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LA MAFIA IN PSICOTERAPIA
La mafia è sempre stata una declinazione della criminalità del potere, un instrumentum regni di cui
si sono serviti significativi settori delle classi dirigenti per alterare quello che Giovanni Falcone
chiamava il “gioco grande”. Dopo una lunga fase storica in cui si negava l’esistenza della mafia, si
è passati negli anni ’70-’80 alla sua riduzione a semplice accozzaglia di criminali in eterna lotta fra
loro. La contaminazione del sapere non ha lasciato indenne neppure la psichiatria. Girolamo Lo
Verso racconta come abbia iniziato a studiare sistematicamente la psicologia mafiosa nel 1994
prendendo spunto dalle perizie del “caso Vitale”, uno dei primi pentiti di mafia dei tempi moderni.
Leonardo Vitale era divenuto un uomo d’onore nel 1960. Nel Marzo 1973 denunciò molti boss, tra
cui Riina, Ciancimino e Calò. Nonostante le sue dichiarazioni avessero anticipato molte delle
rivelazioni che saranno rese da Buscetta nel 1984, il Vitale non fu creduto e le persone da lui
accusate furono tutte assolte. Dopo essere stato sottoposto a numerose perizie psichiatriche, fu
rinchiuso per 10 anni nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Trascorsi due mesi
dal suo ritorno in libertà, venne ucciso all’uscita da una chiesa, di fronte alla sua famiglia. La
conclusione a cui approdò Lo Verso fu che Vitale diceva la verità, ma poiché quella verità era
destabilizzante per “l’Ordine costituito” fu dichiarato pazzo dai periti sensibili alle esigenze del
potere. In quel deserto culturale, specchio di una colossale rimozione collettiva, i pochi magistrati
che si avventurarono nell’universo mafioso dovettero improvvisarsi involontari psicologi, sociologi,
antropologi etnologi. Tra questi Giovanni Falcone: ‹era una persona informata di psicologia. Era
psicologa la sua prima moglie con cui visse per molti anni. Erano psicoterapeuti, psicoanalisti e
psichiatri i suoi intimi amici. Del suo “metodo” faceva parte anche la capacità analitica di gestire un
adeguato set(ting). Buscetta non parlò mai, nemmeno sotto le torture della polizia militare
brasiliana. Parlò con Falcone perché si “fidava” di lui e lo stimava. Uno “sbirro” verace che, pur
restando rigorosamente nel suo ruolo di nemico, capiva che aveva a che fare con un “generale di
un esercito di uomini d’onore” e non con un delinquente qualsiasi da minacciare e maltrattare.
Entrambi erano cresciuti nel centro storico di Palermo, e quindi Falcone capiva bene con chi
aveva a che fare. In sostanza, Falcone capiva che il punto di vista dell’altro per te può essere folle
e sintomatico (in questo caso criminale), ma per lui è sacro, è la sua identità senza la quale
impazzisce. Per questo Buscetta parlava con lui›. Ci volle il trauma collettivo delle stragi del 1992
perché le coscienze si scuotessero. Inizia la stagione dei collaboratori di giustizia. Il “perturbante”
a lungo rimosso esce fuori da vaso di Pandora e si scopre che la linea di confine tra la città
dell’ombra abitata dai portatori del male di mafia e la città della luce popolata dagli innocenti,
diventa sempre più evanescente. Vengono chiamati in causa i potenti, rivelando che il male che
combattiamo fuori di noi è anche dentro di noi. Un popolo di piccoli don Rodrigo senza la cui
protezione e complicità personaggi come Riina, eredi dei bravi di manzoniana memoria, sarebbero
scomparsi dalla scena. Ed è a questo punto che, ancora una volta, il “perturbante” viene rimosso.
Si tratta di un fenomeno straordinario perché replica quasi le stesse dinamiche di rimozione
messe in opera dai singoli individui quando il loro Io non riesce a governare il perturbante che li
abita. Il silenzio impenetrabile della borghesia mafiosa è rotto solo dalle macchine: le microspie
delle intercettazioni ambientali rimettono in scena il fuori scena censurato dall’omertà culturale
collettiva. Appare chiaro che lo strumento concettuale classico di tipo individualistico era
inadeguato a studiare lo psichismo mafioso. Una realtà complessa richiede per definizione
strumenti di studio complessi, altrimenti si possono cogliere soltanto pezzetti di questa realtà e
non spiegare, per esempio, la sostanziale omologazione identitaria dei membri di cosa nostra tra
di loro. Oppure, come la cultura mafiosa e cosa nostra riuscissero a costruire dei robot che
fossero impastati di un fondamentalismo sino al punto da non lasciare tracce emotive
dell’uccidere, nemmeno a livello inconscio onirico. La Gruppoanalisi soggettuale approfondisce il
rapporto tra mondo interno e il campo psichico familiare. Uno degli aspetti più rilevanti è che la
mafia non genera solo una grande sofferenza psichica nel modo delle vittime a essa esterno, ma
anche al proprio interno nei rapporti tra i membri, che può sfociare in una vera e propria
psicopatologia. ‹l’appartenenza ad una famiglia mafiosa genera una “matrice di pensiero” che
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ostacola il processo di soggettivazione. L’individuo è all’interno di un pensiero già pensato dal
mondo familiare al quale è difficile e colpevolizzante e spesso terrificante trasgredire›.
