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FLOCH E IL SUO LEVI-STRAUSS
Saggio che vuole essere un omaggio a Jean-Marie Floch, semiologo francese.
Forte istanza di sistematicità nei suoi lavori, un pensiero fortemente strutturato, a vocazione
scientifica.
Levi Strauss è un autore di riferimento per Floch, ed è quasi sempre presente nei suoi lavori con
citazioni esplicite, idee riprese, suggerimenti accolti, come modello da cui trarre ispirazione.
Nel primo volume esplora le mitologie. È la fase della scoperta del semi-simbolismo (modello ricavato
dalle Mythologiques di Levi Strauss), che punta su un funzionamento generale delle relazioni
immanenti.
Floch sviluppa la capacità di cogliere al volo le isotopie fondamentali degli universo di senso, è ne sono
la prova l’elaborazione dei migliori quadrati semiotici che sono stati riferimenti essenziali per le
ricerche successive (continuità/discontinuità, uso semiotico delle categorie wollfiniane di classico e
barocco…)
Il secondo volume tratta dei fenomeni del marketing e della pubblicità, per la convinzione di poter
usare la teoria semiotica per interpretare la contemporaneità.
Se i suoi primi lavori sono sistematici, identites visuelles, segna il passaggio ad una visione più
dinamica, attenta alle trasformazioni. Introduce la nozione di bricolage tratta da Levis Straus.
Tema dell identità, con particolare attenzione a come l’identità si trasforma, un identità bricolata, fatta
di figure del mondo preso in prestito estratte dal loro contesto e ricollocate secondo dettati di
significatività nuovi.
Ritorna la questione dello stile: darsi un identità (che l’evento sia occasionale o intenzionale) significa
ricombinare pezzi e segni secondo configurazioni che possono essere colte soltanto in quanto a
realizzazioni di uno stile, stile come forma, sensibilizzata dell’effetto di senso. Gli effetti di senso
convocano la dimensione dell’apprezzamento estetico, comportano una decisione di gusto, un
momento in cui l’identità sensibile si offre come un tutto.
Già Levis Strauss aveva insistito sulla chiusura della dimensione dell bricolage, in contrapposizione
con l’apertura degli universi.
Questo saggio serve a dare indicazioni importanti per una teoria della significazione che si rivolge alla
dimensione significante delle pratiche.
SEMIOSFERA
Marsciani tenta di risolvere alcuni nodi di comprensione legati al concetto di semiosfera: quante sono
le semiosfere, cos’è il confine di una semiosfera e come la semiosfera è costituita al suo interno.
Lotman per semiosfera intende lo spazio semiotico in cui siamo inseriti, uno “spazio vitale” di segni
che costituiscono un continuum semiotico all’infuori del quale non è possibile la semiosi.
La semiosfera è una perché “le parti di un sistema semiotico non possono esistere separatamente;
ognuna di esse funziona realmente soltanto se è immersa in un continuum semiotico pieno di
formazioni di tipo diverso collocate a vari livelli di organizzazione”.
Ma sono tante perché a più riprese viene espressa l’idea di “semiosfere per ciascuno”. Idea di più
semiosfere (più spazi culturali) che rappresentano uno spazio di pertinenza relativa, che incontrano
altre semiosfere e sono il relazione con esse. Secondo questa accezione possiamo pensare ad uno
spazio intersemiosferico che è condizione di esistenza delle semiosfere stesse; uno spazio che
renderebbe conto del fatto che ogni semiosfera ha un proprio interno, ma anche un sistema di
relazioni che la connette ad un altro universo culturare, altra semiosfera, altra testualità.
Il confine assume per la semiosfera un’importanza cruciale.
Nella sua accezione di Una, la semiosfera prevede un confine che tende ad escludere tutto ciò che è
altro da sé, e fuori dal quale non vi è nulla.
Ma nella sua accezione di Molteplice la semiosfera, fuori dal suo confine, incontra l’altro da sé
(metafora del barbaro), che non è nulla. In questo caso le relazioni tra le semiosfere non per forza
devono essere laterali, possono darsi semiosfere incassate le une nelle altre.
Il concetto di semiosfera deriva dal concetto di biosfera di Vernandskij, in quanto luogo delle
trasformazioni tra materia e energia. Questo luogo non ha nulla di sferico, non deve essere immaginata
come sfera che divide uno spazio interno e uno spazio esterno, bensì come un confine in relazione del
quale un interno e un esterno possono venire a delimitarsi.
Il confine è un elemento necessario della semiosfera perché questa ha sempre bisogno di un ambiente
esterno “non organizzato”, e quando manca se lo crea: così l’antichità si è costruita i “barbari”. Lo
spazio “non semiotico” è pertanto, evidentemente, lo spazio di un’altra semiotica: le posizioni e i valori
delle culture dipendono così dalla prospettiva dell’osservatore.
Lo spazio interno della semiosfera sarebbe il luogo in cui si articola l’opposizione stabilità/dinamismo.
Al centro vi sarebbero lo strutture, o forme o testi più stabili, nella forma periferica invece le strutture
e le forme più fluide e dinamiche.
