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Scuola di Francoforte a coniare l’espressione “industria culturale”, carica di
significati negativi in quanto vista come la causa della riduzione della cultura a
una merce funzionale allo sfruttamento capitalistico. Si aprì, quindi, una stagione
di diffidenza degli intellettuali (benché non manchino posizioni riformiste come
quella di Benjamin) verso i prodotti di massa e il nuovo linguaggio introdotto
dalla televisione, che aveva causato la “mondanizzazione delle arti”, ovvero la
contaminazione tra cultura alta e bassa, mettendone in discussione il confine.
Nella società americana, in cui il principale segno di status è sempre stato
l’economic ability (e non il capitale culturale), il mercato ha sempre svolto la
funzione di contraltare alla società dei privilegi delle useless aristocracies. Ne
deriva che la cultura dovesse essere resa accessibile all’uomo comune, anziché
favorire l’eccellenza. La questione del prodotto da affermare obbliga quindi gli
scrittori ad utilizzare un linguaggio comprensibile che favorisse l’avanguardia
delle ricerche e le discussioni sull’attualità.
Al polo opposto troviamo la visione autoritaria e classista degli alfieri della
protesta romantica contro la vita contemporanea. In realtà, nella società di
massa si consuma più cultura e, quindi, anche più cultura alta, malgrado la
riduzione in percentuale rispetto alla cultura bassa abbia portato a coniare il
termine “postmoderno”, che simboleggia l’aura artistica acquisita da fenomeni e
materiali un tempo ritenuti marginali.
Si inizia a parlare di “politically correct”, per riassumere il rispetto e l’attenzione
per le minoranze e gli stili di vita presenti nella società. La messa in discussione
dei canoni tradizionali porterà alla diffusione dei cultural studies, inaugurati dalla
Scuola di Birmingham, che sottopongono i prodotti culturali ad uno sguardo
multiprospettico, in relazione al contesto storico e politico ed al suo significato
sociale.
L’approccio “dal basso” dà voce a gruppi culturalmente silenziosi, così come
avevano fatto le televisioni private. Secondo la definizione di Montani, la cultura
diventa quindi il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e
spirituale, nonché l’insieme di prodotti e valori umani che caratterizzano il
costume. L’audience televisiva perde la sua brutalità, diventando un qualcosa da
analizzare con rispetto, smascherando i rapporti tra il potere e la cultura, spesso
funzionale ad un’élite intenzionata ad educare la massa.
Dagli anni 50, i quotidiani legittimano argomenti un tempo non ritenuti
caratterizzati da una dignità culturale, eliminando la distinzione tra arte pura dal
valore spirituale e arte commerciale di successo, che ora convivono nella culture
society. La democratizzazione culturale (che mirava ad estendere il canone
culturale dell’élite) è infatti distinta dalla democrazia culturale, che stimola la
produzione autonoma del popolo. La società consumistica logora i legami e le
differenze sociali, avvicinando gli argomenti di discussione di tutte le classi, con
la cultura televisiva a fare da codice comune e fonte di competenza, grazie alla
mediazione del giornalista o del critico, che portano il prodotto culturale
all’attenzione del grande pubblico.
L’incontro tra industrie e culture locali porterà alla nascita di telenovelas
sudamericane e della Bollywood indiana. La cultura popolare non è più oggetto di
citazione ironica, ma si appropria di prodotti delle élite univore con gusti
sofisticati, riciclandole a uso di audience immense di giovani onnivori e masse
con gusti semplici e omologati imposti. Mentre i gruppi con un alto status
culturale non risultano avere gusti selettivi, gli status più bassi con una dieta
culturale povera ne fanno uno strumento identitario con cui distinguersi dagli altri
gruppi dello stesso livello.
Essendo una scelta tra quelle che Levine definisce “highbrow” e “lowbrow”
(cultura elitaria o di massa) economicamente poco conveniente, Jenkins
descriverà una “cultura convergente”, in cui non si distinguono indirizzi
mainstream. Uno stesso oggetto culturale è infatti esteso su più piattaforme
(Beethoven diventa una suoneria del telefonino). Ciascun medium rivolge uno
sguardo diverso all’oggetto, sfruttando supporti tecnologici che rendono il
consumo più partecipativo, sebbene ciò non si traduca in una lettura critica
consapevole. Oggi, anziché la classe di appartenenza, i media si basano su fattori
come genere ed età per trovare valori condivisi su cui costruire i prodotti.
In Italia, la cultura di massa esplode negli anni 70, ma già all’inizio del Novecento
si affermano musica lirica, periodici femminili, gialli Mondadori, fumetti,
pubblicità, film di Hollywood e romanzi, malgrado la tradizione ostile ai prodotti di
massa e ai nuovi media. “L’Unità” oscillava tra tendenze populistiche e
controtendenze elitarie, cercando di allargare verso il basso l’area di fruizione
della cultura. Negli ultimi anni si è registrata una marginalizzazione delle arti
tradizionali, con la perdita di centralità del libro a favore di media elettronici che
rendono gli utenti subalterni, compromettendone il sapere critico e la capacità di
attenzione e concentrazione.
