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Un disturbo somatico, una malattia cronica, hanno impatti notevoli sulla vita di una persona che ne
può essere sconvolta non solo per gli effetti sulla salute, le conseguenti inabilità, ma anche per il
modo di reagire ad essa che ha degli effetti emotivi che entrano in gioco nelle relazioni familiari,
lavorative, sociali, ed elaborarla con effetti spesso psicologici depressivi e di natura ansiosa. La
presenza di disagio psichico provoca, inoltre, più ricadute e recidive dell’affezione somatica e
minore sopravvivenza. Risulta quindi evidente la necessità di mettere a punto interventi
psicoterapici che accolgano la sofferenza psicologica di chi è affetto da malattie fisiche. Gli
obiettivi dell’intervento vanno centrati sulla riduzione del disagio psichico e sul favorire
l’adattamento alla malattia, il miglioramento delle relazioni con gli altri, un aumento della
compliance al trattamento medico e di comportamenti rivolti alla salute, il miglioramento della
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malattia stessa. L’intervento psicoterapico elettivo è rappresentato dal gruppo omogeneo per
patologia e spesso, anche, per stadio e sede della malattia, che favorisce il raggiungimento di
obiettivi specifici. Anche in questo caso il gruppo offre immediatamente il confronto con l’altro,
proponendosi come lo spazio e il luogo dove si può superare l’isolamento e la solitudine, la
sensazione che non ci sia nessuno che possa capire e condividere i propri problemi. I gruppi
omogenei possono avere caratteristiche di setting diverse a seconda della tipologia dell’intervento,
per cui cambiano gli obiettivi, la durata, la dimensione, il formato. I gruppi vengono raggruppati in
3 grandi aree: i gruppi psicoeducazioni hanno obiettivi informativi e in genere hanno durata breve,
possono essere aperti, semiaperti o chiusi; i gruppi cognitivo-comportamentali sono centrati
sull’acquisizione di capacità, competenze e comportamenti adeguati ad affrontare la malattia, hanno
durata breve e sono chiusi; i gruppi cognitivo-comportamentali ad orientamento dinamico-
relazionale sono finalizzati all’apprendimento degli aspetti legati alla malattia, con l’esplicitazione e
la messa in comune dei vissuti e dei significati simbolici a essa relativi, e degli aspetti relazionali da
essa attivati, hanno durata breve e possono essere sia aperti che chiusi. La scelta del tipo di gruppo
cambia anche in funzione del contesto in cui si opera e del tipo di malattia.
Cap.4: Gruppi in (?) azione per la salute mentale
Nel costume riabilitativo-psichiatrico contemporaneo campeggiano per la loro frequenza gruppi
espressivi (grafico-pittorici, musicali, psicomotori, teatrali, ecc) connotati o meno come “terapia”;
gruppi a carattere comunitario, gruppi occupazionali. Un prima caratteristica comune a questi
gruppi è che sono tutti basati sul “fare” che si profila come il terreno più adatto per lo svolgersi dei
processi evolutivi e co-costruttivi, per il lavoro sul simbolico; l’azione è il loro riferimento tematico
e spesso anche il loro vettore comunicativo. Gruppi a prevalente mediazione verbale in cui però,
accanto alla parola, altrettanto protagonista è il corpo con la sua trama comunicativa fatta di gesti,
movenze, “azioni interpretative”. Essi si pongono a cerniera tra la dimensione intrapsichica e il
sociale, specie se si tratta di gruppi intermedi. Il gruppo intermedio è considerato “traspositivo” per
distinguerlo da “trans ferale”, poiché è luogo di coesistenza e attraversamento del sociale e del
mondo interno, di socializzazione dei singoli e di trasformazione culturale della società. Non a caso,
è nel moltiplicarsi e nel differenziarsi di gruppi intermedi che si affermano e si sviluppano le nuove
pratiche di salute mentale e di intermediazione locale. Si inseriscono in questo contesto i gruppi di
danza-movimento-terapia. La prima caratteristica di questi gruppi è che sempre meno sono
strutturati pensando a specifiche categorie nosografiche, quanto piuttosto a elementi che attengono
all’area dell’autonomia, alla composizione del gruppo nel suo insieme, agli obiettivi dell’intervento.
Sulla base di questi elementi, i gruppi si rivolgono a soggetti che presentano un grado significativo
di autonomia personale, o che richiedono un’elevata intensità di presa in carico. In questo secondo
caso, il setting può essere costruito in funzione di prevalenti obiettivi terapeutici. Possono essere di
piccoli dimensioni o medio-grandi. Nel primo caso, nel gruppo a valenza terapeutica favorisce la
creazione della matrice interpersonale; nel gruppo a valenza riabilitativo-funzionale consente di
mantenere l’attenzione su ciascun individuo, nonché di svolgere i prevalenti lavori collettivi.