La mafia prima ancora che un’organizzazione criminale, si è rivelata un vero e proprio
“organizzatore psichico” che opera secondo le seguenti modalità:
Il mafioso costruisce la propria identità in una famiglia satura, nel senso che non è possibile
- un’autonomia di pensiero per i figli;
Le famiglie mafiose si caratterizzano per un’elevata presenza di segreti familiari. In esse è
- vietata qualsiasi forma di comunicazione reciproca e non è tollerabile l’incontro con la
diversità, psichica e culturale;
I modelli relazionali sono “psicopatologici” nel senso che la mafia impone un’obbedienza a
- priori e un assoggettamento psichico dei suoi membri, che non hanno possibilità di pensieri
divergenti. Questo fenomeno è così forte che persino i collaboratori di giustizia o pazienti in
psicoterapia non riescono a separarsene interamente.
INQUADRAMENTO
Sembra, da varie ricerche sui sopravvissuti dei lager o dei gulag, e in genere delle persone
recluse in prigioni totalitarie, che la cosa più atroce per le vittime è l’essere non visti, ridotte a
cose, a fastidiosi scarafaggi che kafkianamente se muoiono tolgono problemi. Quindi il mondo
mafioso ha strumentalizzato il detto siciliano “essere nuddu ammiscatu cu nenti”, che diventa un
incubo per il mafioso.
Tra il 1994 e il 1995 con il vasto fenomeno dei collaboratori di giustizia e la dura reazione dello
Stato che era seguita alle stragi, si aprirono grandi crepe nel monolite mafioso. Molti figli
adolescenti cominciarono ad essere portati dalle madri presso i servizi pubblici di salute mentale.
Avevano solitamente seri problemi d’identità, ansia, tossicodipendenza, panico, che si
manifestavano soprattutto in termini di sconvolgimento emotivo, e altre problematiche di natura
psicologica. Il fenomeno aveva valenza storica. Fino a quel momento era impossibile che
appartenenti a famiglie di mafia chiedessero un aiuto alla psicoterapia. Ma, i padri erano latitanti,
carcerati morti o collaboratori di giustizia che la mafia cerava di uccidere.
MAFIA IN PSICOTERAPIA
Ma i mafiosi vanno in psicoterapia? Le mafie hanno sempre usato la psichiatria. L’uso delle perizie
per ottenere sconti di pena o di evitare il carcere è sempre stata una costante della strategia
mafiosa. Con le lusinghe e la paura i boss hanno spesso avuto psichiatri compiacenti che
spiegavano loro come meglio produrre simulazioni di malattia. L’ampia ricerca sulle mafie
meridionali realizzata contattando tutti gli psicoterapeuti di Calabria, Sicilia e Campania ha fatto
emergere solo tre casi di mafiosi in psicoterapia (di cui due sono camorristi). Il mafioso Doc viene
da una famiglia di mafia e ha un training mafioso che inizia molto prima della sua nascita. Egli non
ha un’identità soggettiva. È una “non persona” e in quanto tale non può vivere conflitti interiori che
lo possano portare in psicoterapia. I mafiosi con cui abbiamo parlato sono collaboratori di giustizia,
cioè persone che hanno rotto con cosa nostra e hanno fortissimi e drammatici conflitti interiori.
Queste persone hanno bisogno di sostegno psicologico se si vuole che resistano e non
impazziscano, e di una terapia analitica espressive se si vuole aiutare un processo trasformativo.
Detto ciò, la psicopatologia esiste in questo mondo, la forma principale che essa assume è il “non
esserci”, non avere un’identità soggettiva, ma solo emozioni primitive e dilaganti: paura, odio,
onnipotenza e potere. Questo induce negli altri paura, paranoia, umiliazione e uccisione della
libertà di scelta e di vivere. In Sicilia coloro che cercano sostegno psicologico sono pazienti
motivati, spesso parenti di uomini d’onore, che molto hanno sofferto la vicinanza a questo mondo
e che attraverso la psicoterapia ricercano modelli d’identificazione alternativi. Tutto ciò sembra
muovere nei clinici siciliani un desiderio di accudimento e sollecitudine destinato a nutrire uno
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spazio psichico di autonomia che per lungo tempo è stato costretto o soffocato dal pensare
mafioso. La Calabria è la regione che ha risposto di meno alle ricerche ed è chiaro come questo
rientri nella fenomenologia della ‘ndrangheta, la quale descrive una mafia rudimentale, chiusa,
rinserrata nelle sue cellule familiari. La Campania è stata la regione più feconda, in cui si registra il
maggior numero di adolescenti che intraprendono un percorso di psicoterapia. Qui infatti l’orrore
delle guerre tra le cosche si consuma alla luce del sole e lo spargimento di sangue è il mezzo più
frequente utilizzato per la regolazione dei conti. Il vissuto dei pazienti sarebbe più traumatico e la
situazione terapeutica percepita come in continuità con una realtà esterna minacciosa e
persecutoria.
La mafia è tragica e mortifera e il riso e ogni forma di piacere sono in essa sconosciuti. Il mafioso
Doc non conosce il piacere, non gusta il buon cibo, gli abiti, i lussi. Non conosce l’eros, lo scambio
relazionale e la complicità sessuale con le donne, frequenta le mogli con veloci rapporto
procreativi. Il potere viene prima di ogni cosa. Per fare un parallelismo, lo stesso sembra
Berlusconi (come raccontava un paziente) con i rapporti a pagamento con le ragazze che tengono
lontani i rapporti reali, ma celano l’angoscia da prestazione, la vecchiaia, il terrore della morte.
Una forma di esaltazione narcisistica che cela enormi debolezze e un’illusione