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La Tecnica, “matrice” del “rinnovamento dell’umanità” può essere sfruttata dalle
forze culturali-politiche, sebbene i valori di mistero e tradizione siano
inutilizzabili, al contrario di quelli di esposizione. L’aura impedisce che l’opera
esposta venga immediatamente fruita, obbligando a un’attenzione infinita,
poiché l’opera riserva sempre qualcosa che eccede ogni spiegazione. Sebbene
l’essenza dell’opera non sia mai disvelabile, la massa esige un contatto rapido
che consenta una valutazione poco attenta. Con la rivoluzione innescata da
fotografia e cinema, ogni cosa perde la sua fissità, assumendo un valore relativo
alla sua scambiabilità. Individualità ed hic et nunc sono il passato, poiché il
denaro elimina la distanza e i “luoghi” rappresentati accompagnano lo sviluppo
dell’industria del turismo, soddisfacendo la pretesa di “partecipare” a tutto e
rendendo omogeneo ciò che prima era differente. La moda esprime il
permanente, l’eterno ritorno del nuovo.
Tuttavia, gli oggetti “nascono” quindi de-sostanzializzati, non rompono un
involucro di aura poiché nessuna aura può essere associata al denaro che li
genera. L’unica sacralità che si conserva nel denaro è quella della sacra
prostituzione: nella metropoli, infatti, i rapporti si costruiscono intorno alla
forma del contratto. La merce esprime la propria natura esponendo visi,
producendo consumo. L’intelletto calcolante si afferma quindi nel mondo dei
produttori e del trapassare perenne, in cui il “cervello sociale” metropolitano è
continuamente al lavoro per sviluppare nuove merci e consumare ciò che ha
prodotto. Per Marx, il capitale deve sottomettere alla legge del suo profitto ciò
che l’intelletto generale (agente decisivo) produce, malgrado il lavoro tecnico-
scientifico entri in contraddizione con la “macchina”, che vuole costringerne
l’energia produttiva in prodotti determinati, riconoscendo alle “idee” un valore
solo se hanno pubblico o mercato.
Solo nella metropoli il poeta può esistere, bevendone la frenesia e convivendo
con il suo tumultuoso mutare che i produttori ignorano. Per esprimerlo, infatti, è
necessario distaccarsene, potendo così notare sogni e gli incubi che si generano
in questo spazio, esprimendoli realisticamente allegorizzando lo choc in modo da
renderlo indimenticabile.
Anziché occultarne la violenza rivoluzionaria, occorre infatti dare forma alla vita
metropolitana, comprendendone gli opposti: ne deriva che l’espressione artistica
“all’altezza” dell’epoca dovrebbe combinare massimo choc e massima
riflessione, imponendosi al pensiero ed esigendo l’ossessiva ricerca
dell’espressione compiuta. Così come il sistema di produzione abbandona le sue
precedenti configurazioni, al progetto appare superfluo conoscere il proprio
passato.
Lo sguardo distratto e curioso appartiene al flaneur, che aggira la città priva di
centri sacrali, ma solo simulacri di centralità su cui ironizzare, dissolvendone
l’aura passandovi accanto ed oltre senza meta. Egli vede ogni cosa come una
merce in via di rinnovo e trasformazione, priva di sostanzialità, percependo il
dissolversi del valore d’uso che evapora nell’indifferenza dello scambio, che
muta la cosa in un valore astratto. Pretendendo di essere autore e protagonista
del suo errare, disdegna i “mezzi pubblici” e crede di avere ancora tempo per
essere curioso e avere cura delle cose, ma la sua solitudine non sarebbe
concepibile se non all’interno della folla, che lo irrita e lo agita. Egli si scopre
“uscito di casa” alla ricerca di una sorpresa, di uno choc duraturo, ma ridotto a
una passeggiata piatta, a un puro procedere orizzontale e terraneo che gli
impedisce di godere di ogni cosa, considerata sempre dal punto di vista del suo
scomparire.
