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Del resto lo stesso Aristotele aveva sostenuto la necessità che
nell’azione drammatica la catastrofe e la catarsi finale fossero
precedute da lunghe peripezie. Vedi anche in tal senso
l’esempio che ci viene dal film di Sturges(storgis), Bad day at
black rock angherie per un’ora e mezzo subite da un uomo di
colore il quale in una scena, che non è ancora il finale del film,
sferra un pugno ad uno dei “persecutori”, un pugno così
potente da scaraventarlo fuori dal bar, dopo aver sfondato la
porta. Questo momento di scioglimento violento arriva inatteso
: se l’attesa fosse stata più breve e lo spasimo minore, la
catarsi non sarebbe stata così piena. Eco nota che al cinema
dopo questo colpo violento molti degli spettatori si alzavano ed
uscivano(erano quelli che erano entrati all’inizio della
“delectatio morosa” ed erano rimasti fino a quel momento per
godere ancora una volta di quel momento catartico). Il
tempo dello spasimo non serve solo a catturare l’attenzione
dello spettatore ingenuo di primo livello ma anche a stimolare
il godimento estetico dello spettatore di secondo livello. Un
caso paradigmatico di delectatio morosa, di tempo dello
spasimo, di indugio enorme che si dilata per centinaia di
pagine e che serve a preparare un momento di gioia senza
limiti, ci è dato dalla Divina Commedia. Il viaggio dantesco non
è altro che un lungo, interminabile indugio,nel quale si
affrontano tematiche di ogni tipo e figure le più disparate,
“solo” per arrivare al momento in cui il poeta vedrà qualcosa
che non è capace di esprimere, perché “gli cede la memoria a
tanto oltraggio”. Dante dice di non riuscire ad esprimere quello
che ha visto e, indirettamente, chiede al lettore di immaginare
quello che lui non riesce a descrivere. Il lettore è soddisfatto:
attendeva dall’inizio quel momento in cui si sarebbe trovato
faccia a faccia con l’Indicibile, pur sapendo dall’inizio che
quell’incontro sarebbe sfumato in un abbagliante silenzio. Per
provare quell’emozione era necessario quel lungo viaggio
precedente, nel corso del quale non si era perduto del tempo:
si erano apprese delle cose sul mondo(che è poi la miglior
sorte che possa capitare a ciascuno di noi).
Fanno parte dell’indugio narrativo molte descrizioni Fleming
riserva lunghe descrizioni a scene di vita quotidiana e comune
mentre liquida in poche battute gli avvenimenti più drammatici
come la lotta con uno squalo. Questo espediente non ha la
sola funzione di far rientrare le opere di Fleming nella
letteratura “alta”(si ritiene che ciò che distingue questa dalla
letteratura “bassa” sia l’abbondanza di descrizioni della
prima). No. Fleming rallenta sull’inutile e accelera
sull’essenziale, perché rallentare sul superfluo ha la funzione
della delectatio morosa(piacere prodotto dal testo) ma anche
perché sa che le storie più drammatiche sono quelle
raccontate in modo più concitato. La stessa strategia(prima) è
usata da Manzoni: ci fa attendere spasmodicamente l’evento
che narrerà ma la differenza è che gli non prende tempo
descrivendo l’inessenziale(Don Abbondio che si interroga su
che cosa fare rappresenta la società italiana sotto il dominio
spagnolo).
Altra funzione dell’indugio descrittivo: il tempo
dell’insinuazione S. Agostino, si interroga sulle superfluitates,
sulle descrizioni inutili in cui talvolta la Bibbia si perdeva. Dio
perdeva tempo indulgendo alla poesia mondana?
Evidentemente no! Quelle descrizioni, quei rallentamenti del
testo suggerivano al lettore di interpretarle, di leggere quanto
era descritto come un allegoria o un simbolo. Un altro esempio
ci è dato da Sylvie, quando viene descritto l’orologio del
Narratore, orologio non funzionante ma fastoso, d’oro.
L’indugio in tal caso non viene usato per rallentare l’azione o
per spingere il lettore a passeggiate inferenziali. Serve, allora,
a suggerirgli che deve prepararsi ad entrare in un mondo in cui
la misura del tempo conta poco o nulla, una dimensione, come
in un’opera di Dalì, si sono rotti o liquefatti.
A volte Nerval divaga per pagine e pagine: questo indugio
serve ad esprimere il tempo dello smarrimento,cioè serve a
rinserrare il lettore nel bosco del tempo, da cui potrà uscire
solo con grandi sforzi e in cui finirà per rientrare.
C’è un altro modo di indugiare nel testo e perdervi tempo allo
scopo di rendere lo spazio. Come può un testo produrre nel
lettore la sensazione di avere sotto gli occhi ciò che gli viene
raccontato? Uno dei modi di rendere l’impressione dello spazio
è di dilatare, rispetto al tempo della fabula, il tempo dle
discorso come quello della lettura. Vedi ancora incipit Manzoni,
cioè la lunga descrizione del lago di Como. La descrizione
manzoniana procede associando due tecniche
cinematografiche: lo zoom e il rallentatore. Si ha una sorta di
ripresa fatta da un elicottero che atterra lentamente(o una
sorta di sguardo divino). Si ha un primo movimento continuo
dall’alto verso il basso, a una dimensione geografica. Poi si
passa dalla dimensione geografica a quella topografica(si vede
un ponte e si distinguono delle rive). Poi i monti vengono visti
di profilo, come se la prospettiva non fosse più quella di Dio
ma di un uomo. A questo punto Manzoni dopo essersi
abbandonato a quest’ampia descrizione geografica, inizia a
narrare la storia del luogo. L’incipit dei Promessi Sposi non è
solo un esercizio di descrizione paesaggistica: è un modo di
preparare il lettore a leggere un’opera il cui principale
protagonista è qualcuno che guarda dall’alto le cose del
mondo.
