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Estratto del documento

Le storie di Rex Stout si svolgono a New York, e il lettore accetta che esistano personaggi

chiamati Nero Wolfe, Archie Goodwin, Fritz o Saul Panzer. Ma se accettiamo che la casa di

Wolfe fosse là dove non c’era e non c’è, non potremmo invece accettare che Archie Goodwin

prenda un taxi sulla Fifth Avenue e gli chieda di portarlo in Alexanderplatz perché

Alexanderplatz è a Berlino.

Sembra quindi che il lettore debba conoscere troppe cose sul mondo reale per poterlo

assumere come sfondo di un mondo fittizio; se così fosse un universo narrativo sarebbe una

strana terra: da un lato, in quanto ci narra solo la storia di alcuni personaggi, di solito in un

luogo e un tempo definiti, dovrebbe apparire come un piccolo mondo, infinitamente, più

limitato del mondo reale; ma in quanto contiene il mondo reale come sfondo, aggiungendovi

soltanto alcuni individui e alcune proprietà ed eventi, è più vasto del mondo della nostra

esperienza. In un certo senso, un universo finzionale non finisce con la storia che racconta,

ma si estende al nostro, ma più povero.

In realtà i mondi della finzione sono, sì, parassiti del mondo reale, ma mettono tra parentesi la

massima parte delle cose che sappiamo su di esso, e ci permettono di concentrarci su un

mondo finito e conchiuso, molto simile al nostro, ma più povero. Poiché non possiamo uscire

dai suoi limiti, siamo spinti a esplorarlo sempre più in profondità.

Per questo “Sylvie” ci è parso così magico: esso richiede certo che noi sappiamo qualcosa su

Parigi, sui Valois, persino su Rousseau e sui Medici, visto che li nomina, e tuttavia quello che

ci chiede è di camminare nei suoi confini senza porci troppe domande sul resto dell’universo.

Leggendo “Sylvie” non possiamo escludere che in quella storia ci fosse un cavallo, ma

nessuno ci chiede di sapere troppo sui cavalli; al contrario, ci si chiede di apprendere sempre

qualche cosa di nuovo sui boschi di Loisy.

Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla

immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. Leggendo

romanzi sfuggiamo all’angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul

mondo reale: questa è la funzione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini,

dell’umanità, raccontano storie. Che è poi la funzione dei miti ovvero il dar forma

dagli inizi

al disordine dell’esperienza.

Sulla base di questo concetto di verità si è molto discusso su cosa voglia dire che una

asserzione sia vera in un mondo narrativo: la risposta più ragionevole è che essa è vera nel

quadro del Mondo Possibile di quella data storia.

Sarebbe vero nel mondo possibile dell’Amleto che Amleto non sposa Ofelia, così come è

che Rossella O’Hara sposa Rhett Butler.

vero nel mondo possibile di Via col vento

Noi pensiamo che nel mondo reale debba valere il principio di Verità (Truth), mentre nei

mondi narrativi deve valere il principio di Fiducia (Trust), eppure anche nel mondo reale il

principio di Fiducia è tanto importante quanto il principio di Verità.

Il modo in cui accettiamo la rappresentazione del mondo reale non è diverso dal modo in cui

accettiamo la rappresentazione del mondo possibile rappresentato da un libro di finzione. Io

faccio finta di sapere che Rossella abbia sposato Rhett così come io faccio finta di sapere che

Napoleone abbia sposato Giuseppina. La differenza sta ovviamente nel grado di questa

fiducia: la fiducia che do a Margaret Mitchell è diversa di quella che do agli storici. Io accetto

che i lupi parlino solo quando leggo una fiaba, e per il resto mi comporto come se i lupi

fossero quelli descritti nei congressi di zoologia.

Noi leggiamo romanzi perché essi ci danno la sensazione confortevole di vivere in un mondo

dove la nozione di verità non può essere messa in discussione, mentre il mondo reale sembra

essere un luogo ben più insidioso. Questo “privilegio (tacito patto tra l’autore e il

aletico”

lettore, il quale si impegna ad accettare i contenuti della trama per come gli vengono

proposti) dei mondi narrativi ci permette persino di riconoscere alcuni parametri per decidere

se la lettura di un testo narrativo vada al di là di quelli che ho altrove chiamato “i limiti

dell’interpretazione”. I lettori possono inferire dai testi quello che essi non dicono

esplicitamente (e la cooperazione interpretativa è basata su questo principio), ma non possono

far sì che i testi dicano il contrario di quel che hanno detto.

Abbiamo detto che ogni universo narrativo si basa, in misura parassitaria, sull’universo del

mondo reale che gli fa da sfondo. Possiamo lasciar cadere un primo problema, e cioè cosa

accada a un lettore che porta nel mondo narrativo informazioni erronee circa il mondo reale.

credendo che all’epoca la Russia fosse governata dai

Se qualcuno legge Guerra e Pace

comunisti, capirebbe assai poco di quanto accade a Natasa e a Pierre Besuchov. Ma abbiamo

detto che il profilo del lettore modello è disegnato dal (e nel) testo. Naturalmente Tolstoj non

si sentiva in dovere di informare i suoi lettori che non era stata l’Armata Rossa a battersi a

Borodino, ma egli ha tuttavia provvisto sufficiente informazione sulla situazione politica e

sociale della Russia di quei tempi. Non dimentichiamo che Guerra e pace inizia con un lungo

russa all’inizio

dialogo in francese, e questo dice molte cose sulla situazione dell’aristocrazia

dell’Ottocento. In realtà l’autore non deve solo presupporre il mondo reale come sfondo della

propria invenzione, deve anche e continuamente dare al lettore informazioni su aspetti del

mondo reale che probabilmente il lettore non conosce.