Invece, i gruppi medio-grandi attingono alle peculiarità dei gruppi intermedi. Entrambi i tipi di
gruppi mirano al risveglio corporeo e alla riorganizzazione funzionale. Nei gruppi riabilitativo-
funzionali questi obiettivi racchiudono il senso dell’intervento, veicolando nel contempo potenti
valenze motivazionali e costituendo, per i soggetti assai regrediti o ipoevoluti, i presupposti di un
progresso anche nell’area relazionale. Nei gruppi terapeutici su questa base si sviluppa una vera e
propria restaurazione narcisistica, l’esperienza di un corpo in grado di accedere alla dimensione
simbolico-espressiva e comunicativa. È opportuno che questi gruppi abbiano carattere continuativo,
frequenza possibilmente settimanale e breve durata. L’ideologia di una conduzione non direttiva va
bandita da questi gruppi. Nei gruppi riabilitativi-funzionali è richiesta una conduzione attiva,
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spesso, con proposte a valenza psicoeducativa da parte del terapeuta; nei gruppi a valenza
terapeutica, il terapeuta assume gradualmente una conduzione semidirettiva, nella misura in cui è il
gruppo stesso a svolgere la funzione di contenitore strutturante. Il gruppo è guidato da uno staff, che
debba aver effettuato un training professionale in danza-movimento-terapia di almeno 3 anni; per i
gruppi a valenza terapeutica, sarebbe opportuno che il conduttore fosse un danza-movimento-
terapeuta di profilo clinico, o che almeno un operatore di profilo clinico fosse presente nello staff.
Cap.5:Lo Psicodramma Classico. Percorso critico attraverso l’intuizione di
Moreno
Il termine psicodramma dal greco psyche e drama (drao: opero, agisco) nasce negli 20 ad opera di
J.L. Moreno, psichiatra e sociologo appassionato di teatro. Moreno approfondisce percorsi di ricerca
e di lavoro teatrale, nel 1921 fonda lo Stegreiftheater, il teatro della spontaneità i cui attori
improvvisati recitano episodi della vita quotidiana. Fu grazie a quest’esperienza e in particolare
attraverso quello che oggi è conosciuto come il “caso di Barbara” che egli matura le sue riflessioni
circa l’effetto catartico e terapeutico della rappresentazione psicodrammatica. La catarsi diventa
centrale nell’impianto concettuale di Moreno, secondo il quale, essa è conseguente ad un’acme
emozionale in cui diventa possibile rompere nel “protagonista” le resistenze, producendo una
liberazione dal passato attraverso la presa di coscienza. Non è l’agire come “scarica motoria” a
essere di per sé terapeutico, né si tratta di una cura con l’azione, ma egli spiega, uno stato emotivo si
traduce in azione e questo rende possibile la liberazione dai confini. I suoi sforzi vanno oltre, egli
cercò di sistematizzare una teoria e definì lo psicodramma come: “la scienza che esplora la verità
con metodi drammatici” attraverso la “spontaneità e la creatività”. Centrale diviene perciò il
concetto di ruolo, legato alla possibilità e alla varietà di “parti” che la persona acquisisce e
interpreta nel corso della propria esistenza. La personalità viene vista come costituita da un insieme
di ruoli, grazie anche alle relazioni che si stabiliscono con gli altri, e la patologia può nascere nel
momento in cui tali ruoli diventano rigidi e sclerotizzati, bloccando creatività e spontaneità in
“conserve culturali”. La drammatizzazione diventa un mezzo attivo che consente di ricreare in una
situazione terapeutica la possibilità di esternare bisogni, sentimenti, conflitti di ruolo senza la
presenza delle resistenze, permettendo di sperimentare in uno spazio protetto nuove modalità
espressive. Lo psicodramma, in quest’ottica, diventa una palestra di “ricondizionamento ai ruoli”
per apprendere e creare nuovi modi di entrare in contatto con la “spontaneità originaria”. L’eredità
che ha lasciato Moreno non è legata a queste considerazioni teoriche, ma proviene dagli spunti della
tecnica da lui elaborati. Egli ha dato spazio al gruppo (anche se il gruppo non è il fulcro della sua
attenzione) e soprattutto ha introdotto la rappresentazione come mezzo attivo per far emergere gli
affetti. La tecnica moreniana dello psicodramma si fonda, per definizione, su alcuni strumenti
attraverso i quali, diventa possibile quello che è il fine ultimo della rappresentazione: la catarsi. Gli
strumenti sono: il palcoscenico/ la scena; il protagonista; il direttore (regista); gli Io-ausiliari;
l’uditorio. Oltre a questi elementi, all’interno dello psicodramma vi è un’importante regola del
setting, dell’organizzazione del lavoro che caratterizza questo tipo di intervento: il fare “come se”.
La scena
Essendo lo spazio privilegiato all’esplicarsi dell’azione è importante, per Moreno, che abbia una
precisa conformazione al fine di permettere uno svolgimento fluido della rappresentazione. Tutto
quello che avviene sulla scena contribuisce, in maniera decisiva a integrare la totalità dell’azione
drammatica, cioè si gioca anche con lo spazio e con gli oggetti della scena, sulla quale il racconto si
realizza. Il palcoscenico è diviso in 2 parti, l’uditorio in cui sono posti, seduti in fila, gli spettatori e
il palco in cui agisce il protagonista.
Il protagonista 7
Moreno definisce protagonista l’attore principale della sessione psicodrammatica, quel membro del
gruppo che propone un problema, una storia da mettere in scena, con la collaborazione del direttore,
degli Io-ausiliari e dell’uditorio. La posizione centrale del protagonista, a discapito di un’attenzione
al gruppo, rende lo psicodramma di Moreno essenzialmente un intervento rivolto “al singolo” in
gruppo.
Il direttore
Il direttore (o terapeuta) è il promotore dell’azione, colui che guida la rappresentazione,
organizzando il materiale emotivo che emerge nella sessione. Egli ha un ruolo attivo e propositivo e
svolge 3 diverse funzioni tra loro intersecate: è il regista de