Lecture four: i boschi possibili.
Nel momento in cui il lettore si approccia ad un testo narrativo,
deve assumere una regola fondamentale: quella di accettare,
tacitamente, un patto funzionale con l’autore, quello che Coleridge
chiamava “sospensione dell’incredulità”. Il lettore deve sapere che
quella che gli viene raccontata dall’autore è una storia
immaginaria, senza per questo dover essere portato a vedere in
essa una menzogna.
L’autore fa finta di fare un’affermazione vera e accettiamo il patto
funzionale e facciamo finta che quello che egli racconta sia
realmente accaduto.
Eco, capitolo 115 del Pendolo di Foucault, un lettore si era
documentato alla Biblioteca Nazionale e aveva scoperto che nel
posto in cui si trovava il protagonista quella notte vi era stato un
incendio, di una certa entità dato che ne avevano parlato i giornali.
Perché il protagonista non se ne era accorto- chiede questo lettore
empirico ad Eco-? Vedi anche vicenda Vittorio Emanuele III.
Il fatto è che quando entriamo nel bosco narrativo ci si richiede di
sottoscrivere il patto finzionale con l’autore e ciò comporta da un
lato una sospensione dell’incredulità, dall’altro il fatto che noi
sospendiamo l’incredulità solo riguardo a certe cose e non ad altre.
Peraltro molto ambigui sono i confini tra ciò a cui dobbiamo credere
e ciò a cui non dobbiamo credere.
Il fascino di ogni narrazione,sia essa verbale o visiva, è il fatto che
essa ci chiuda entro i confini di un mondo e ci induca a prenderlo
sul serio. Facciamo subito un esempio, cioè l’incipit de “La
metamorfosi” di Kafka: “Destandosi un mattino da sogni inquieti
Gregor Samsa si ritrovò tramutato in un enorme insetto”. È l’inizio
di una storia fantastica: o ci crediamo o la buttiamo via da subito.
La cosa interessante è che subito dopo Kafka descrive
minuziosamente questa trasformazione e dunque il nuovo aspetto
di Samsa: è straordinario che un uomo si svegli tramutato in un
insetto ma se così dev’ essere è necessario che questo insetto
abbia la fisionomia degli insetti che conosciamo. La descrizione
kafkiana, così, finisce col risultare non un esempio di surrealismo
ma di realismo. Così come quella successiva, in cui Kafka descrive
la stanza di Gregor, “una normale stanza per esseri umani”. E dopo
i familiari di Gregor non si chiedono, è vero, come tale
trasformazione sia avvenuta(cosa che faremmo noi nel “mondo
reale”) ma comunque, esattamente come faremmo noi, sono
disgustati, sconvolti e terrorizzati. Per costruire un mondo assurdo,
insomma, Kafka ha bisogno di inserirlo sullo sfondo del mondo
reale. Un altro esempio ci è dato Flatlandia, di Abbott, in cui egli
dimostra la possibilità che esistano delle linee rette, triangoli,
quadrati che si muovono liberamente, sulla superficie di un vasto
foglio di carta, e che non possono riconoscersi a vicenda(come del
resto avviene ai marinai quando avvistano da lontano una costa o
un’isola che potrà essere ricca di golfi insenature rientranze e
sporgenze ma i marinai da lontano non vedranno altro che la linea
dell’orizzonte). Abbott di un fatto impossibile deduce le condizioni
di possibilità per analogia con ciò che è possibile nel mondo reale.
Tutta l’esperienza geometrica acquisita nel mondo reale viene
chiamata da Abbott in causa per rendere possibile questo mondo
irreale. Per quanto inverosimile, il mondo di Abbott è pur sempre un
mondo geometricamente e percettivamente possibile
Ci sono invece casi di testi narrativi che esibiscono la loro
impossibilità(sono i casi di narrativa autocontraddittoria). Eppure
anche per questi universi narrativi impossibili possiamo dire con
certezza che perché possano esistere, essi debbano avere come
sfondo ciò che è possibile nel mondo reale. Ciò significa che i mondi
narrativi sono parassiti di quello reale. Non c’è una regola che
prescriva il numero degli elementi finzionali accettabili ma è certo
che tutto ciò che il testo non descrive come diverso dal mondo
reale, debba essere inteso come corrispondente alle leggi e alla
situazione del mondo reale. Ad esempio in Sylvie(il narratore va in
carrozza fino a Loisy. Se si leggono le pagine che descrivono quel
viaggio, si nota che il cavallo non viene mai nominato. Eppure c’è.
Ci deve essere. Se scoprissimo che quella carrozza non fosse stata
trainata dal cavallo penseremmo di aver sbagliato genere e dunque
di trovarci,magari, in una Gothic Novel, anziché in una storia di
sentimenti delicati e impalpabili in perfetto stile romantico. Dunque
quel cavallo, sebbene mai nominato, in Sylvie c’è.