La figura delle semiosfera potrebbe semplicemente essere rivalutata in funzione secondaria e accessoria, nel senso che
potrebbe essere intesa come una risposta all’esigenza di collocare in una dimensione “reale” le relazioni dinamiche di
simmetria/asimmetria che più premevano all’autore. Così accolta e interpretata, la semiosfera sembra allora dover o
poter trovare un suo posto tra le grandi metafore semiotiche che sorreggono le teorie e le pratiche semiotiche stesse:
ad esempio Eco e L’Enciclopedia, dove il problema è quello della rappresentazione dello spazio semantico e dove la
pratica semiotica consiste nel seguire i percorsi dell’interpretazione; Lotman e la Semiosfera, dove il problema è quello di
una dinamica delle culture attraverso un’immagine vitale dei testi come organismi (fascino della “biosfera” di Vernadskij)
o “personalità” e dove la pratica semiotica consiste nello studiare come i testi interagiscono e modificano lo spazio reale
che definiscono; Greimas e il Percorso Generativo, ovvero la forma semiotica dell’universo di significazione, dove il
problema è quello di costruire una teoria delle condizioni della significazione e dove la pratica semiotica consiste né più
né meno che nella descrizione della testualità dei testi, cioè dei loro modi di significare.
L’OCCHIO, LO SPIRITO E LA SCRITTURA
Alcune riflessioni sul saggio di Maurice Merlau-Ponty l’Oleil et L’Esprit (l’occhio e la mente - 1960),
ultima tra le opere pubblicate in vita dall’autore.
Il tema filosofico:
Fa sua la classica critica fenomenologica allo scientismo contemporaneo (tendente ad
attribuire alle scienze fisiche e sperimentali, e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i
problemi e i bisogni dell'uomo)
La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Per manipolare le cose del mondo bisogna
osservarla ad una certa distanza, per obbiettivarle. Merleau Ponty parla di mani, in funzione di
protesi, che incarnano bene il concetto di distanza. Sono però mani che hanno rinunciato ad un
corpo, perché abitare le cose è pertinenza del corpo. La scienza si è fatta pura manipolazione e
ha rinunciato al corpo e al suo mondo-ambiente.
L’autore invece per scrivere l’Oleil et L’Esprit si cala nell’ambiente, che è un ambiente
“pittorico”, prescelto da molti pittori, vicino ad Aix En Provence. “calarsi in ambiete” significa
mettersi in una condizione di ascolto attivo, che è tipico del pittore, per trasformare l’invisibile
in visibile.
La filosofia, come la pittura e la letteratura fa proprio questo: mostra l’invisibile che anima il
visibile, un invisibile che non trascende il mondo visibile, ma che lo abita, come il nostro corpo
abita le cose.
La scrittura filosofica
Merleau Ponty riesce a sottrarsi da quelli che sono gli artifici filosofici e tenta di dare vita ad una
parola nuova.
Nel testo si nota una trasformazione tra la prima e l’ultima parte.
L’Oleil et L’Esprit si divide in 5 capitoli
1. Interamente dedicato alla polemica con la tradizione scientista.
La prima cosa che salta agli occhi è la cancellazione delle marche dell’enunciazione (Io-qui-
ora), procedura discorsiva che serve per prendere le distanze e quindi obbiettivare ciò che si
dice. In questo modo si crea una distanza per cui le “cose” appaiono per “quello che sono”,
indipendentemente dalle valutazioni.
Solo a fine capitolo appaiono ancora timidamente (es. “Ora”, che segna la ripresa del corso del
discorso da parte del soggetto dell’enunciazione). E il capitolo termina con una serie di
interrogative, che sottolineano dubbi dello scrivente (anticipano le modalità del capitolo
successivo)
2. Merleau Ponty si “mette in ascolto”. Si articola un’argomentazione discorsiva.
il soggetto dell’enunciazione è presente, ma non è presentato in un “isolamento lirico”, bensì è
messo in relazione con un “noi”.
Instaura un dialogo con altri pensatori, per farsi suggerire la strada che deve imboccare. Quasi
come se Merlau Ponty si trovasse a presiedere un dibattito a cui anche egli contribuisce.
Le citazioni infatti spesso costituiscono porzioni degli stessi periodi di M.P.
3. Dedicato alla critica a Descartes.
L’attribuzione discorsiva è quella della negazione e della contrapposizione: tutto quello che
abbiamo detto fino ad ora, Descartes lo rigiuta, lo nega. È Descartes contro di noi, quel noi che
si era costituito nel capitolo precedente. È isolato, ed è lui stesso che ha generato questa
separatezza (con il suo pensiero che, appunto, nega le tesi precedenti).
4. Si mette nuovamente in ascolto e interroga la visione così come è quella del pittore, convinto
che lì si celi un mistero (il segreto di guardare in pittura) per comprendere come il pensiero
può tornare al mondo.
Poi il capitolo si snoda sui problemi della pittura, trattandone alcuni: la profondità, il colore,
la linea, il movimento.
La pittura è lo sforzo di esprimere l’invisibile che anima il visibile. La filosofia deve compiere lo
stesso percorso, con i suoi mezzi (i mezzi del linguaggio), per descrivere le cose che animano il
mondo.
5. Pittura come il mantenimento del contatto con il mondo, con il mondo visibile, perché la
pittura scava al cuore del visibile per cui nessuna opera segna una tappa in un percorso
lineare, ma cont