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Questo vale anche per lo psicologo e il suo cliente. Una proposta collusiva sarà
accettabile, per chi pone la domanda, soltanto se possono essere individuati, insieme allo
psicologo, i suoi obiettivi di sviluppo, che comportano la necessità di conoscere le risorse di cui si
dispone. Il lavoro che caratterizza tutto l’intervento, è verificare se chi si rivolge allo psicologo
abbia obiettivi di sviluppo e non di mera conferma della propria usuale dinamica neoemozionale in
cui fagocitare anche lo psicologo. Tuttavia, l’inizio dell’intervento, è momento di particolare
rilevanza, in cui si testa e si conviene, da parte della coppia psicologo-richiedente, se impegnarsi
o meno in quel complesso processo di continua, ripetuta verifica degli obiettivi di sviluppo. Si
tratta, in altri termini, della fondazione del setting.
Allo psicologo si richiede di utilizzare la dinamica neoemozionale con cui viene avvicinato dal
cliente, per capire che senso abbia, per il cliente stesso, la relazione in cui vuole convocare lo
psicologo. Quest’ultimo non può reagire, immediatamente e collusivamente; lo psicologo non
dovrà essere preso dall’urgente ricerca di una definizione di sé e del proprio ruolo nel rapporto,
attraverso l’agito di una dinamica collusiva. Sospendere l’agito neoemozionale è difficile. Ecco,
allora, che può venire in soccorso dello psicologo la risorsa offerta dal mandato sociale. Entro un
rapporto di committenza, la funzione dello psicologo va costruita e convenuta in rapporto agli
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obiettivi di chi pone la domanda. Va capito, da parte degli psicologi in formazione, come vivono la
relazione tra mandato e committenza. A questo scopo sono più utili setting organizzati da uno
scopo produttivo. La psicologia ha spesso pensato ai suoi strumenti come tecniche applicabili a
prescindere dal contesto. Anche il gruppo è stato proposto come strumento senza contesto. Il
gruppo con relazioni faccia a faccia si propone come una sorta di unità stabile e costante della
relazione sociale; con il gruppo, si fa allo stesso tempo ricerca e apprendimento. Il gruppo per la
formazione alla psicologia clinica, in ambito universitario, esplora le fantasie con le quali le
persone che ne fanno parte simbolizzano le specifiche funzioni presenti in quel determinato
contesto. Nei contesti formativi è stato sempre utilizzato il resoconto.
Capitolo terzo - La formazione in psicologia clinica: considerazioni sul metodo
L’accordo sul fatto che la psicologia clinica richieda una formazione che metta in relazione teorie
ed esperienza è ampio. Se entriamo in merito alla questione, tuttavia, si delineano differenze
sostanziali. Fondamentale, per la psicologia clinica che abbia come obiettivo lo sviluppo, la
competenza ad istituire il setting d’intervento, che preveda le analisi delle sue condizioni istituenti;
analisi che dovrà facilitare l’assetto collusivo atto allo scambio. Analisi che includerà lo stesso
contesto formativo. Anche per quanto concerne la formazione c’è una diversità tra cultura della
tecnicalità, che prevede un contesto dato, e cultura dell’intervento psicologico, fondata su una
teoria del contesto. Solo la tecnicalità può convivere con l’agito di appartenenze mai pensate,
entro le organizzazioni in cui ci si forma alla tecnica. A lungo si è supposto che la situazione
formativa per eccellenza, in ambito clinico, sia la cosiddetta formazione personale; ovvero
un’esperienza di psicoterapia. Ritendendo centrale la conoscenza di sé, della propria dinamica
inconscia. Se tale dinamica è vista
esclusivamente come dimensione intrapsichica, la sua conoscenza sarà perseguibile entro il solo
setting psicoterapeutico. La conoscenza delle dinamiche inconsce è centrale; ma intendendo con
dinamiche inconsce quelle dimensioni relazionali, organizzati insieme dalla vita sociale, è
insufficiente allo scopo il setting psicoterapeutico. E’ essenziale per lo psicologo clinico conoscere
la dinamica emozionale. Quindi il setting opportuno per formarsi in psicologia clinica non può
prevedere la scissione tra conoscenza delle proprie, idiosincratiche, modalità inconsce e
apprendimento alla tecnica.E’ quindi importante un setting dove si propongano metodologie e
strumenti per conoscere la relazione tra il mondo interno e il rapporto con gli altri e col contesto.
Quest’insieme di conoscenze costituisce la competenza organizzativa dello psicologo clinico. Un
primo problema-risorsa: il sapere psicologico è preparadigmatico. L’invito è superare la cultura
della contingenza, per approdare ad una considerazione più stabile e centrale: la psicologia clinica
non può avere un paradigma analogo a quello delle scienze “normali”. Qui è centrale
l’interpretazione, non l’osservazione. Un secondo problema-risorsa: nell’ambito dell’intervento
psicologico, nell’istituirsi della relazione tra modelli collusivi e professionali, è sempre in atto un
rapporto biunivoco. Per disporre di modelli professionali è necessario avere cognizione dei modelli
collusivi implicati. Per lo psicologo clinico è importante essere consapevole delle proprie scelte
teoriche, metodologiche, tecniche; si richiede inoltre la cognizione delle proprie fantasie. Il setting
formativo consente la conoscenza della propria implicazione entro le dinamiche collusive, quindi
l’apprendimento a costruire la relazione. Un
terzo problema-risorsa: il sapere psicologico rimanda ad una competenza integrativa e non
sostitutiva; alla costruzione di committenza. Ciò rende complesso il rapporto tra psicologo e
cliente.
