

da ritenere di poter dare risposte a quesiti di filosofia naturale sulle quali potessero

concordare tutti. Giungendo a un accordo sulle più importanti questioni di verità, non ci

sarebbe più stato conflitto.

Come posso sapere se ciò che vedo è davvero reale e non è semplicemente un’illusione

come accade in sogno? La famosa scappatoia di Cartesio da questa tragica spirale di dubbi

era considerare che il fatto stesso di avere simili dubbi fosse sufficiente a dimostrare la

propria esistenza, almeno come essere pensante se non corporeo. Io, inteso come mente o

sé, esisto in modo del tutto indipendente dal corpo in cui mi capita di essere fisicamente

collocato e potrei esistere anche senza; da cui la fede di Cartesio nell’immortalità dell’anima.

Nulla è più facile da conoscere per la mente che sé stessa, ma ogni altra cosa è dubbia.

Mente e corpo potevano essere fatti di sostanze diverse, ma la prima dipende dal secondo.

La tragedia dell’umanità era avere una sostanza immortale (la mente), ospitata in una mortale

(il corpo). Forse non dobbiamo a Cartesio il concetto attuale di mente scientifica razionale,

ma è stato lui a darne la definizione filosofica più importante. La mente diventa un

osservatorio attraverso il quale il mondo fisico, da cui è separata e distinta, può essere

esaminato, criticato e infine replicato nella forma di modelli scientifici che si possono affidare

alla carta e condividere. L’ideale scientifico di un punto di vista oggettivo, neutro sulla natura

deriva da questa premessa, che l’essere umano può osservare le cose dall’alto, da una

posizione esterna e comunicare ciò che vede tramite fatti e cifre. La mente è come una

macchina fotografica che crea istantanee visive delle cose per poi utilizzarle come prova. La

filosofia di Cartesio privilegiava un rapporto visivo con il mondo, chiedendosi come fosse

possibile che le immagini di una candela o di un bastone si potessero considerare reali. È

meno chiaro come gli altri sensi dell’uomo quali l’olfatto, il tatto o l’istinto potessero generare

una conoscenza affidabile. Questa filosofia è stata fondamentale per lo sviluppo dei moderni

concetti di scienza e di competenza. Essa dischiude la possibilità di una prospettiva

autorevole e razionale sulle cose. Ma ha un costo. La visione dell’io delineata da Cartesio è

anche quella di un’entità isolata, esangue, tagliata fuori dal mondo fisico in qualità di puro

osservatore. Le sensazioni sono considerate afflizioni per il corpo e non sono davvero

fondamentali nel definire chi siamo. La filosofia di Cartesio rappresenta un ritirarsi

dall’esperienza quotidiana e un declassamento delle apparenze e delle sensazioni. In questa

separazione tra mente e corpo, Hobbes ha seguito ampiamente Cartesio. Provare una

sensazione (come un cambiamento di temperatura o di colore) non è tanto acquisire

conoscenza quanto subire i movimenti della materia. Le nostre sensazioni del mondo esterno

servono semplicemente a ricordarci che il corpo umano è un oggetto fisico esso stesso,

soggetto alle medesime leggi della geometria cui deve sottostare il resto della natura. La luce

colpisce il mio occhio e il mio occhio subisce un mutamento in quel processo, producendo

l’esperienza che chiamiamo vista. Piacere e dolore sono proprietà del sistema nervoso che

consentono al corpo di reagire meccanicamente a stimoli diversi. Possiamo studiare queste

leggi ma non dovremmo considerare i sensi interamente affidabili o sicure di per sé. Gli

scienziati possono portare alla luce le leggi fondamentali della natura. Hobbes riteneva

tuttavia che potessero farlo solo ponendo molto accento sul ragionamento intellettuale, a

discapito dell’apparenza delle cose. La ragione sospinge le sensazioni ai margini. Ma che

cosa accade se gli uomini non prestano ascolto alla ragione? Se si fidano più delle apparenze

e dell’istinto? Era questa paura a costringere Hobbes a superare la filosofia della natura per

occuparsi di questioni di politica. Il problema della verità è sempre stato irrimediabilmente

connesso a questioni di politica. Una minaccia che incombe su tutte le comunità umane,

sosteneva, è che le persone non usano necessariamente il linguaggio in modo affidabile e

coerente. Possono pensare in modo razionale e credibile, ma le loro parole sono passibili di

essere travisate. Le menti individuali possono accedere a certezze scientifiche e filosofiche,

ma non possono trasmettere questi pensieri per via telepatica. Le sensazioni sono

particolarmente problematiche, considerava Hobbes, perché non abbiamo possibilità di

sapere se stiamo usando il linguaggio delle emozioni allo stesso modo. La matematica ha il

vantaggio di essere esplicita nel suo linguaggio evitando malintese, e le scienze basate sulla

matematica sono più inclini a svilupparsi in un modo regolare e consensuale. È rischioso però

considerare ogni espressione umana interamente attendibile, scriveva Hobbes, perché

nessun discorso, di qualunque genere, può terminare nella conoscenza assoluta di un fatto.

Hobbes ha individuato un pericolo ancora più grande: l’arroganza. Potendo conoscere

realmente solo i propri pensieri e il modo in cui sono stati prodotti, le persone tendono a dare

maggior valore alla propria idea di verità rispetto a quella di chiunque altro. Gli esseri umani

soffrono per un problema innato di eccessiva sicurezza di sé, il che rende più difficili la fiducia

e il pacifico scambio. Ciò che rende inevitabile la violenza, sosteneva Hobbes, non è tanto

che alcuni sono forti e aggressivi, ma che gran parte delle persone sono deboli e spaventate.

Il debole è pericoloso quanto il forte, e se possibile ancora di più, poiché ha in partenza più

motivi di avere paura. Molto spesso la violenza è il prodotto della paura. Per evitare il

conflitto, la prima cosa da fare è alleviare i sentimenti di paura. Hobbes riteneva che questa

condizione di sospetto reciproco minacciasse sempre di sfociare nella violenza. Si rendeva

conto che la violenza è uno stato della mente (in primo luogo della paranoia), così come è

un’azione fisica: la natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella

disposizione verso di esso che sia conosciuta. Una mancanza di sicurezza è percepita in

quanto è conosciuta. È la cupa rappresentazione di uno stato di natura dominato da sfiducia

reciproca, false promesse e la possibilità costante della violenza, che ora riconosciamo come

hobbesiano: uno stato che Hobbes ha descritto come guerra di tutti contro tutti, in cui

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A.A. 2019-2020
16 pagine
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SSD Scienze politiche e sociali SPS/07 Sociologia generale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher chiara_and di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Sociologia della sicurezza e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Perugia o del prof Fornari Silvia.