L’autore non solo si preoccupa di contrattare fatti ed eventi fittizi su cui richiede l’assenso del

lettore, ma si preoccupa anche di fornirgli quelle informazioni sul mondo reale che non è

sicuro che il lettore possegga, e che ritiene indispensabili alla comprensione del suo racconto.

I lettori debbono sia far finta che l’informazione finzionale sia vera, sia prendere per vere le

provviste dall’autore.

informazioni storico-geografiche

Dunque, non solo l’autore chiede al lettore modello di collaborare sulla base della sua

competenza del mondo reale, non solo gli provvede quella competenza quando non ce l’ha,

non solo gli chiede di far finta di conoscere le cose sul mondo reale che il lettore non

conosce, ma addirittura lo induce a credere che dovrebbe far finta di conoscere delle cose che

invece nel mondo reale non esistono.

5. Lo strano caso di via Servandoni

In ogni asserzione che contenga nomi propri o descrizioni definite, si suppone che il

destinatario assuma come indiscutibile l’esistenza dei soggetti di cui viene predicano

qualcosa. Se qualcuno mi dice che non ha potuto venire a un certo appuntamento perché sua

moglie si è improvvisamente ammalata, la mia reazione spontanea è prendere anzitutto per

buona l’esistenza di quella moglie. È solo nel caso che poi venga a sapere che il locutore è

scapolo, che penserò che abbia mentito per la gola. Ma sino a quel momento, per il fatto

stesso che quella moglie è stata posta nel quadro discorsivo attraverso un atto di menzione, io

non ho ragioni per credere che non esista.

Che cosa accade quando in un testo narrativo l'autore pone, come un elemento del mondo

reale, che fa da sfondo al mondo possibile della finzione, qualcosa che nel mondo reale non

esiste e non si è mai verificato?

Ne “I limiti dell’interpretazione” ho insistito sulla differenza tra interpretare e usare un testo.

Oggi ho “usato” I tre moschettieri per concedermi una appassionante avventura nel mondo

della storia e dell’erudizione. In effetti, vi confesso che mi sono molto divertito a percorrere a

Parigi tutte le vie nominate da Dumas, e a consultare vecchie piante del XVIII secolo, tutte

peraltro molto imprecise. Con un testo narrativo si può fare quel che si vuole, e io mi sono

divertito a giocare il ruolo del lettore paranoico e a controllare se la Parigi del XVII secolo

corrispondesse o meno a quella descritta da Dumas. Ma facendo così io non mi sono

comportato da lettore modello, e neppure da lettore empirico normale.

Per sapere chi era Servandoni occorre una buona cultura artistica, e per sapere che Rue des

Fossoyeurs era Rue Servandoni occorre una cultura molto specialistica. È impossibile che il

testo di Dumas, che si presenta stilisticamente e narrativamente come un romanzo storico

popolare, si rivolga a un lettore talmente sofisticato. Quindi il lettore modello di Dumas non è

tenuto a conoscere il particolare irrilevante che Rue Servandoni si chiamasse nel 1625 Rue

des Fossoyeurs, e può proseguire tranquillamente la sua lettura.

Perché non accetteremmo che d’Artagnan svoltasse per via Bonaparte e invece accettiamo

che svolti per via Servandoni? È ovvio: perché quasi tutti sanno che era impossibile che nella

Parigi del XVII secolo esistesse una Rue Bonaparte, mentre pochissimi sanno che non poteva

esistere Rue Servandoni, e questa è la prova che non lo sapeva neppure Dumas.

Ma allora il nostro problema non riguarda l’ontologia dei personaggi che abitano mondi

narrativi, ma il formato dell’Enciclopedia del lettore modello. Il lettore modello previsto dei

“Tre moschettieri” ha curiosità e gusto per la ricostruzione storica non erudita, conosce

Bonaparte, ha un’idea abbastanza vaga della differenza tra il regno di Luigi XIII e quello di

Luigi XIV, tanto che l’autore gli fornisce molte informazioni sia all’inizio che nel corso del

racconto, non intende andare negli archivi nazionali per controllare se esistesse davvero

all’epoca un conte di Rochefort.

Deve anche sapere che all’epoca di d’Artagnan era già stata scoperta l’America? Il testo non

azzardare che se d’Artagnan avesse incontrato in

lo dice né induce a inferirlo, ma potremmo

via Servandoni Cristoforo Colombo, il lettore dovrebbe stupirsi.

Noi lettori empirici siamo certamente commossi a sentir citare Rue Servandoni, perché lì ha

sull’angolo di Rue Servandoni, perché

abitato Roland Barthes, ma Aramis non poteva abitare

questa vicenda si svolge nel 1625 mentre l’architetto fiorentino Giovanni Niccolò Servandoni

è nato nel 1695, nel 1733 ha disegnato la facciata della chiesa di Saint-Sulpice, e quella via

gli è stata dedicata solo nel 1806. ma ora il testo è lì, noi lettori obbedienti dobbiamo seguire

le sue istruzioni, e ci troviamo in una Parigi del tutto reale, simile alla Pari

Dettagli
A.A. 2018-2019
18 pagine
SSD Scienze politiche e sociali SPS/08 Sociologia dei processi culturali e comunicativi

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher alessandro.lora-1993 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storytelling e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Lughi Giulio.