L’eccesso di informazioni causerà infatti la scomparsa delle priorità e l’emergere
di frivolezza e spettacolarizzazione che attivano dopamina e, quindi, dipendenza
e noia in caso di assenza di stimoli, sebbene multitasking e connessione affinino,
in realtà, la consapevolezza sociale.
Malgrado quella contemporanea sia definita la “società dell’informazione” (in
quanto la tecnologia sforna continuamente strumenti per comunicare), oggi si
parla di “industria dell’intrattenimento”, espressione che ha una connotazione
peggiorativa rispetto a “industria culturale”, poiché indica la dimensione di
evasione che ha occupato il tempo libero.
Secondo Stangata, essa può essere suddivisa in: industrie creative (cinema,
fotografia, musica, editoria letteraria e videogiochi), dello spettacolo (lirica,
musica classica e leggera, teatro, circo ed arti di strada) e infine industria del
design e della cultura materiale (made in Italy e prodotti gastronomici). Negli
ultimi decenni si è manifestata una forte tendenza all’oligopolio nel mercato
editoriale: alcune conglomerate editoriali possiedono infatti diversi media e sono
sia produttrici che distributrici di entertainment.
In America, le industrie creative sono spesso finanziate da fondi di investimento e
quindi sensibili alle variazioni di mercato, ma riescono a fronteggiare la
frammentazione dell’audience vendendo un aggregato di prodotti diversi in un
unico pacchetto. La tendenza all’omologazione è dovuta, secondo il giornalista
Franklin, alla predilezione per ciò che interessa il pubblico e non di ciò che è di
pubblico interesse. In Italia, essendo molto forte la cross media ownership, ossia
la proprietà di media differenti, gruppi editoriali sono contemporaneamente
editori, distributori e librai.
Se già nella seconda metà del XVII secolo gli editori pubblicizzavano i loro libri
sui giornali attraverso finestrelle, oggi la pubblicità è diventata l’anima della
stampa. Essa costituisce il 70-80% delle entrate dei quotidiani americani e ne
influenza volume, struttura e contenuti, proprio perché la vendita di pubblicità
dipende dalla diffusione. Ne deriva che i giornali che vendono maggiormente
sono più corposi anche a causa dello spazio occupato dalla pubblicità, sebbene
oggi la crisi della stampa cartacea abbia causato un calo pubblicitario che a sua
volta ha portato alla chiusura o al restringimento di molti giornali.
Se negli anni 60 e 70, grazie all’emancipazione femminile e alla disponibilità
economica, arte e commercio avevano instaurato un rapporto proficuo
(stimolando gli investimenti dei grandi giornali americani), dagli anni 80 si assiste
alla segmentazione del mercato (la cosiddetta “targettizzazione dei lettori”) e alla
crescita della foliazione, non accompagnata, tuttavia, da un maggiore tempo di
lettura. Aumentano le features (riquadri di approfondimento e cronaca leggera)
che rispondono al desiderio dei lettori, a scapito delle hard news (notizie “pure).
Oggi gli aspetti commerciali sono stati affidati ai responsabili del marketing, tanto
che i broadsheet papers inglesi oggi combinano una parte principale broadsheet e
un tabloid con le features, mostrando una maggiore sensibilità verso un lettore
medio, ma conservando la matrice pubblicitaria mirata. La sezione Arts fu infatti
inclusa nel comparto popolare Entertainment, che attraeva più pubblicità. La
stampa si preoccupò anche del fattore prestigio sociale, trovando un punto di
incontro tra lettori con ricco portafogli e lettori con ricco capitale culturale in
cerca di articoli che rafforzino il proprio status sociale, realizzando una
biforcazione tra inserti ibridi di cultura popolare ed alta ed inserti specializzati per
nicchie importanti, creando un omnibus in cui la descrizione di fenomeni della
cultura contemporanea si accompagna a un superficiale pot-pourri.
In America, la maggiore importanza della readership rispetto alla diffusione ha
portato allo sviluppo di raffinate ricerche finalizzate ad accontentare gli
imprevedibili mutamenti nei gusti delle varie nicchie di pubblico, anche a costo di
impoverire un prodotto che si cerca di rendere onnicomprensivo. Se da un lato la
rete ha permesso di avere un profilo preciso dei gusti del pubblico, dall’altro ha
conseguentemente favorito il rischio di concentrazione su temi facili.
In Italia i giornali vivono per il 47% sulla pubblicità, in quanto l’ordinamento
giuridico non prevede vincoli asimmetrici nella distribuzione delle risorse
pubblicitarie tra la tv e la carta, i cui investimenti pubblicitari andrebbero invece
maggiormente protetti. Il pericolo che un eccesso di inserzioni possa provocare
un effetto negativo nei lettori aveva spinto, fino a qualche anno fa, ad
estromettere la pubblicità dalle pagine culturali (sebbene esse attirassero
comunque meno pubblicità rispetto alle altre sezioni del giornale).
I gruppi più grandi promuovono inoltre indagini specifiche per l’uscita di
particolari inserti, ma per la maggior parte dei casi le novità rappresentano
scommesse giornalistiche. La grafica ha assunto un’importanza centrale nelle
features, mentre la ricerca stilistica è testimoniata