Nasce allora il desiderio di ritirarsi e distaccarsi dalla vita metropolitana per
ritrovare un interiore che tuttavia, gli è negato, poiché, essendo libero dal
feticcio della casa e di ogni forma di appartenenza naturale, egli ha spezzato i
vecchi cerchi sociali ed eliminato ogni interno. Nell’Ennui, invece, la curiosità si
rovescia in inucriosité, in indifferenza generata dall’aver visto e compreso. La
stanchezza è invece qui una matura coscienza che lo choc metropolitano si
addomestica e si sistema. Se entrambi provano lo spleen e pensano soltanto di
poter vivere altrove, mentre il flaneur ne abita ancora le strade, l’Ennui vive
nella metropoli ma non ne è abitante. Lo spleen nasce dall’esperienza delle
grandi città e dal distacco che è critica e crisi senza nessun intento di
restaurazione dell’aura, poiché l’essenza dell’esperienza metropolitana non è che
la morte dell’esperienza stessa, il percepire tutto come già fatto. Al colmo della
noia è data la possibilità del “salto”, quando l’uomo si sente soffocare, aprendosi
agli abissi del baratro della morte (da invocare come sola dimensione ancora
ignota) e dell’angoscia (interrogandone il significato). La sete del nuovo
dell’homo consumans rivela l’impotenza a scoprirlo e a goderne. Se per il
flaneur la città poteva ancora apparire nell’aura del seducente labirinto, l’ennui
rappresenta la disperazione di poter trovare novità, una catastrofe che “riscatta”
la “minaccia” d’assenza di catastrofi. Il Tempo riappare con ricordi, rimpianti,
paure e collere, regnando sovrano sulla città e contrapponendosi al “bagno di
pigrizia” in cui l’anima affondava nella contemplazione di una beatitudine
impossibile. Il senso dell’angoscia apre quindi all’idea di un possibile estremo
che faccia saltare il continuum, chiamando il linguaggio a divenire forte
abbastanza da esprimere rancori e indolenze, rendendo gli uomini “salvi”
dall’essere occupati dal tempo. L’ebbrezza nel non percepire il complesso della
grande città come tutta la realtà esistente, consente di fuoriuscire dalla
soffocante prossimità delle sue figure e “simbolizzarsi” nella lontananza della
vita degli astri, nell’”ala vigorosa” che può elevarci e manifestarsi nella parola e
dell’immaginazione. L’angoscia spinge ad oltrepassarsi, in una mania in cui il
tempo non ci inghiotte e l’occhio intuisce l’infinito sconosciuto. Essa risveglia il
senso dell’indistruttibile che ignora il valore assegnato dalla metropoli alle novità
e non può essere scambiato o distrutto. Ad essa si contrappone lo stare del
Valore indistruttibile, che irrompe con parole non consumate dal tempo e che
conservano una potenza immaginativa che si ribella all’idea stessa di sovranità e
universale mercificazione. Alla forma che trascina e consuma si oppone quella
maniaca che cura il proprio indistruttibile e esprime con parole l’”essenza divina”
delle cose, non ponendosi al servizio del mero comunicare ma facendo sì che la
cosa stessa si incarni nella parola.
L’altrove invocato dal poeta esiste nella vita metropolitana ed è inseparabile da
tale vita, non trasformandosi in un bene di consumo esposto nei passage, ma
trapassando le immagini dello spazio metropolitano fuori e oltre il tempo
“assassino”. Alla parola poetica deve tuttavia corrispondere l’energia innovante
dei rapporti sociali, determinandosi come totalità nelle mani dell’autore, che
sente l’angoscia invocare il “salto” all’infinito ma vede l’indistruttibile come un
tempo troppo debole per essere simbolo di un futuro. Lo sguardo comprende in
sé l’infranto e la mente lo contempla, trascinati dalla tempesta che costituisce,
tuttavia, l’unica dimensione in cui possono vivere e pensare.
- L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica
Riproduzioni artistiche erano da sempre realizzate dagli allievi come
esercitazioni, ma anche dai maestri per la diffusione delle opere e da terzi, avidi
di guadagni. I Greci utilizzavano tecniche di riproduzione quali fusione e conio,
per creare bronzi, terrecotte e monete. Con la silografia fu possibile poi
riprodurre la grafica, ed infine la scrittura, tramite la stampa, che produsse
enormi cambiamenti nella letteratura. Ad acquaforte e puntasecca medievali si
aggiunse, all’inizio del 19° secolo, la litografia. La trasposizione dei disegni su
pietra lasciò il posto ad incisioni in blocchi di legno e lastre di rame, finché la
grafica divenne capace di accompagnare in forma illustrativa la dimensione
quotidiana. Con la fotografia, le più importanti incombenze artistiche divennero
di competenza dell’occhio (e non più della mano), in grado di cogliere più
rapidamente e accelerare la riproduzione figurativa rendendola in grado di stare
al passo con l’eloquio. L’operatore cinematografico fissa infatti le immagini alla
stessa velocità con cui l’interprete parla.
Ciò che manca è l’hic et nunc dell’opera, ossia l’esistenza irripetibile in un luogo.
Le modificazioni della struttura sono reperibili solo mediante analisi chimiche o
fisiche che non possono essere compiute sulle copie. Le riproduzioni manuali
bollate come falsi hanno lasciato il posto a riproduzioni tecniche che permettono
di riprodurre l’opera in contesti inaccessibili all’originale, andando incontro al
fruitore. Se è possibile mantenere intatta la consistenza dell’opera, ciò che
vacilla è l’autorità, o, per meglio dire, l’aura, il cui significato travalica l’ambito
artistico. La riproduzione sottrae infatti il prodotto alla tradizione, ponendo al
posto di un evento unico una sua grande quantità.
Modi e generi di percezione si sono modificati nel corso delle epoche, tanto che
alcuni studiosi viennesi dell’epoca delle invasioni barbariche si opposero alla
tradizione classica sotto cui era stata sepolta ogni arte. Se i medium
contemporanei hanno causato la decadenza dell’aura, superandone l’unicità
tramite la ricezione della sua riproduzione e la liberazione dell’oggetto dal suo
involucro, essi hanno tuttavia avvicinato spazialmente e umanamente le opere,
rispondendo all’esigenza delle masse.
L’opera muta il suo valore a seconda della tradizione a cui è legata: da oggetto
di culto per i Greci, la statua di Venere diventò un idolo maledetto per i monaci
medievali. Le opere più antiche sorsero infatti al servizio di un rituale magico e
poi