1. La formazione in psicologia clinica come integrazione di teorie ed esperienza
La formazione ad una prassi di intervento richiede che si mettano in rapporto teorie ed esperienza.
Tuttavia, molti docenti universitari dubitano che ciò sia possibile. Si evoca, ad esempio, la
mancanza di risorse. Sappiamo bene che le risorse sono scarse; si tratta quindi di valutare come
sono distribuite quelle a disposizione. Un’altra obiezione è di natura metodologica, e fa riferimento
al fatto che: poiché l’esperienza fondamentale nella clinica è l’esperienza su di sé, la formazione
universitaria, con il suo carattere collettivo e istituzionale, con i suoi scopi di trasmissione del
sapere che richiedono tutt’altro assetto, con la sua tradizione di ricerca che così a lungo è stata
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scissa dalla clinica, non può essere “clinica”. Si parla così di formazione personale. Rimandando,
per la conoscenza di sé, a un altro luogo e a un altro metodo: la psicoterapia.
2. Un sapere paradigmatico
Nell’ambito della formazione in psicologia clinica, nel proporre categorie entro le quali identificarsi,
il docente deve muoversi con prudenza. L’ipotesi di frequentare una scuola di psicoterapia, dopo
l’università, diventa una prospettiva salvifica, in quanto comporta una scelta univoca tra le varie
componenti scisse presenti entro la formazione universitaria. Dove identità, appartenenza e
sapere coincidono e si sovrappongono in modo confuso. A partire dal limite, si possono
individuare le risorse. Nel caso della formazione in psicologia clinica, l’assenza di un paradigma
consolidato può essere utilizzata. Non solo proponendo agli studenti di assumere una posizione
critica, ma si può fare anche di più: avviandosi alla comprensione della differenza sostanziale tra
le discipline che sono fondate sull’apprendimento dell’ortodossia del paradigma, e discipline che
sono volte di contro all’esplorazione delle anomalie per conferire loro un significato. Riteniamo
allora che la clinica sia riferibile al cosiddetto paradigma indiziario. Ma prima si deve far riferimento
alla soggettività E’ la soggettività, infatti, se vista come implicazione emozionale con l’oggetto, che
ci permetterà di capire in un modo specifico, da psicologi, il paradigma indiziario.
3. Tra naturalismo e centralità della soggettività
Una distinzione utile per definire la propria scelta professionale è la diade “mandato
sociale/committenza”. Un secondo passo consiste nell’istituire un setting formativo, entro il quale
individuare e analizzare i modelli collusivi che si stanno agendo in quel senso.
4. Il paradigma indiziario
“La propensione a obliterare i tratti individuali di un oggetto è direttamente proporzionale alla
distanza emotiva dell’osservatore”. Così ci dice Ginzburg nella sua proposta di distinguere tra i
paradigmi galileiano e indiziario; qualificando il primo con la presa di distanza emozionale, il
secondo con la vicinanza. Dandoci la chiave per capire la specificità della psicologia clinica: la
vicinanza emozionale all’oggetto, senza per questo rinunciare alla conoscenza. Piuttosto,
supponendo che la conoscenza sia perseguibile solo accettando e utilizzando tale vicinanza. Si
tratta di una conoscenza che non rinuncia alla specificità. In questa forma di sapere, l’attenzione
verte sulle anomalie. Nel campo psicologico-clinico sono le anomalie e gli eventi critici che
permettono l’acquisizione di un senso nella relazione tra psicologo e chi pone la domanda. Le
anomalie segnano fratture entro gli automatismi collusivi esistenti. Si tratta, quindi, del profilarsi di
altri assetti collusivi rispetto a quelli abituali. Assetti potenziali che l’intervento, attraverso la
relazione con lo psicologo entro cui sperimentare dinamiche collusive alternative a quelle esistenti
ma in crisi, può volgere verso lo sviluppo. Tutt’altra è la posizione in proposito nella psicologia che
si propone di risolvere un deficit. Lì le anomalie
sono trattate come scarti dal modello atteso. Quindi, centralità delle anomalie. Al tempo stesso,
grazie alle anomalie assunte come indizi, si risale a sistemi complessi di dati. L’individualità
dell’evento entra in rapporto con articolazioni più ampie di informazioni, che la trascendono.
L’individualità alimenta e arricchisce il sistema. Le anomalie, se assunte come indizi, permettono
di risalire a sistemi complessi di dati, non sperimentabili direttamente. Importante ricordare, di
contro, come le anomalie siano sperimentabili. Tra rilevazione di dati sperimentabili e sistema non
sperimentabile che si ipotizza a partire da essi, c’è l’interpretazione, della quale non si può fare
ameno. Il paradigma indiziario permette di avventurarsi nella conoscenza di eventi che implicano
grandi quantità di variabili, non tutte controllabili. Come il comportamento umano. La funzione di
dare senso, di connettere, del mettere insieme i dati, trasformandoli in informazioni, è centrale.
Costruzione di senso, s&igr